A due anni di distanza dalla pubblicazione del pregevole “Angeli e Fantasmi”, Luigi “Grechi” De Gregori torna con “Tutto quel che ho 2003 – 2013”, disco antologico che raccoglie una selezione di brani estratti dai suoi ultimi tre lavori in studio. Lo abbiamo intervistato per farci raccontare la genesi di questo nuovo progetto, per spaziare dal suo rapporto con la tradizione musicale americana, alla sua attività di traduttore, fino ad un ultimo flash-back nel passato con i ricordi dei giorni gloriosi al Folkstudio.
Com’è nata l’idea di realizzare il tuo nuovo album “Tutto Quel Che Ho”…
E’ un disco semi-nuovo. Lavato con Perlana, come si dice (ride). Non è proprio tutto quello che ho perché c’è dell’altro ancora, ma come ho già detto, ho scelto di raccogliere in un solo disco queste diciotto canzoni, perché le altre mi riservo di includerle in un’altra raccolta, o qua e là in altre situazioni. Quindi non ho scelto le migliori, ma piuttosto i brani che mi rappresentano di più per chi non mi conosce ancora, e per chi non ha avuto modo di acquistare i tre dischi da cui sono state tratte.
Insomma questo disco antologico nasce dall’esigenza di far conoscere i brani che erano presenti nei tuoi ultimi lavori in studio...
Certamente, anche perché “Angeli e Fantasmi” che è l’ultimo ed anche quello a cui sono più affezionato, era ormai esaurito ed avrei dovuto ristamparlo, ho pensato di aggiungerci anche alcuni brani dei dischi precedenti ovvero “Ruggine” e “Pastore di Nuvole”. Visto che i costi sarebbero stati gli stessi, ho deciso di pubblicare quasi per intero l’ultimo album con estratti dai due dischi precedenti. Inizialmente l’idea era quella di autoprodurre il disco, poi in corso d’opera Caravan ha voluto pubblicarlo, e così sono tornato nella discografia ufficiale. La distribuzione, invece, è curata da iCompany. Spero che questa antologia raggiunga un pubblico quanto più vasto possibile, anche perché nelle mie intenzioni c’è sicuramente quella di pubblicare a breve anche un disco di canzoni inedite.
Qual è stato il criterio con cui hai selezionato i vari brani da includere nel disco?
Il titolo, tratto da “Ma Che vuoi da me”, la mia traduzione di “What Do You Want” di Tom Russell e Peter Case, è significativo in questo senso perché mi piaceva per una raccolta. Ovviamente ho incluso anche il brano, anche perché lo ritengo particolarmente riuscito nella sua registrazione, e poi c’è anche un bellissimo intervento di Francesco De Gregori all’armonica. Ho sempre ammirato il suo modo di suonare l’armonica, anche più che come cantautore, perché ha uno stile molto personale ed istintivo. E’ la sua voce interiore, un po’ com’era la chitarra per i bluesman. Lui non mi dà retta, ma gli ho sempre consigliato di fare un disco per sola armonica. Ovviamente non poteva mancare “Il bandito e il campione”, a cui in modo quasi consequenziale sono seguite anche gli altri due brani della trilogia: “L’Isola di Toni”, in cui si racconta la detenzione del bandito nel penitenziario e “Torna il bandito”, che invece fotografa il suo ritorno a casa.
Hai fatto cenno prima a Tom Russell, con il suo songwriting hai un rapporto molto stretto…
Tom Russell è un cantautore che scrive molto bene, ed è stato reinterpretato da numerosissimi artisti americani. E’ una sorta di cantautore dei cantautori. Ho tradotto molti suoi brani, ma per qualche motivo lo trovo anche più facile da rendere in italiano, rispetto ad altri che sono quasi impossibili da tradurre. Ad esempio a lungo ho cercato di lavorare ad una traduzione di “Poncho & Lefty” di Townes Van Zandt ma è scritta in maniera tale e con delle frasi così peculiari che rese in italiano non significherebbero nulla. Non si può parlare di quell’atmosfera desertica e polverosa traducendo semplicemente nella nostra lingua. Ho una mia teoria a riguardo, anche perché in altri contesti mi è stato facile tradurre Leonard Cohen, e ritengo che si riescano a tradurre meglio gli autori del Nord degli Stati Uniti in quanto il loro linguaggio è più vicino a quello europeo, mentre i texani e i californiani sono profondamente legati alla loro terra, e scrivono con uno stile più saporito, più ricco di suggestioni e dunque sono più complicati da tradurre. E’ solo un mio pensiero, ma potrebbe nascerne un dibattito vero e proprio.
