Videointervista con Biagio Panico e Claudio “Cavallo” Giagnotti

Costruttore di tamburi a cornice tra i più apprezzati della scena musicale salentina, Biagio Panico è stato uno dei pionieri nella diffusione della tradizione musicale della sua terra, non solo avviando, a partire dalla fine degli anni ottanta, un’attività commerciale dedicata alla vendita di materiali culturali come dischi e libri e tamburreddhi, costruiti da un anziano costruttore, Mesciu Ninu, e successivamente diventando lui stesso un artigiano. Dopo un’esperienza negli Arakne Mediterranea di Giorgio Di Lecce, Biagio Panico, fonda l’Associazione Novaracne con l’intento di preservare e diffondere la tradizione salentina, e così avvia in parallelo la produzione di libri, saggi, dischi (come lo storico “Robba de Smuju” di Uccio Aloisi), e in anni più recenti anche di DVD. Negli anni sono arrivate anche le tante collaborazioni con i nomi principali della scena salentina dagli Ucci ai gruppi della riproposta Alla Bua e Officina Zoè, fino ad arrivare al sodalizio artistico-culturale con i Mascarimirì di Claudio “Cavallo” Giagnotti con i quali realizza alcuni importanti progetti come il salotto letterari “La Notte Incanta” con le associazioni Dilinò e Kurumuny, e “Tamburreddhu o Tamburello?”, campagna di informazione volta a sensibilizzare e a recuperare il tamburo a cornice della tradizione salentina. Nel corso della sua lunga esperienza lavorativa, Panico ha compiuto anche intense ricerche di carattere tecnico sulla storia del tamburo a cornice e sui materiali, arrivano a realizzare prodotti di grande pregio. Abbiamo intervistato Biagio Panico e Claudio “Cavallo” Giagnotti per farci raccontare come nasce il progetto di recupero del tamburo a cornice salentino, e per scoprire insieme a loro le tecniche realizzative e la sua commercializzazione. 



Com’è nata l’idea di recuperare la tradizione del tamburo a cornice salentino? 
Claudio “Cavallo” Giagnotti - L’idea è il frutto di una riflessione, nata durante i tanti viaggi che facciamo con i Mascarimirì e con Biagio, sul cambiamento dell’alfabeto della musica tradizionale salentina. La parola che più ci “disturbava” era tamburello. Uno strumento che si chiamava in questo modo non ci rappresentava come salentini, visto che ha un nome tradizionale ben preciso “tamburreddhu”, o “tamburo a cornice”, se si vuole utilizzare una parola didattica e scientifica. Tutto il Sud Italia ha una tradizione di tamburi a cornice molto ricca e differenziata. In Campania c’è la “tammorra”, in Calabria il “tambureggiu”, ma tutte queste identità sono state generalizzate con l’utilizzo della parola “tamburello” che sembra dire tutto, ma non dice niente. Il nostro obiettivo era invece quello di marcare questa differenza, Oggi parliamo di un tamburo a cornice che negli anni ha avuto una evoluzione, è cambiato, e il progetto “Tamburreddhu o Tamburello?” è importante per far comprendere ai giovani che in una terra dove esiste una musica tradizionale, esiste anche uno strumento con cui si suona quella musica. La ricerca nasce soprattutto da quelle fotografie che la storia e l’antropologia ci hanno consegnato e parlo di quelle fatte da Pinna, quando arrivò in Salento con De Martino e Carpitella, ma anche delle tantissime foto che in questo periodo abbiamo raccolto, relative al periodo che va dai primi anni Ottanta ad oggi. 
Visionando le foto abbiamo capito che era necessario fermare un attimo quella che era la commercializzazione standard degli strumenti, e cambiare direzione. Devo dire che ci stiamo quasi riuscendo, visto che grazie al contributo di Biagio abbiamo ritornare il tamburo a cornice alle dimensioni originali, che vanno a ricordare quella più autentica. Negli anni, infatti, si era molto abbassato il telaio, i sonagli erano diventati più piccoli, quasi si fosse alleggerito di quella pesantezza che aveva in origine. Per suonare e cantare la pizzica pizzica salentina c’è bisogno di uno strumento e questo è il tamburreddhu. 

