Scrivere dei “Basement tapes” significa compiere un viaggio nel tempo, tornando indietro con la memoria alle fine del 1966 e al famoso incidente in moto occorso a Bob Dylan. Di questo momento cruciale della vita del Menestrello di Duluth si è scritto tanto, senza mai aver avuto nessun riscontro oggettivo su cosa davvero accadde, e quali furono le reali conseguenze fisiche. Quella caduta, come avvenne per San Paolo, rappresentò una specie di trasmutazione nella sua vita. La paura della morte, lo spaventò, così come la possibilità di perdere la vita e lasciare la propria famiglia contribuirono a fare in modo che Dylan mettesse da parte, per qualche tempo, il suo personaggio ed indossasse, nuovamente, i panni dell’uomo che cerca, nella musica, un senso, una normalità, un piacere senza essere sempre giudicato per qualunque parola, atteggiamento, proposta artistica. Il suo buen ritiro iniziò nell’inverno del 1967 nella Contea di Ulster che, a dispetto del nome, si trova nello stato di New York. Fu in quella casa che Dylan invitò alcuni musicisti che lo avevano accompagnato durante il tour del 1966 per visionare il film che stava preparando sul tour stesso. Da quell'incontro scaturirono delle sedute di registrazioni, tra il serio ed il goliardico che trasformarono i componenti di The Hawks in The Band, rendendo Rick Danko, Richard Manuel, Garth Hudson, Robbie Robertson, Levon Helm parte di un progetto inatteso anche da loro stessi. Nella cantina di quella grande casa rosa cantavano, inventavano, trasformavano canzoni nuove, brani tradizionali folk, blues e rock, nascevano bozzetti di brani, il tutto mentre il registratore sorvegliato da Garth Hudson catturava ogni nota. Quelle registrazioni divennero ben presto oggetto di contrabbando tra gli appassionati seguaci di Bob Dylan, il quale, tra l’altro, non aveva nessuna intenzione di pubblicare un album nuovo con quei brani, ma solamente divertirsi un po’ e, magari, trovare dei brani da cedere alla sua casa discografica per “venderli” ad altri artisti. In effetti alcuni di questi brani vennero poi davvero “presi in carico” da artisti come Peter, Paul & Mary (che, non dimentichiamolo, lanciarono "Blowing in the wind"), Ian & Sylvia, Manfred Mann, Julie Driscoll e Brian Auger, Byrds (che già avevano trasformato e fatto man bassa di successi con alcuni brani di Dylan). Queste versioni non accontentarono pienamente il pubblico, ma resero più forte la curiosità di scoprire non solo come fossero cantati dall'autore, ma anche quali altre gemme celasse questo strano scrigno, noto solo ad alcuni fortunati addetti ai lavori. Le canzoni, quindi, erano state registrate per restare “in casa” e dovevano essere rese note solo per ragioni commerciali e di editoria musicale. Erano state un passatempo tra amici che, tra una bevuta, una chiacchierata, e un'idea di canzone, rinsaldavano l’amicizia nata sul campo di battaglia del fatidico tour del 1966, dove ai brani acustici venivano proposti anche i brani rock scatenando, spesso, le ire del pubblico. Come sempre accade, quando si vuole mantenere un profilo basso nascono le leggende e queste quando si trattava di Dylan, venivano subito amplificate e/o vendute come verità assoluta. A causa di ciò Jann Wenner, fondatore della rivista Rolling Stone, allora la Bibbia del rock, l’anno successivo, il mitico 1968, scrisse un articolo molto approfondito su queste registrazioni, probabilmente senza averle neppure ascoltate. Ma l’imbarazzo venne sciolto in fretta perché già nel 1969 iniziò a circolare un disco non ufficiale, denominato "Great White Wonder", che potremmo definire il primo vero bootleg della storia del rock. In questo album doppio, dal nome che riecheggiava Moby Dick, erano proposte alcune delle registrazioni effettuate da Dylan e dalla Band. Copertina bianca, i titoli delle canzoni, il nome di Dylan. Una registrazione senza infamia e senza lode, ma a dare senso a tutto c’era il senso di mistero che aleggiava intorno a questo doppio vinile.