Tornando a Tom Russell, nel disco è presente la magnifica versione in italiano di “Angel Of Lyon” che ha ripreso anche Francesco De Gregori in “Per Brevità Chiamato Artista”. Quali sono le difficoltà che si incontrano nel tradurre brani come questo…
E’ la difficoltà che c’è nel tradurre dall’inglese, una lingua molto sintetica e fra quelle occidentali ha il più alto contenuto di bit di informazione per simbolo fonetico. Infatti è l’inglese è piena di parole con tre lettere, quattro lettere e due sillabe e quindi quando si va a tradurre in italiano che notoriamente ha vocaboli più lunghi e costruzioni più complesse di sintassi, finisce che una strofa si allunghi a due, se si vuole dire tutto. Bisogna fare dei miracoli veri e propri. Per tradurre “La Coperta Indiana” ho dovuto tagliare delle strofe ed è stato abbastanza complicato.
Facendo un passo indietro nel tempo, e toccando le tue radici musicali, nel tuo cantautorato c’è in misura uguale la tradizione musicale americana e quella italiana cantautorale…
Negli Stati Uniti si direbbe che il mio stile è “Americana” o “Roots”, e questo non perché sono filoamericano o per particolari convinzioni politiche, ma quella musica mi piace perché è un condensato di tutto il meglio della musicalità dell’Europa e dell’Africa, e per altro in essa sono condensati gli strumenti che vengono suonati in tutto il mondo. C’è la batteria che è nata con il jazz, ed infatti in origine in Italia veniva chiamata jazz band, c’è il banjo che è uno strumento africano, il mandolino nel bluegrass che è uno strumento italiano, la chitarra che ha origini spagnole, il violino invece viene dal Nord Europa. La musica americana è insomma il riassunto della musica del mondo. Per quanto riguarda il country, non amo molto questa definizione, perché ci sono diverse sfumature di questo genere. C’è l’alternative country che è quello più moderno e forse meno adatto alle famiglie perché più scabroso, c’è il country family clean che non contiene riferimenti all’alcool, ai tradimenti tra marito e moglie, e alle droghe insomma è quello mainstream che è equiparabile alle canzoni di Sanremo. Spesso si identifica il country con Nashville, ma questa è solo una città con tanti studi di registrazione, è la music city con tutte le sue diverse sfumature. Sul versante italiano ci sono tanti cantautori che mi sono piaciuti e che mi piacciono, purtroppo alcuni di loro sono scomparsi e parlo di Fabrizio De Andrè, ma anche di Ivan Graziani, l’unico vero rocker italiano, una vera furia sul palco, un chitarrista di grande talento dotato di una voce unica, o ancora di Rino Gaetano, grandissimo artista e avrebbe avuto un futuro eccezionale. Andando più indietro nel tempo mi piacevano molto Renato Carosone, Fred Buscaglione, mentre un po’ meno amavo la scuola genovese con Luigi Tenco e Gino Paoli, perché li trovavo più salottieri. In effetti dalla canzone d’autore italiana ho preso ben poco, perché mi sento più vicino a quella americana, ma anche perché negli Stati Uniti e anche in Inghilterra ci sono più posti per suonare queste canzoni, molti più locali con musica dal vivo. In Italia suonare significa quasi commettere un reato, bisogna avere spazi, permessi, seguire regole, norme, mentre negli States un locale è considerato la casa del proprietario e dentro può farci fare quel che vuole, l’importante è che rispetti le leggi e paghi le tasse. E’ per questo motivo che oltreoceano c’è molta più comunicazione musicale, molti più autori, e quindi testi di spessore. Purtroppo se da noi c’è qualcuno che scrive belle canzoni, è quasi costretto a cantarsele a casa sua.