Biagio, ci puoi raccontare qual è stato il tuo percorso di avvicinamento alla costruzione dei tamburi a cornice? 
Biagio Panico – Io sono originario di Andrano, e quando ho sposato mia moglie Ada che era di Torrepaduli, mi sono trasferito là. Negli anni Novanta non c’era nessuno che vendeva tamburi a cornice, e così nacque l’idea di recuperare dare vita a questa attività durante la Festa di San Rocco. Ho incominciato a fare un po’ di ricerche per capire chi era il costruttore e chi vendeva questi tamburreddhi. Mia moglie mi indicò un anziano di Nociglia, così lo contattai e per il primo anno costruì per me trenta tamburi a cornice. Li vendetti tutti, e pian piano mi misi in contatto con i vari gruppi salentini della riproposta, tra cui gli Officina Zoè, il Canzoniere di Terra D’Otranto, che aveva da poco pubblicato il suo primo album, e riuscii a portare sulla mia bancarella oltre ai loro dischi, anche i libri di Giorgio Di Lecce, Gianfranco Salvatore, Isole Sonanti, la Piccola Taranta. Questo fu l’inizio del percorso, che dopo cinque, sei anni proseguì quando decisi di cominciare a costruire io stesso i tamburi a cornice. Attualmente oltre al modello tradizionale, realizziamo anche altre tipologie con forme e materiali diversi. 

Quali sono le fasi realizzative del tamburo a cornice salentino?
Biagio Panico – Il telaio o cornice è realizzato in legno di faggio ed è di forma circolare, piegato grazie all’aiuto del vapore. La pelle invece è di origine animale, ed è conciata in modo da essere ripulita di pelo e grasso, e viene montata sulla cornice da bagnata cosicché asciugandosi acquista la sonorità tipica dello strumento. Nell’ultimo decennio si è diffuso anche l’utilizzo di pelli sintetiche, identificabili per la trasparenza. La pelle viene fissata con diversi metodi: colla, chiodi in legno o in ferro, fascetta in legno o nastrino decorativo in cotone. Devo dire che così come mi era sconosciuta la costruzione dello strumento, agli inizi ho dovuto imparare anche la conciatura delle pelli. Altra cosa importante su cui abbiamo lavorato molto con Claudio, sono i sonagli, che devono essere grandi, grossi, e battuti a mano per avere una sonorità molto forte rispetto alla cassa alta del tamburo. 

Quali sono i modelli principali di tamburo a cornice che produci? 
Biagio Panico – Sono sostanzialmente sono quattro, quelli che abbiamo ritrovato attraverso la ricerca effettuata da Claudio, e successivamente da me. Sono strumenti che ci arrivano dai video fatti da De Martino, Carpitella, ed altri. Sono tambureddhi in varie misure, 30 e 35 cm sono distinti dalla diversa disposizione dei sonagli. Io ho recuperato tamburi abbastanza vecchi, che ho riproposto negli ultimi due anni di lavoro. Sul mio www.biagiopanico.it è comunque possibile visionare anche gli altri modelli di tamburo a cornice che realizzo nel mio laboratorio. 

Dal punto di vista timbrico quali sono le differenze tra un modello e l’altro? 
Claudio “Cavallo” Giagnotti - Il modello che abbiamo ritrovato con più frequenza nelle varie foto storiche, o dai vari racconti degli anziani è un tamburo a cornice con un diametro di 35 cm, e il telaio di 9 cm, la cui caratteristica sono i sonagli di 9 cm disposti in maniera asimetrica. “I rami”, come si chiamano qui in Salento, sono attualmente costruiti con una bagna stagnata, e questo dimostra come sia cambiato questo strumento dagli anni Cinquanta. Rispetto agli altri tamburi a cornice, il tamburreddhu salentino ha la particolarità di avere i sonagli disposti in modo asimmetrico, per creare un suono irregolare, quindi uno strumento simile in mano ad un musicista non esperto risulta anche complicato da suonare. 

Biagio tornando al tuo lavoro, ci puoi parlare della commercializzazione dei tamburi a cornice? 
Biagio Panico - Io lavoro molto nelle feste popolari del Salento, dove li acquistano tutti dal musicista all’appassionato, fino ai turisti. Su internet il discorso è diverso perché spesso vengo contattato da professionisti che mi chiedono caratteristiche specifiche in relazione alle proprie esigenze. 

