Come si può leggere nelle note di presentazione, Coreacore è “un progetto e una famiglia che coinvolge tanti artisti, poeti, musicisti, attori ed amici”. Questa dimensione “collettivistica” emerge scorrendo il booklet - dove compare una copiosa lista di “contributori”, non solo musicisti - e anche dall’ascolto dei dieci brani che compongono “Lottoventisette”, il primo disco di questa interessante formazione, di base nel cuore romano della Garbatella. Il collettivo è composto da ottimi musicisti con bene impressa la sonorità malinconica della tradizione canora romanesca ma, allo stesso tempo, protesi verso un suono originale che concede ben poco alla nostalgia. Anzi. E ancor meno concede alla riproposta romantica, a una rappresentazione retorica e peggio ancora reificante (anche solo dell’immagine) del repertorio delle canzoni popolari romane. Forse anche per il fatto che, a differenza di altri repertori popolari (più definiti sul piano musicale, ritmico, più “orali” - se così si può dire - cioè più indipendenti dalle strutture musicali colte e, anche per questo, più rappresentati nel quadro del fenomeno del revival), quello in romanesco ha mantenuto un profilo più intatto e non è stato sottoposto con continuità alle dinamiche della riproposta. Ma il vero elemento di forza di questo progetto - che ruota intorno alle idee e alla voce morbida e profonda di Claudia Delli Ficorelli - sta nel fatto che si sviluppa lungo una linea di narrazione moderna. Che mira cioè a rivendicare, attraverso la dimensione collettiva della produzione musicale, una “logica”, un sentimento che coincide anche con un modo di vivere, di percepire gli accadimenti e di interpretarli per raccontarli. Si tratta della logica e della pienezza di una dimensione “locale”, meno scontata in un contesto metropolitano e cosmopolita come quello di Roma, ma ancora più determinante se, come in questo caso, si configura attraverso un tratto culturale doppio: da un lato la tradizione, che si esplica attraverso l’uso del dialetto, oltre che nella scelta dei temi dei brani originali, i quali ricevono l’influenza del patrimonio storico della canzone e dei cantatori della città: da Romolo Balzani a Gabriella Ferri, da De Angelis a Califano. Dall’altro lato “una” Roma contemporanea e inevitabilmente “romana” (che fa da contrappunto - senza forzature - alle famose esperienze musicali internazionaliste e multietniche), dove continua a fiorire quel sentimento romanesco, di quartiere, che confluisce in una narrativa musicale molto fluida, i cui esiti sono significativi in termini culturali e, in generale, artistici (in questi ultimi anni gli esponenti del genere - ognuno con le sue peculiarità ma tutti imperniati sul dialetto romano - sono cresciuti e si sono fatti sentire, riscuotendo un notevole successo: siamo in una fase interessante, nella quale sta prendendo piede un “melodismo” misto a ritmo, racconto realista, prosa secca, che è molto rappresentativo della tradizione espressiva del nostro paese). Chi si aspetta l’amarcord, quindi, rimarrà fondamentalmente a bocca asciutta. Perché la configurazione di questa musica è tutt’altro che nostalgica o celebrativa. E questo nonostante campeggino i grandi nomi della canzone romana e i nomi di grandi cantanti romani. Uno fra tutti può essere il compianto Francesco Di Giacomo, voce storica e indimenticabile del Banco del Mutuo Soccorso. La sua interpretazione di “Lella” - brano scritto e pubblicato da Edoardo De Angelis all’inizio degli anni Settanta, entrato a far parte, di diritto, nel panorama della canzone “urbana” romanesca - riconsegna al brano una nuova forza “popolare”. Una forza ancorata a un’estemporaneità possente, a una partecipazione e, allo stesso tempo, alla personalizzazione, che arricchisce con sicurezza una melodia già equilibrata nella versione originale. Nella “restituzione” di Di Giacomo il racconto diviene addirittura più realista. Specie nella prima parte - sussurrata, raccontata e cantata nello stesso tempo - sembra quasi di vedere quel disgraziato che si avvicina all’amico e gli racconta che ha ucciso la sua amante (“e te lo vojo di’ che so’ stato io”), ripercorrendo, allo stesso tempo, uno spicchio della topografia della città: “La moje de Proietti er cravattaro/ Quello che cia' er negozio su ar Tritone”. Oppure, “A la fiumara 'ndo ce sta er baretto/ Tra le reti e le barche abbandonate”. Da qui arriviamo a uno dei dati più importanti di questo disco. Laddove vengono meno, come si è detto, gli elementi più retorici, emerge con forza la peculiarità della tradizione musicale romanesca. La quale si contraddistingue per essere immediatamente riconoscibile, e probabilmente più accessibile di altre “tradizioni”, perché riflette una storia di sovrapposizioni con i generi “intermedi” al colto e al popolare (come la canzone d’autore), ma soprattutto perché ha una struttura più porosa, all’interno della quale le contaminazioni riescono a posizionarsi in modo ordinato. Questo è anche il motivo per il quale i brani di “Lottoventisette” (di cui cinque sono inediti, mentre cinque sono rivisitazioni del repertorio edito) divengono familiari già dopo il primo ascolto: hanno la profondità delle storie ormai entrate a far parte della memoria collettiva (“piuttosto che sta’ solo dentro al letto/ vado randagio in qualche vicoletto”), l’andamento sicuro del racconto di argomenti conosciuti e riconoscibili (“Ce n’è de gente che a mezza bocca me dice che/ ognuno c’ha ’n destino e se questo è ‘r tuo/ sarà che sotto sotto ce sarai portata ma sai che c’è/ io proprio nun ce la vedo la mano de Dio/ dentro a ‘sto foco vicino a me”), il romanticismo ingenuo, diretto e “figurativo” del dialetto: “Nina si voi dormite/ sognate che ve bacio/ ch’io v’addorcisco er sonno/ cantanno adacio adacio”.
Daniele Cestellini
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