Francisco Sánchez Gómez, in arte Paco de Lucía, il superlativo chitarrista di flamenco venuto dal mare, dopo cinque decenni di strabilianti successi internazionali, è passato a miglior vita il 26 febbraio del 2014, colpito da infarto sulla spiaggia del Carmen vicino a Cancún (Yucatán) in Messico, dove era in vacanza con la famiglia. Sono passati pochi mesi e al suo genio musicale viene giustamente reso omaggio con manifestazioni pubbliche, come nel “Milano Flamenco Festival” (27 giugno - 6 luglio), giunto alla settima edizione, nel quale quest’anno sono ricordate anche Pastora Imperio (per lei Manuel De Falla compose “El Amor Brujo”) e la gitana Carmen Amaya (che ha saputo rinnovare i canoni coreutici del flamenco).
Durante il Festival, il primo di luglio, presso il foyer del Piccolo Teatro Studio è stato proiettato il film documentario (della durata di novantatré minuti) diretto da Daniel Hernándes e Jesús de Diego, dedicato al chitarrista andaluso quando ancora era in vita. Emerge dalle immagini e dalla narrazione un artista serio, rigoroso, riservato, ma interiormente semplice, amante sopra ogni cosa del mare e della natura, del calcio, della buona cucina gustata insieme agli amici più intimi, saldamente legato con affetto alla famiglia di origine e alla gente di Algeciras suo paese natio. Paco de Lucía, un artista impegnato, costantemente tormentato dal processo esecutivo e compositivo (“la sofferenza della creazione”), consapevole del proprio ruolo indispensabile per far conoscere al mondo la cultura musicale della sua gente: «… con la mente sono sempre vissuto nella mia terra, la mia testa è sempre in Andalusia, in Algeciras». In questa cittadina ora riposa vicino al padre, il chitarrista Antonio Sánchez Pecino (1908-1994) principale artefice del suo successo: «… il fulcro artistico della famiglia, un vero patriarca. Fu lui a insegnarmi a suonare, avevo cinque anni, instillando in me la passione per il flamenco: senza di lui non sarei mai diventato un chitarrista. Ricordo che suonava alle feste fino all’alba e quando rincasava al mattino con la chitarra a tracolla, eravamo tutti lì ad attenderlo. I soldi guadagnati li dava a mia madre, e qualche ora dopo usciva di nuovo: faceva l'ambulante e vendeva di tutto».
L’infanzia e la tecnica del flamenco
Nato nel 1947, dagli anni Settanta, Paco de Lucía ha saputo espandere e consolidare la propria fama di chitarrista ben oltre i confini nazionali. Era stimato ovunque, riconosciuto come strabiliante interprete di flamenco, per la sua indiscussa bravura tecnica, le capacità espressive (il cosiddetto “duende”) e per il suo vario repertorio tipicamente tradizionale talvolta arricchito con sonorità moderne. Da bambino si era formato seguendo la “scuola” più tradizionale rinnovando, quando necessario, il linguaggio. Memorabili le collaborazioni con musicisti di successo e di varia estrazione musicale, come John Mclaughlin, Carlos Santana, Al di Meola, Larry Coryell. Indimenticabili sono le (re)interpretazioni delle opere classiche di Manuel de Falla e Joaquin Rodrigo. La discografia di De Lucía comprende una quarantina di titoli, alcuni dei quali sono raccolte o frutto di collaborazioni con altri suonatori. Proprio in virtù degli elevati standard tecnico-qualitativi raggiunti, da alcuni il nome di Paco de Lucía è stato associato alle Accademie strumentali spagnole. Tuttavia il chitarrista non era particolarmente avvezzo alla lettura e alla scrittura musicale (non ne faceva mistero), poiché la sua formazione seguì i rigorosi canoni dell’insegnamento orale, in base ai quali s’impara studiando tecnicamente, ascoltando, osservando e facendo (tantissima) pratica quotidiana, accompagnando cantori, ballerini o esibendosi come solisti per fini esecutivi o spettacolari.
