Polistrumentista e ricercatore romano, Gianluca Zammarelli vanta un intenso percorso artistico che lo ha portato dapprima a studiare il blues e il jazz e successivamente a concentrarsi sulla musica popolare, non solo imparando a suonare diversi strumenti come la zampogna, l’organetto e la chitarra battente, ma anche approfondendo le tradizioni musicali del Sud Italia ed in particolare della sua terra d’origine, il Cilento. Forte di un rigoroso percorso di ricerca sul campo, negli anni ha dato alle stampe diversi dischi tanto come solista come l’apprezzato “Cenere”, quanto con alcuni gruppi (“In Ciociaria” con ZMP). Lo abbiamo intervistato in occasione della pubblicazione del suo nuovo album “Canti Sepolti” per approfondire insieme a lui la genesi di questo nuovo lavoro, e ripercorrere le tappe salienti del suo vissuto artistico, soffermandoci in particolare sulla sua attività di ricerca sul campo.
Partiamo da lontano, agli inizi della tua carriera hai cominciato con il blues, ma successivamente ti sei appassionato alla musica tradizionale? Come è nato questo amore?
Il blues in generale credo sia un aspetto di tutta la cultura italiana del dopoguerra (così rivolta verso gli USA) e il blues detto “delle origini”, “roots blues”era ancora di più la musica dei ghettizzati, dei dimenticati, dei rifiutati…un po’ quello che erano contadini, pastori e operai italiani, con le loro personali culture e musiche. Dal Blues alla Tarantella il passo è breve.
L’amore per la musica tradizionale posso dire sia nato con me, in quanto ho da subito ascoltato storie e canti ancora vivi nella tradizione, diciamo, antica. La mia bisnonna era di Siracusa e spesso mi cantava filastrocche e tarantelle, oltre a particolari anti-malocchio. Mio padre viene dal Cilento e questa zona (in tutto direi lucana) era allora ancora piena di occasioni di feste autoctone durante la mia infanzia, quindi potevo assistere direttamente a quelle musiche ancora così poco “italiane”, tanto arcaiche da risultare addirittura “sperimentali”. In ultimo mia madre è originaria del Lazio (S.Oreste) e malgrado io abbia vissuto e frequentato esclusivamente il Cilento, ho accolto nella mia cultura musicale anche quella straordinaria comunicazione che è lo stornello, ritrovandolo a Roma e dintorni, luogo dove vivo.
Il primo passo per la tua formazione in ambito popolare è stato lo studiare la musica tradizionale della tua terra di origine, il Cilento. Ci puoi raccontare questa tua esperienza?
Come dicevo ero in qualche modo appassionato di quei canti blues. Tuttavia ascoltavo già qualcosa di simile nel Cilento, intendo quei canti così acuti e strani, appassionati e strazianti, e faccio notare che in Cilento un tipo di canto viene chiamato “Lagnanza”. Inoltre sapevo che esisteva un tipo di chitarra detto battente oramai in disuso, o meglio, nascosto, che attirava la mia attenzione. Mentre per me e altri ragazzi coetanei era qualcosa di nuovo, per gli anziani era la normalità, quindi, visto che quasi nessuno si occupava di rivitalizzare questo aspetto musicale del Cilento, decisi di iniziare prima di tutto a “intervistare” gli anziani. Inoltre essendo già un musicista, riuscii in qualche modo ad entrare meglio in contatto con loro. Nacquero delle belle amicizie.
Tu nasci come chitarrista, ma pian piano con le tue frequentazioni in ambito folk hai imparato a suonare anche altri strumenti come il mandolino, la ciaramella, l’organetto e la zampogna. Chi sono stati i tuoi maestri?
Il mandolino fu un regalo e i primi suoi utilizzi furono in ambito blues e jazz, quindi non direttamente la musica napoletana, quindi imparai ad usarlo in modi anche non classici.