La tua vita artistica si è però intersecata anche con i poeti della Beat Generation…
Il mio rapporto con la letteratura nasce dal fatto che ho letto molto e con piacere sin da piccolo. Per dieci anni ho lavorato anche come bibliotecario, e quindi ho sempre avuto libri tra le mani. La storia della Beat Generation l’ho studiata quando preparavo Letteratura Inglese, e come tutte le cose studiate sui banchi da un orecchio entrava e dall’altro usciva, ed in fondo non avevo nemmeno capito bene cosa fosse. In realtà causalmente venni coinvolto in un progetto da Antonio Bertoli, direttore della City Lights Italia, casa editrice e libreria gemellata con l’omonimo editore americano di Ferlinghetti a San Francisco. Avendo suonato più volte nella libreria di Firenze, mi coinvolse in questo progetto che durò per un paio di anni, e portavamo in giro per l’Italia la musica e la poesia legata alla Beat Generation. Fu in quella circostanza che compresi realmente cosa fosse. Intanto, non era una scuola perché ognuno dei poeti aveva un proprio modo di scrivere come Ferlinghetti che era quasi un poeta ottocentesco o di inizio novecento e legato molto alla scuola francese, fino a Ginsberg che erano vicini alla poesia cinese o ad altri stili. Non c’era un omogeneità di stile, ma vedeva la poesia come un fatto non accademico, non letterario, non da scrivere e da leggere, ma piuttosto da recitare davanti ad un pubblico. Era un ritornare alle origini alle storie intorno ad un fuoco, con chi le racconta che gioca con le parole dandogli un suono. Abitualmente tutti noi leggiamo in maniera
silenziosa, e questo deriva dal fatto che abbiamo ripreso questo uso dalle biblioteche dei conventi, ma ancor più anticamente quando i libri erano riservati a pochi, chi leggeva un libro lo faceva a voce alta per godere del suono della parola. Chi scriveva pensava al suono che avevano le parole, cosa che oggi non accade quasi mai. La differenza tra poesia e prosa consiste nel fatto che la prima deve avere un suono per trasmettere suggestioni, mentre la seconda veicola solo informazioni.
Sempre parlando di influenze artistiche, quanto è stata importante per te la stagione del Folkstudio?
Il Folkstudio mi ha influenzato più di ogni altro artista o cantante, perché era un posto di caratura internazionale, e si rifaceva ai folk club che c’erano negli Stati Uniti, ma anche in Inghilterra ed in Francia. Il folk club non era un locale dove si faceva propriamente musica dal vivo, perché negl’anni Sessanta si cantava nei teatri, a volte negli stadi e poi c’erano in night. Con il folk revival nacquero anche i folksinger, che non era un cantante di folk songs, ma la sua radice va rintracciata nell’uso del folk rurale di esibirsi con sola voce e chitarra. Nella maggior parte dei casi, si veda ad esempio quello di Bob Dylan, il folksinger si presentava sul palco da solo, si accompagnava con la chitarra e mescolava canzoni, recitava poesie, presentava i brani, chiacchierava ed intratteneva il pubblico. Poteva cantare canzoni proprie, quelle di altri, ma anche tradizionali, interpretati sempre a suo modo, con grande libertà. In generale nessun folksinger ha scritto melodie originali, anche se non hanno rubato nulla a nessuno. Delle folk songs non esistono versioni originali ma tutta una serie di elaborazioni personalissime. La particolarità del Folkstudio di Roma era quella che lì si poteva ascoltare di tutto, perché la Capitale all’epoca era molto più internazionale del Greenwich Village, in quanto in Italia e nell’Europa Meridionale approdavano i giovani che scappavano da tutto il mondo, che fuggivano dalle dittature ma anche dalle cartoline di precetto che li avrebbero spediti di in Vietnam. In quegli anni, Piazza Navona era piena com’è pieno un autobus nell’ora di punta. Si stava gomito a gomito con tutti i giovani del mondo, e tanti di questi suonavano uno strumento e puntualmente si ritrovavano al Folkstudio, dove con il compenso riuscivano anche a pagarsi una cena molto economica, perché allora nelle taverne di Trastevere si mangiava con 150, 200, massimo 300 Lire. Fu al Folkstudio che ebbi l’occasione di ascoltare prima di tutti, un autore ed un personaggio immenso che si chiamava Juan Capra, un cileno amico di Violeta Parra e con lui scoprii la tradizione cilena con le cuecas che è il ballo tradizionale del Cile, oltre alle sue canzoni. Ascoltai per la prima volta il Flamenco da un chitarrista straordinario, così come tanta musica americana, ed anche musiche del mondo come quella persiana. Erano delle esperienze uniche ed il modo in cui venivano proposte, senza un programma ed una scaletta precisa, rappresentava una vera e propria rivoluzione. La prima volta che entrai al Folkstudio dissi che da lì non mi sarei più mosso ed idealmente è stato veramente così. La lezione di libertà e di assoluta apertura nei confronti di ogni genere musicale imparata al Folkstudio me la sono portata dietro per sempre.