Un mistero alimentato anche dalla sparizione di Dylan dalle scene, nonché dalla sua partecipazione al festival di Wright ma non a quello di Woodstock, praticamente a casa sua. Un mistero giocato sul tipo di canzoni presenti nell’album e su quelle che, invece, erano sconosciute. C’erano tutti gli ingredienti per un bell’enigma in salsa dylaniana ma, alla fine, la questione era molto più semplice. Le canzoni originali erano nate quasi per caso, mentre quelle tradizionali erano state eseguite solo per il piacere di farlo, senza altre intenzioni. Ed infatti, giustamente, la Columbia non pubblicò quel materiale (all’epoca avrebbero dovuto proporre un cofanetto di almeno dieci album dalla vendita alquanto problematica sia per il prezzo sia per il fatto che Dylan non è mai stato un artista da classifica). Quindi, giustamente non se ne fece nulla, e solo dopo molte insistenze da parte del pubblico ed anche della Columbia, a cui seccava la vendita del bootleg, nel 1975 Dylan e la Band accettarono di trasformare alcune di quelle registrazioni in un album (che sarà poi doppio vinile). Così Robbie Robertson, coadiuvato da un ingegnere del suono della Columbia, Robert Fraboni, iniziò a riascoltare tutti i nastri registrati da Hudson arrivando alla selezione finale che conosciamo da quel dì. Nonostante queste registrazioni ed il grande successo dell’album, la circolazione dei vari bootleg non cessò di infastidire la casa discografica che, con l’avvento del CD si ritrovò con tutte le registrazioni messe a disposizione degli eventuali acquirenti. La qualità non eccelsa di molte di esse certamente stimolò una diffusione su larga scala, ma la spina nel fianco restava e faceva male. Ed ha continuato ad incuriosire, ingolosire, indisporre milioni di fans di Dylan che non avevano avuto la possibilità di ascoltare altro che le canzoni uscite sull’album ufficiale del 1975 che, pure, era stato trattato con grande cura. Ma un segnale iniziò a farsi sentire a partire dal 1991, quando prese il via l'ormai famosa collana di cofanetti tematici "Bootleg Series", che negli anni man mano stanno colmando i grandi vuoti discografici e cronologici della carriera di Dylan. Sono serviti ventitré anni però per far emergere tutto quell'immenso corpus di brani incisi nella cantina di Big Pink, e così quest'anno la Columbia ha dato alle stampe il numero 11 della Bootleg Series dedicato ai Basement Tapes. Hanno visto finalmente la luce quei brani leggendari, completi e sonoramente ortodossi, che meritavano essere ascoltati nella loro scarna bellezza. I vecchi nastri opportunamente registrati da Hudson sono stati riportati a nuova vita dalla perizia tecnica del produttore canadese Jan Haust che si è messo all’opera per salvare, restaurare, migliorare quei nastri magnetici di quasi cinquant’anni fa (con tutti i problemi di tenuta alla trazione). L’impresa, alla fine, può dirsi riuscita, nonostante il risultato non sia stato quello di produrre un album ineccepibile dal punto di vista tecnico, ma piuttosto di aver riportato alla luce una serie di grandi brani, e di pastiches musicali con un loro innegabile fascino.
Un mistero alimentato anche dalla sparizione di Dylan dalle scene, nonché dalla sua partecipazione al festival di Wright ma non a quello di Woodstock, praticamente a casa sua. Un mistero giocato sul tipo di canzoni presenti nell’album e su quelle che, invece, erano sconosciute. C’erano tutti gli ingredienti per un bell’enigma in salsa dylaniana ma, alla fine, la questione era molto più semplice. Le canzoni originali erano nate quasi per caso, mentre quelle tradizionali erano state eseguite solo per il piacere di farlo, senza altre intenzioni. Ed infatti, giustamente, la Columbia non pubblicò quel materiale (all’epoca avrebbero dovuto proporre un cofanetto di almeno dieci album dalla vendita alquanto problematica sia per il prezzo sia per il fatto che Dylan non è mai stato un artista da classifica). Quindi, giustamente non se ne fece nulla, e solo dopo molte insistenze da parte del pubblico ed anche della Columbia, a cui seccava la vendita del bootleg, nel 1975 Dylan e la Band accettarono di trasformare alcune di quelle registrazioni in un album (che sarà poi doppio vinile). Così Robbie Robertson, coadiuvato da un ingegnere del suono della Columbia, Robert Fraboni, iniziò a riascoltare tutti i nastri registrati da Hudson arrivando alla selezione finale che conosciamo da quel dì. Nonostante queste registrazioni ed il grande successo dell’album, la circolazione dei vari bootleg non cessò di infastidire la casa discografica che, con l’avvento del CD si ritrovò con tutte le registrazioni messe a disposizione degli eventuali acquirenti. La qualità non eccelsa di molte di esse certamente stimolò una diffusione su larga scala, ma la spina nel fianco restava e faceva male. Ed ha continuato ad incuriosire, ingolosire, indisporre milioni di fans di Dylan che non avevano avuto la possibilità di ascoltare altro che le canzoni uscite sull’album ufficiale del 1975 che, pure, era stato trattato con grande cura. Ma un segnale iniziò a farsi sentire a partire dal 1991, quando prese il via l'ormai famosa collana di cofanetti tematici "Bootleg Series", che negli anni man mano stanno colmando i grandi vuoti discografici e cronologici della carriera di Dylan. Sono serviti ventitré anni però per far emergere tutto quell'immenso corpus di brani incisi nella cantina di Big Pink, e così quest'anno la Columbia ha dato alle stampe il numero 11 della Bootleg Series dedicato ai Basement Tapes. Hanno visto finalmente la luce quei brani leggendari, completi e sonoramente ortodossi, che meritavano essere ascoltati nella loro scarna bellezza. I vecchi nastri opportunamente registrati da Hudson sono stati riportati a nuova vita dalla perizia tecnica del produttore canadese Jan Haust che si è messo all’opera per salvare, restaurare, migliorare quei nastri magnetici di quasi cinquant’anni fa (con tutti i problemi di tenuta alla trazione). L’impresa, alla fine, può dirsi riuscita, nonostante il risultato non sia stato quello di produrre un album ineccepibile dal punto di vista tecnico, ma piuttosto di aver riportato alla luce una serie di grandi brani, e di pastiches musicali con un loro innegabile fascino.


Rosario Pantaleo
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