Come riferito, figura principale per la formazione giovanile di Paco è stato il padre, Antonio, commerciante ambulante, il quale di giorno vendeva tessuti e nel tempo libero o di sera suonava gli strumenti a corda (mandolino e chitarra) nelle feste o nei gruppi di flamenco. Antonio sposò Luzía Gomes Gonçalves, portoghese (di Monte Gordo), dalla cui unione nacquero Ramon, Maria Lucía, Pepe, Antonio e Paco, il più piccolo della famiglia.
Nelle forme più primitive del flamenco il canto (“el cante”) era ritmicamente accompagnato dal battito (dei palmi) delle mani, dallo schiocco delle dita o dalle nocche percosse sul tavolo, talvolta da un bastone battuto per terra. Storicamente, la chitarra flamenco iniziò a essere usata nei cosiddetti “cafè cantantes” come accompagnamento per il canto e il ballo (“el baile”), poi progressivamente anche come strumento solista. Antonio Sánchez Pecino comprese che, negli anni Cinquanta, per i chitarristi di flamenco si stavano aprendo numerose occasioni di lavoro, poiché lo strumento favoriva una gradita varietà ritmica, melodica e armonica nelle esecuzioni spettacolari. Parecchi erano all’epoca i cantori e i ballerini, proporzionalmente pochi i bravi chitarristi, per i quali si prospettava persino la possibilità di vivere di sola musica e con buon guadagno. Dopo gli anni dell’obbligatorietà, Antonio decise di ritirare i figli da scuola, insegnando loro il mestiere di musicista: «Mi faceva studiare intere giornate – ricorderà Paco – suonavo fino a che i polpastrelli mi dolevano».
Dalle biografie Antonio Sánchez Pecino emerge come persona di talento musicale, dal carattere ferreo il quale, con paterna severità, richiedeva giornalmente ai figli il massimo impegno nello studio, poiché desiderava diventassero virtuosi della chitarra flamenco. A undici anni, Paco è così costretto ad abbandonare gli studi scolastici, passando le giornate a perfezionare il repertorio tradizionale, iniziato ad apprendere sin dalla prima infanzia. Oltre al padre suo insegnante diventa il fratello maggiore, Ramon Sánchez (in arte Ramon de Algeciras, 1938-2009), chitarrista dotato di una tecnica di accompagnamento raffinata, decisivo per la formazione del piccolo Paco il quale, in età avanzata, mostrerà il proprio riconoscimento anche verso altri chitarristi solisti ma, in particolare, per Niño Ricardo (amico del padre), Sabicas e Mario Escudero.
Come noto, la chitarra flamenco è uno strumento armonico che richiede continuo allenamento per ottenere avanzate competenze tecniche, quelle in cui de Lucía dimostrerà di eccellere durante le esecuzioni, caratterizzate dai tipici elementi stilistici: “picado”, “pulgar”, “alzapùa”, “rasgueo” (o “rasgueado”), “golpe” e un numero (incredibilmente) vario di “arpeggi”. Il “picado” consiste nel suonare singole note con i movimenti alternati delle dita della mano destra (Paco era abilissimo nel gioco indice e medio, utilizzando secondo esigenza il tocco “appoggiato” o “libero”).
Con “alzapùa”, per alcuni passaggi specifici, si utilizza il dorso del pollice sulle corde dall’acuto verso il grave. Nel “pulgar” il pollice pizzica la corda verso quella immediatamente sottostante. Il “golpe” è ottenuto mediante caratteristici colpi percussivi della mano ritmica sulla tavola armonica, vicino al “mi cantino”. Paco era anche un maestro nell’uso dei “legati” (“ligados”), ascendenti o discendenti, da lui usati secondo necessità per fini espressivi, virtuosistici o per ottenere effetti di “sospensione” melodica, prolungando il suono senza l’uso della mano destra. Il “rasgueados” (comprende diverse formule) è un altro effetto timbrico tipico dei flamenchisti, che permette di suonare in rapida successione le corde con la mano destra utilizzando il dorso delle unghie. Inoltre l’effetto “tremolo”, una rapida ripetizione di suoni con il ritmo di quartine o, più preferibilmente nella musica spagnola, di quintine. Nelle interviste, de Lucía ha ripetutamente evidenziato l’importanza di essere impeccabili anche in funzione del “tempo”, “il flamenco è essenzialmente ritmico”, perché è governando questo che si accompagna e si esprime con autenticità lo spirito della musica andalusa.
