“Addije” è un concept album. L’ensemble a vocazione mediterranea, nato circa otto anni fa intorno ai percussionisti Simone Pulvano (riqq, darbuka, daf, sajat) e Gabriele Gagliarini (darbuka, cajon, djembe, davul, daf), pone al centro l’idea delle migrazioni, che rappresentano da sempre una costante per le genti, e dietro le quali c’è sempre una separazione: un “addio”, per l’appunto. Su questi temi sono intessuti i repertori di tradizione orale di ogni parte del mondo. Scrivono i Takadum nelle note di presentazione del loro terzo album, che arriva ad un paio d’anni dal precedente “Suoni al confine” e a cinque dall’esordio eponimo: «I popoli nel corso dei secoli si sono sempre “spostati”, per motivi politici, economici, religiosi, spesso costretti e spinti dall'idea di un posto migliore in cui vivere. Tra mito, storia e fantasia, i brani raccolti rappresentano diversi aspetti di un’unica idea, quella del viaggio, per fuggire, per raggiungere o semplicemente per sognare. Ogni viaggio, se non promette un ritorno, garantisce un addio…». Ciò che accomuna i nove brani proposti, non è la ricerca filologica, ma è la determinazione nel far interagire storie, melodie, ritmi e timbri. Così, tanto per capirci, succede nell’addio d’apertura: la celebre, tragica vicenda della Cecilia, rivisitata con il titolo di “Ballata del dolor”, che spinta dal ritmo dei tamburi si tinge di tempi dispari balcanici, si appoggia alle linee del contrabbasso di Bruno Zoia, il cui ingresso ha apportato rotondità timbrica e robustezza ritmica al gruppo, si riempie dei ricami dell’organetto della guest star Alessandro D’Alessandro (direttore dell’Orchestra Bottoni), incorpora nel finale belle polifonie bulgare (le voci sono di Lavinia Mancusi e Valeria Villeggia, primedonne della band, da anni impegnate nel lavoro di ricerca su testi e canti). Se è vero che il gruppo ha fin dalle origini una propulsione precipuamente percussiva, e nel disco suonano Fabrizio Mastromartino (darbuka), Giovanni Squillacioti (darbuka, riqq, daf), Emanuela Maccioni (doholla), Michela La Perna (doholla), Gaetano Schillaci (doholla), Umberto Baruffaldi (daf), Antonella Milano (davul), nonché, come ospite, il produttore e fonico Paolo Modugno (daf, mani), non meno avvincenti sono le trame armoniche e melodiche apportate dalla tromba di Gianpaolo Casella: ascoltatela in “Verso Est”, che poi è “Chad Gadja”, il canto ebraico di Pesach (fatto proprio da un riccioluto autore italiano nel suo disco del 1976), a simboleggiare la diaspora ebraica, o nel successivo “150 lire” (“L’america”, canto salentino d’emigrazione), dove la chitarra di Alessandro Floridia e le percussioni tratteggiano un quadro sonoro che ci porta oltreoceano, richiamando la musicalità andina. Ziad Trabelsi, voce e ûd dell’Orchestra di Piazza Vittorio, entra nel popolare chaabi algerino “Ya Rayah” (“Tu che parti”), scritto nel 1970 da Dahmane El Harrachi a dialogare con la chitarra flamenco di Floridia. Il brano va in controtendenza, perché qui ci si interroga sul senso di sradicamento, c’è disillusione, c’è sofferenza riguardo alle promesse mancate della migrazione: “Tu che parti, dove vai? Finirai per tornare. / Quanti ingenui se ne sono pentiti prima di te e di me. / Tu che parti, dove vai? Finirai per tornare. /Quanti ingenui se ne sono pentiti prima di te e di me./ Quanti paesi sovrappopolati e quante terre deserte hai visto? / Quanto tempo hai perso? E quanto ne perderai ancora prima di lasciar stare? / Oh emigrato nella terra di altri, quanto ancora dovrai correre? /Il destino e il tempo seguono il loro corso, ma tu li ignori”. Invece, ha un tratto solenne e austero il corale “Canto d’Esilio”, su ritmo di jaleo (che sfocia con naturalezza in un tzamiko greco, dal quale – spiega Gabriele Gagliarini – probabilmente deriva), dove c’è ancora l’intervento del mantice ispirato di D’Alessandro, un brano che assomma “So’ stato a lavorà a Montesicuro” (raccolto da Firrao nel viterbese negli anni ‘60, che ricordiamo nella versione di Caterina Bueno) e “Bingöl”, motivo tradizionale armeno che parla della diaspora del popolo caucasico. Di nuovo l’insieme dell’ensemble nella rielaborazione di “Moj e bukura more”, il këngë arbëreshë, elogio della terra lontana, accorato nella prima parte nel suo avanzare a tempo di fandango, progressivamente vorticoso nel suo sviluppo, finché va a incontrare a meraviglia, di qua dall’Adriatico, il canto abruzzese “Nebbi’ a la valle”, che rispecchia, all’opposto, la sofferenza del lavoro nella propria terra. Dalla sponda sud, si fa strada baldanzoso “Mb lala mb la”, dall’elevato e virtuosistico tasso percussivo, costruito sul ritmo di filastrocche in uso in Egitto. Poi, dal cilindro esce il contrasto de “Il cammello e il dromedario” dal repertorio dell’indimenticabile Quartetto Cetra”: qui l’incipit è andaluso, poi si procede spediti su ritmo maqsum fino alla finale citazione carosoniana. L’impetuoso epilogo (cui è sotteso un altro addio, ma che evoca anche nuove partenze e una rinnovata speranza), “Balkadum”, è a tempo di čoček – potrebbe essere letto come un tributo all’esodo del popolo rom – dove tra destrezze sinuose di violino, una tromba arrembante e l’esplosione di pelli percosse, ci trasferiamo in Serbia evocando il treno (la chitarra riproduce lo sferraglio dei vagoni sulle rotaie) che per molti migranti e profughi rappresenta ancora un commiato, ma anche la possibilità di un nuovo inizio nella prospera Europa.
Ciro De Rosa
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