Qual è il tuo rapporto con gli altri costruttori salentini? 
Biagio Panico – Con gli altri costruttori di tamburi a cornice salentini il rapporto non è buono, nel senso che non c’è invidia su chi fa più o chi fa meno, ma è chiaro che molti non sono al passo con il percorso di recupero dello strumento che stiamo portando avanti noi. Nessuno si è posto questo problema, ma a noi non interessa cosa pensano gli altri perché tutto è relativo. 

Salvatore Esposito


Tamburreddhu o Tamburello?
Da tempo la musica tradizionale salentina è attraversata da molti incontri musicali, contaminandosi con altri stili musicali, non solo con le musiche di altre tradizioni ma, soprattutto, con altri generi musicali (rock, pop, elettronica ecc…). Questo ha portato, secondo me, ad una confusione sonora caratterizzata dall’utilizzo di strumenti non consoni alla tradizione musicale salentina soprattutto nell’uso di percussioni (tamburi a cornici) che non rispettano lo stereotipo che i maestri costruttori ci hanno tramandato negli anni. Da qui nasce l’idea di costruire o ricostruire un’identità sonora che ritorni a parlare o, meglio, ritorni a farci ascoltare quei miscugli sonori che quell’irregolarità costruttiva degli antichi maestri ha fatto conoscere al mondo intero come la musica tradizionale salentina e il suo strumento principe, “u Tamburreddhu”. Da anni passa nella mia testa l’idea di dare una linea sonora ad una tradizione che sempre più sta dimenticando le proprie sonorità, soprattutto dopo la morte dell’ultimo grande costruttore di tamburreddhi salentini “Mesciu Ninu”, al secolo Giovanni Sancesario di Nociglia. Strano che questo lo pensi un musicista come me che, forse più di tutti, ha contaminato la musica tradizionale salentina con altri stili e altre sonorità. Penso, però, che sia arrivato il momento di fermarsi e dare una giusta dimensione allo strumento principe della tradizione musicale salentina. Tante, infatti, sono le caratteristiche che sono cambiate negli ultimi 15 anni: materialmente i tambureddhi sono diventati sempre più leggeri, le pelli sempre più armonizzate, ispirate, cioè, ai colori ritmici dello strumento e, di conseguenza, trascurando quella che possiamo definire, in maniera gergale, la “botta” o, meglio, la circolarità del tempo di battuta. Anche i sonagli sono cambiati, tanto che oggi hanno forme e dimensioni diverse da quelle che siamo abituati a vedere nei filmati di repertorio che testimoniano la tecnica rotatoria della mano che, oggi, ha guadagnato in precisione nel suono del sonaglio capace di creare una figura ritmica sempre uguale a se stessa, ma ha perduto proprio quell’irregolarità sonora creata, appunto, dal Tambureddhu e dalle sue antiche modalità costruttive. Così, parlandone con alcuni nuovi costruttori (su tutti gli amici Biagio Panico e Vito Giannone), inevitabilmente ci si è domandati cosa è, oggi, lo strumento che suoniamo, come sono cambiati i materiali e l’uso dello stesso: da oggetto, ieri, utilizzato in una terapia come il Tarantismo ad oggi, strumento musicale che i giovani salentini –e non solo- usano per rivendicare un’appartenenza politico-culturale attraverso la musica tradizionale. Sicuramente non bisogna dimenticare che viviamo il presente, pertanto non dobbiamo conservare la tradizione e perpetuarla in una maniera folklorica, ma apportare quelle migliorie artigianali che la contemporaneità permette. Secondo me, quindi, è giusto che i nuovi costruttori, analizzando gli strumenti che la tradizione ha conservato, abbiano migliorato l’oggetto artigianale portandolo ad un vero strumento musicale. Proprio a questo la mia riflessione vuole giungere: riconoscere, cioè, “lo strumento Tamburreddhu” come non un oggetto turistico ma come il vero emblema della tradizione salentina o, meglio, riflettere sul perchè per suonare, ad esempio, il flamenco, bisogna utilizzare la chitarra flamenco e per suonare la pizzica, invece, va benissimo qualsiasi tamburello? Secondo me non è proprio così. Voi che ne pensate? 


 Claudio “Cavallo” Giagnotti
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