La tecnica strumentale ha caratterizzato progressivamente lo stile esecutivo del giovane Paco il quale, nel più tradizionale dei modi e nell’ambiente più idoneo, assimilò lo spirito esecutivo più profondo del flamenco normalmente espresso con la locuzione “tener duende”, cioè possedere un’anima capace di trasmettere autentica emozione vissuta interiormente, in modo passionale, dal suonatore. Paco evidenziava spesso l’importanza di saper suonare il flamenco “col cuore”: non esistono tecniche accademiche o libri musicali che lo possano insegnare essendo parte di una continua ricerca interiore. Oltre allo studio rigoroso impostogli dal padre, dal fratello e dai suonatori con i quali entrò in contatto, per la sua formazione risultò fondamentale il continuo confronto con il pubblico, con i cantanti e i ballerini. La musica del flamenco è innanzi tutto espressività nel canto (ha origine nel cosiddetto “canto hondo”) e nel ballo, in cui i piedi sono scattanti e ritmici, all’interno di movimenti spaziali talvolta ridottissimi.
Nell’esprimere musicalmente il “duende” bisogna essere suonatori di grande umanità, capaci di saper cogliere una ricca gamma di sfumature emotive che comprendono gioia e dolore, felicità e tristezza, caratteristiche spesso riscontrabili nelle differenti espressioni musicali della musica popolare. Sull’estetica del “duende” è stato scritto parecchio a partire dagli anni Trenta con Federico Garcia Lorca (“Juego y Teoria del duende”), il quale, citando quanto appreso direttamente da un anziano suonatore, ricordava che «… Il duende non è nella gola, il duende sale fino… dentro di te, dalla pianta dei piedi. Ciò significa che non è una questione di capacità, ma di vero stile di vita, di sangue, della più antica cultura, della creazione spontanea». La fierezza e l’orgoglio dei suonatori e ballerini di flamenco si colgono anche nello sguardo. Invito il lettore a osservare, confrontandoli, i numerosi filmati con esecuzioni dal vivo di Paco de Lucía. È abbastanza raro vederlo sorridere in modo aperto. Lo sguardo è spesso severo, concentrato, il suo orecchio proteso a mediare quanto prodotto dalle mani con gli stimoli sonori ricevuti dal cervello. Il suo corpo, con micro movimenti del capo, è costantemente partecipe anche quando chiude gli occhi e si lascia andare in passaggi e progressioni che richiedono elevato virtuosismo tecnico. Tra i tanti, un filmato ha colpito la mia attenzione, perché il chitarrista appare particolarmente sorridente e disteso quando duetta con Chick Corea il quale, a mio avviso, ha più di altri avuto la capacità di saper mettere a proprio agio l’interlocutore musicale.
Restando nell’ambito delle collaborazioni, ricordo l’incontro nel 1980 con John McLaughlin e Al Di Meola, un trio mitico consacrato nel disco “Friday Night in San Francisco”, che vendette negli anni quasi sei milioni di copie. Fu questo disco “cult” che decretò definitivamente il successo di de Lucía, con una serie di concerti “sold out” nelle principali capitali internazionali. Di questo trio è stato scritto di tutto nelle riviste specialistiche e nelle opere monografiche, comprese le storie della musica pop. Pertanto qui interessa solo rilevare come per il chitarrista di Algeciras sia stato importante l’incontro con questi due chitarristi per arricchire il proprio modo di suonare e di concepire le strutture formali delle singole composizioni. Nei primi incontri in trio, ricordava Paco nelle interviste, “era disorientato”. Il concetto d’improvvisazione secondo lo stile dei jazzisti lo spiazzava. Impiegò del tempo prima di riuscire a esprimere il proprio “duende” con questa formazione, che per quei concerti lo obbligò a rivedere il proprio modo di concepire l’esecuzione, fissando alcuni schemi logico-musicali nel diretto rapporto tra scale-armonia, indispensabili per non perdersi durante i momenti di “libera” improvvisazione. Evidenzio ciò per mettere in risalto come de Lucía da un lato cercò sempre di restare ancorato alla tradizione rinnovandola dall’interno, dall’altro si mostrò aperto a nuove esperienze (anche ibride ma di livello) che lo arricchirono musicalmente.