Dal Folstudio a L’Asino che vola dove quest’anno hai organizzato la rassegna "I giovani del Folkstudio"...
Per combinazione ho ritrovato un vecchio amico, Francesco Pugliese che aveva avuto una illustre carriera come medico ma che da giovane con il nome di Cisco suonava negl’anni del Folkstudio di Cesaroni. Lo scoprii una domenica perché Cesaroni andava alle corse dei cavalli dove correvano anche quelli della sua scuderia, dei brocchi in verità, perché perdeva sempre a Capanelle. Agli inizi affidò al direzione artistica per l’apertura del locale ai giovani, facevamo la scaletta, e i giovani emergenti potevano esibirsi. Approfittari per portare per la prima volta sul palco Francesco mio fratello e per un po’ ci siamo occupati di fare da direzione artistica. A distanza di tanti anni, essendo andato in pensione Cisco dopo aver fatto il clinico e il professore di medicina, abbiamo pensato di riproporre quella famosa formula e così siamo andati a proporlo all’Asino Che Vola, chiamandoci proprio “giovani del folkstudio”. Non era un operazione nostalgia, ma avendo una visione di quel mondo nascosto della canzone d’autore, quello fosse un momento in cui la gente poteva trovare qualcosa di più genuino della musica preconfezioanta. Il pubblico ha risposto molto bene, nei vari appuntamenti dove abbiamo ospitato anche Francesco De Gregori per due volte il quale ha detto che non poteva esserci posto migliore di quello per fare delle serate. Certamente ripeteremo questa esperienza anche per il prossimo anno, sempre di martedì perché è il giorno più adatto ad un pubblico di appassionati.
Luigi “Grechi” De Gregori – Tutto Quel Che Ho 2003 – 2013 (Caravan/iCompany, 2015)
Cantautore colto e profondamente innamorato della tradizione musicale americana, Luigi “Grechi” De Gregori nel corso della sua lunghissima carriera, non si è mai abbandonato alle mode o ai facili successi, preferendo una vita artistica riservata, ma mai distante dal suo pubblico, a cui ha regalato diversi album di ventati di ormai di culto. In particolare, negli ultimi dieci anni, a partire dalla pubblicazione di “Pastore di Nuvole” la sua carriera ha conosciuto una fase nuova, costellata da grandi apprezzamenti di pubblico e critica, e costellata dalla pubblicazione di “Ruggine”, raccolta di brani del passato reincisi con la Bandaccia, e del più recente “Angeli e Fantasmi”. Essendo ormai irreperibili tutti e tre questi album, Luigi “Grechi” De Gregori ha deciso di raccogliere in un’antologia, una selezione di diciotto brani, che compendiano un decennio di attività musicale, ed è nato così il suo nuovo disco “Tutto quel che ho 2003-2013”. Senza seguire un filo cronologico, ma piuttosto quello di una ideale scaletta di un suo concerto, il disco ripercorre le tappe più importanti dei suoi ultimi lavori in studio spaziando dall’iniziale “Ma che vuoi da me”, splendida traduzione di “What do you want” di Tom Russell, alla trilogia del Bandito con la celebre e sempre affascinante “Il bandito e il campione”, “L’Isola di Toni” e “Torna il Bandito”, fino a toccare piccole perle come “La strada è fiorita” scritta dal fratello Francesco De Gregori, o ancora “L’angelo di Lyon” sempre dal songbook dell’amato Tom Russell. Si prosegue con il country de “Al falco ed al serpente” per toccare prima il blues di “Senza regole” con l’armonica di Francesco De Gregori in grande evidenza, e poi le splendide “Ultime della sera” e “Dublino”. Da quel gioiello che era “Pastore di nuvole” non potevano mancare “Al di là del confine”, la toccante “Venti gradi sottozero”, e il country-rock croccante de “Le Vespe”. Completano il disco una scheggia di passato con “Chitarrista Cieco”, la divertente “Supergatto” e “Il fuoco e la danza”, nella cui tessitura sonora si può cogliere un riferimento al traditional americano “Will the circle be unbroken”. “Tutto quel che ho 2003-2013” è dunque l’occasione perfetta per ritrovare il songwriting di Luigi Grechi per quanti avessero perso per strada i suoi ultimi dischi, ed allo stesso tempo per quanti non lo conoscessero, è l’istantanea più giusta per scoprire il suo affascinante storytelling.
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