Damon Albarn si è esibito qualche giorno fa alla Cavea dell’Auditorium Parco della Musica di Roma in uno spettacolo caratterizzato principalmente da un forte entusiasmo. Dovuto in egual misura alla grande aspettativa che, qui in Italia, è andata maturando dopo l’uscita del suo capolavoro da solista “Everyday Robots” (il primo di brani originali che Albarn pubblica a suo nome) e alla formula efficace del suo live. Che, inevitabilmente, si riflette nell’eclettismo e nella maturazione artistica del musicista inglese: diretto, informale, ritmato, energico. In due parole: raffinato e pop. Una musica affinata in oltre venti anni di successi, durante i quali Albarn e i Blur (di cui è ancora il cantante, visto che ufficialmente la band non è sciolta, anzi regala a intervalli irregolari qualche singolo e qualche performance in giro per il mondo) hanno dato lustro e visibilità internazionale a un genere che solo loro sanno fare e, soprattutto, solo loro sono riusciti a sviluppare e rimodellare, dopo l’abbagliante parabola dei Beatles, che ne ha decretato una sorta di congelamento, durato un po' più di vent’anni. Certo lo spettro delle influenze di Albarn è molto ampio e, proprio per questo, la sua storia musicale sembra una montagna russa, una fibrillazione di elementi che prima esplodono, tagliano, spezzano il continuum, poi si depositano uno sull’altro con coerenza. E lasciano vedere anche a noi la visione del loro mescolatore. Il concerto di Roma ha dimostrato probabilmente il momento (hic et nunc) di raccordo di questi forti smottamenti e ha favorito la sovrapposizione e l’incontro di tutto quello che di positivo ci si deve aspettare da una performance dal vivo. Damon Albarn parla alla gente e calca il palco senza piedistalli e la successione dei brani ha seguito un’evidente linea “emozionale”, piuttosto che di spettacolo, di effetto.
Tutti i brani delle “sue” band (Blur, Gorillaz, The Good, the Bad & the Queen, Rocket Juice and the Moon) hanno assunto una veste estemporanea e contemporanea, riconoscibile in pochi ma determinanti elementi: una trama di basso e chitarra lineare, minimale, di atmosfera, “rumorista” (quando Damon imbraccia la sua acustica produce un suono con pochissime varianti, intervallato dal rumore metallico delle corde che battono sui tasti, mentre gli altri due “cordisti”, Seye Adelekan e Jeffrey Wootton, ricamano tutta l’armonia), una sezione vocale molto curata (in “Heavy seas of love”, ultimo brano della scaletta di “Everyday Robots”, composto con Brian Eno, compare The Leytonstone City Mission Choir. Ma in tutti i pezzi l’elemento vacale è estremamente curato, come lo è, d’altronde, in quelli dei Blur, sebbene sia, allo stesso tempo, caratterizzato da uno stile apparentemente estemporaneo), una sezione ritmica precisa, determinata e cadenzata (il batterista - un giovane prodigio di nome The PSM, alias Paul Stanley-McKenzie, già con Albarn nei Gorillaz e nel suo progetto itinerante Africa Express - aveva a disposizione qualche pannello elettronico, ma buona parte del groove lo ha costruito su cassa, rullante e piatti). Nella cavea del Parco della Musica la voce possente e irriverente di Albarn non si è mai fermata e i brani si sono rovesciati su un pubblico esterrefatto, che ha succhiato ogni minuto dello show: dopo "Clint Eastwood" - la hit dei Gorillaz saltata in vetta alle classifiche mondiali nel lontano 2001 e contenuta nel primo album omonimo della cartoon band - Albarn ha addirittura invitato tutti a salire sul palco. D'altronde è stato sciorinato un successo dopo un altro e tutto si è svolto in un'atmosfera estremamente informale, normale. E Damon non si è tirato indietro né quando si doveva scrollare di dosso l'aurea dei Blur, né quando doveva testare il “sentimento popolare” che scaturiva dai suoi nuovi brani.
Ovviamente questi ultimi hanno avuto un ruolo di primo piano, ma la “citazione” del suo “primo” gruppo, con una versione in solo al piano di “End of a century” (uno dei singoli dell’album Parklife del 1994), suonata al rientro dalla prima pausa, ha rappresentato uno dei punti più alti dell’intera performance (il momento è stato suggellato dall’entrata in scena di un fan che, appena finito il brano, è salito sul palco, ha abbracciato lentamente Albarn ed è poi tornato tra la folla come se niente fosse). “Lonely press play” - il secondo singolo estratto da “Everyday Robots” - è il brano che ha aperto il concerto e ha scosso tutti fin da subito, suggerendo la prospettiva che da lì in avanti avremmo tutti seguito per un paio d’ore. Il ritmo trascinato della versione originale (escogitato con batteria, qualche accordo di piano, un tappeto di suoni e percussioni in sottofondo a fare da contrappunto alle pulsazioni del basso pieno e diffuso) è stato sostituito da una batteria sostenuta e marcata, che ha spinto questo brano ambiguo e riflessivo con un andamento deciso, coinvolgente e regolare. Dopo l’omaggio ai Rocket Juice and the Moon, il super-gruppo che Albarn ha formato con Flea dei Red Hot Chili Peppers e Tony Allen (con cui nel 2012 ha prodotto l’album omonimo, al quale hanno anche partecipato Erika Badu e il rapper ghanese M.anifest), il gran finale è toccato a “Mr Tembo" e “Heavy seas of love”. Questi sono i due pezzi pop dell’album, nei quali è ben riconoscibile la vocazione attuale di Damon Albarn, maturata nel quadro di un processo di sintesi di esperienze eterogenee. Le melodie sono regolari e perfettamente circolari. Sono arricchite da un arrangiamento curato, nel quadro del quale emergono (anche se sotto forma di piccole citazioni) soluzioni ritmiche e armoniche vagamente “etniche”. Questa grammatica, che non si perde, anzi, viene implementata nella dimensione live, colloca Albarn in uno scenario meno stretto e definito, determinandone implicitamente il profilo di musicista fuori da un genere tradizionale. E questo ci fa ben sperare sulle sorprese che ci attendono.
Daniele Cestellini
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