Iniziato con il corale raglio rivolto alla luna che vigilava, imponente nella sua argentea rotondità da perigeo, sui binari della stazione “sospesa” di Conza-Andretta-Cairano (tecnicamente è dismessa, ma con freddo gergo economicistico è definita ramo secco da chi riduce il senso di essere comunità, l’importanza di una costruzione storica e la memoria dei luoghi a numeri e bilanci né pensa alle possibilità di un nuovo sviluppo), il ‘rito’ si è compiuto ai primi bagliori dell’alba dietro il pizzo aguzzo su cui si poggia Cairano, “il paese dei coppoloni”. Solo allora, dopo più di sei ore di spettacolo ininterrotto, Vinicio Capossela e i suoi numerosi invitati hanno salutato le migliaia di persone accorse da tutta Italia per la ‘Notte d’argento’ dell’artista (le sue ‘nozze d’argento’ con la musica), culmine della terza edizione dello Sponz Fest (sottotitolo di quest’anno “Raglio di luna: le vie dei muli, i sentieri dei miti”), sette giorni ostinatamente voluti dall’artista visionario e trasformista, tra i pochi in Italia a essere dotato di vivacità e profondità intellettuale, di abilità originale nel nutrirsi di innumerevoli suggestioni musicali raccolte per strada, ritrovate nella memoria di figlio di emigrati, scovate nel passato delle musiche popolari, di raccontare storie piccole o archetipi, trasfigurando personaggi e luoghi, instillando tracce da seguire, per non sospendere quel sogno di “inseminare una terra antica di idee” (lo ha scritto lo stesso Vinicio su “Il Mattino”, 9/08/2015).
Se lo scorso anno aveva messo al centro dell’attenzione proprio la linea ferroviaria Avellino-Rocchetta Sant’Antonio, imperniando la seconda edizione del suo festival sul treno e la sua mitologia, quest’anno il musicista è ritornato nelle terre dei suoi avi, inventandosi una manifestazione dispiegatasi lungo sentieri e paesi per una settimana, quasi senza soluzione di continuità. Intendiamoci, molti festival oramai prediligono la riscoperta di luoghi, di dimore, di monumenti storici o le escursioni con concerto in come al vulcano come al rifugio montano: qui non parliamo di primogeniture, ma di un’idea che fa conoscere e convenire persone in un pezzo antico d’Italia, ma per niente conosciuto. Dunque, il cammino con asini e muli era iniziato sotto l’auspicio degli organettisti andrettesi Giovanni Fiordellisi e Giuseppe Cesta, lunedì 24, per continuando con le sonorità festive dei Mariachi Mezcal. Poi ad Andretta ecco arrivare la Banda Musicale cittadina e la rutilante Fanfara Tirana con Robert Bisha sull’altipiano del Formicoso, dove è inaugurata l’immaginifica trebbiatrice volante, creata da Marco “Tenente Dum”. Il giorno successivo, sempre al Formicoso, l’evento centrale, lo spettacolo teatrale e canoro “Passione del grano” (dal titolo del documentario di Lino Del Fra del 1960), con i canti a stisa di Enza Pagliara, voce magica del Salento, con Mariagrazia Madruzzato, Silvia Lodi e le cantrici dell’Ofanto.
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Dopo una non-stop di cinque giorni e di attivo coinvolgimento (in generale, riteniamo che non è il massimo dello stile quando il direttore artistico di un festival si prende molto spazio, ma Vinicio è l’istrionico ideatore e catalizzatore della manifestazione e glielo si può perdonare), non deve parere strano che un Capossela provato si sia presentato al concertone autocelebrativo al chiar di luna piena (e non dimentichiamo che Feltrinelli ha dato da poco alle stampe il suo romanzo “Il paese dei coppoloni”, ambientato in queste terre, dal quale lo stesso Capossela ha letto stralci dal vivo sul palco: insomma, bell’impresa di marketing culturale) con seri problemi di voce, che in un certo senso hanno determinato anche la non perfetta riuscita del concerto interessando anche l’equalizzazione di certi suoni nella lunga nottata musicale in stazione. Si è iniziato ben dopo il tramonto, diversamente, dal previsto (alle 22.30), ma in uno scenario davvero ineguagliabile. Va detto che le disfunzioni organizzative si sono palesate da subito (cancelli aperti in ritardo, carenza di bagni chimici, un solo punto ristoro, informazioni non adeguate sul tipo di location, complicazioni nella viabilità dell’area). Si dirà: “È un miracolo che si sia organizzata quest’edizione, affidata soprattutto a volontari”.
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Dopo “Aedo”, “Brucia Troia” e “Il ballo di San Vito”, arrivano le letture di Virginio Tenore (del gruppo Makardìa), appollaiato sulla simbolica trebbiatrice volante a riempire i cambi palco. L’atmosfera si riscalda: prima i Mariachi Mezcal (“La Bamba”, “Besame Mucho”), a cui si uniscono per un brano anche i texani Los Texmaniacs, da San Antonio. Ancora il festeggiato, che indossa abiti da luna park (come la giostra messa in fondo alla stazione), con i gruppi americani per “La golondrina”, “Occhi Neri” e “Ultimo amore”. È un passaggio dai ritmi di festa ai territori lirici, in cui ci infilano due omaggi a stelle del folk: la struggente “Los simples cosas”, tradotta in italiano, proveniente dal repertorio di Chavela Vargas, l’ironia amara de “I Maccheroni” di Matteo Salvatore. Entra in scena anche la chitarra solitaria del troubadour dell’Arizona Howe Gelb (Capossela è ospite in “Heaventually”, brano d’apertura dell’ultimo disco di Gelb con i nuovi Giant Sand, “Heartbreak Pass”), quindi passano “Il treno” e “Signora Luna”. Il clima è torrido con il set del conjunto hardcore tejano, guidato da Max Baca. Il suo bajo sexto spinge al massimo il suono della band, Max ne fa un uso virtuosistico, che attinge dai riff chitarristici. Alla fisarmonica c’è quel portento del nipote ventiduenne Josh, completano il combo Noel Hernandez al basso elettrico e Daniel Martínez alla batteria. Max, vincitore di un Grammy dello Smithsonian Folkways, ha inciso quest’anno un disco con la leggenda della fisarmonica norteña Flaco Jimenez (“Legends and Legacies”), mentre a maggio i Texmaniacs hanno pubblicato “Americano Groove”.
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Alle 03.30 parte “Primo ballo”. Il violinista Matalena dirige la quadriglia del pubblico. Con lui ci sono “Parrucca”, voce e chitarra, “Tottacreta” alla fisarmonica, Giovanni e Vincenzo Briuolo al mandolino, Giovanni “Bubù” al basso, Tonino Daniele alla batteria, Crescenzo “Papp’lon” all’organo, Nino Tavarone alle chitarre. Vinicio legge ancora pagine dal suo romanzo, mentre i musicanti presentano il loro pot-pourri danzante. Capossela mette in fila molte delle sue canzoni di punta: “Che coss’è l’amor” e un omaggio all’emigrazione canora italiana con “Si è spento il sole”, incisa da Capossela nell’antologia “L’indispensabile”. Arrembante, si fanno spazio “Maraja”, “Marcia del camposanto”, “L’uomo vivo”, che è il racconto sonoro di una festa religiosa a Scicli, nel ragusano; mentre la festa porta anche i fuochi d’artificio parte la “Danza di Zorba” con i giovinotti della Banda che si prendono ancora il loro spazio. La resistenza in vista dell’alba prosegue da parte di una buona fetta di pubblico e degli artisti ballando “Al veglione”. I fidi Zeno De Rossi (batteria), Glauco Zuppiroli (contrabbasso), Asso Stefana (chitarra) swingano su “All’una e trentacinque circa”, ma si è fatto molto più tardi! Tutti gli artisti salgono sul palco (eccetto Psarantonis e due dei suoi musicisti). Ancora un omaggio alla luna dalle pagine del suo scritto, ”Il paese dei coppoloni”, ritorna “La Golombrina”, c’è la struggente, corale “Cancion Mixteca” in medley con la lirica, commovente “Tornar/Volver”. La luna inizia a calare, l’alba va sorgendo dietro al paese dei coppoloni, i musici hanno assolto il loro compito di portarci al nuovo giorno.
Vinicio attacca “Ovunque proteggi” a sancire la fine della sua celebrazione dei suoi venticinque anni in note. Alla domenica, per chi non era stato sfamato dalla festante carovana che ha attraversato le vie dei muli, si è svolto ancora un percorso che ha portato gli astanti alla rupe di Cairano, con letture, musica e – altra trovata – un confronto telefonico su scienza e superstizioni tra Vinicio e Piergiorgio Odifreddi. In definitiva, che ben venga Sponz Fest a illuminare ancora l’Alta Irpinia, ma sempre nel rispetto dei luoghi, riconoscendone la diversità, senza irruzioni, senza arroganze: sono terre già troppo devastate dalle macerie umane, civili e politiche di quella ricostruzione post-terremoto che doveva ridare senso ai paesi. Senza masse distratte unite nel consumo dell’evento, per valorizzare queste contrade (ascoltandone le popolazioni, perché hanno ancora molto da dire e da insegnarci), che davvero i luoghi siano ‘inseminati’ di idee e di emozioni, che non devono, forzatamente, essere portati dal parossismo dei decibel: agiamo anche per sottrazione, apprezzando i silenzi. Insomma, che il prossimo Sponz Fest sia più cantiere che adunata, sia incrocio di saperi, provi a favorire la ‘riattivazione comunitaria’ (sono ancora parole di Arminio), non sia solo transitorio divertimento.
Ciro De Rosa
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