La ciaramella fu un gradito regalo di mia zia del Cilento di quando ero ragazzo, in quanto avrei dovuto suonare la novena per le feste natalizie, da questa passai alla zampogna quasi naturalmente. Il primo maestro di ciaramella fu Rocco Carbone di Colliano, per la zampogna invece decisamente gli anziani del Cilento e poi soprattutto Pietro Citera, suonatore e costruttore. L’organetto invece, cominciai a suonarlo per necessità, in quanto spesso mi chiamavano a suonare in ambiti itineranti e da solo. Non ho mai imparato a suonarlo in modo virtuosistico, ma solo quanto basta per fare una tarantella e 2 stornelli, tuttavia ho ammirato molto Pino Pontuali, che tra l’altro è un grande cantastorie vivente, e i suonatori di organetto Sardo.
Quanto sono state importanti per te le tue ricerche sul campo?
Importantissime, chiaramente, perché potevo sentire direttamente gli originali, valutarne le varianti e confrontarle anche con altre tradizioni. Inoltre il fatto di essere musicista e di buon orecchio, mi ha sicuramente avvantaggiato e indirizzato nel mio tentativo di sintetizzare la tradizione con qualcosa di più conteporaneo.
Quanto ti ha arricchito entrare in contatto con gli anziani suonatori?
E’ stato fondamentale! E non soltanto per naturali sentimenti di rispetto o per il mito del suonatore anziano. Questi suonatori (anziani per anagrafe) erano realmente molto bravi, precisi e “musicisti”, più di quello che si crede in genere, Certo, vi erano anche anziani che non sapevano suonare, ma era assurdo, e lo è tuttora, liquidare ancora la musica tradizionale come musica del volgo illetterato, ignorante e incapace. Quelle tonalità, quegli stili e quelle scale non erano frutto di incapacità, ma vere e proprie scelte stilistiche dettate dalla tradizione e dalla personale sensibilità. Chi non capisce questo, purtroppo, è destinato non solo a non capire la musica del popolo, ma la musica in genere, le sue evoluzioni e le sue sfaccettature.
Parallelamente al tuo percorso nella musica tradizionale, hai collaborato a lungo anche con Ascanio Celestini. Quanto è stata importante per te questa esperienza?
L’incontro con Ascanio fu fortuito: iniziammo il servizio civile nel 1998 lo stesso giorno e nello stesso posto, l’assistenza che dovevamo fare agli anziani era già tutta una bella premessa e un altro vantaggio. In quel periodo maturammo l’idea di una Compagnia e insieme a un latro chitarrista fondamentale Matteo D’Agostino, integrammo la musica con il teatro (o meglio la narrazione) e con la ricerca e le registrazioni, approffittando degli utenti anziani durante il servizio civile. Come si sa Roma offre una miriade di tradizioni diverse, quindi intervistammo uomini e donne da Veneto, Marche, Abruzzo, Lucania, Puglia, Lazio, Sicilia, Calabria, rielaborando poi i risultati in forma di spettacolo.
A parte poi l’esperienza professionale che ne scaturì nelle tournè e negli spettacoli, posso senz’altro dire che la vicinanza alle modalità teatrali, mi ha insegnato a vedere la forma “spettacolo” con un occhio più estetico e più curato (cosa che a molti musicisti manca) a partire dalla postura. Inoltre reputo quell’esperienza un bell esempio di simbiosi tra artisti che spesso anche senza prove sanno comunque fare uno spettacolo, anche questo mi ha insegnato molto. In ultimo, viste anche le tematiche che con Ascanio abbiamo affrontato, il tema dell’impegno sociale e politico si consolidò molto. Malgrado quell’epoca si sia naturalmente conclusa, ne ho sempre un bel ricordo
Tornando alla musica tradizionale, ti sei occupato anche di didattica presso il Circolo Gianni Bosio. Quanto ti ha arricchito questa esperienza dal punto di vista professionale?
Bè, in genere è difficile che faccia esperienze che non mi arricchiscano in qualche modo e anche quella del Bosio è stata fondamentale, sia per la grande stima che avevo per il Circolo e per Alessandro Portelli, sia per l’indubbia rilevanza che il Circolo Bosio ha avuto nel campo culturale e politico di Roma. Iniziai a insegnare chitarra battente dopo aver visto che praticamente nessuno insegnava questo strumento non solo a Roma ma credo in Italia. Forse anche Marcello Vitale cominciava in quello stesso periodo a insegnare, non ricordo. Comunque fu proprio nel mio primo corso che incontrai il famoso Alfonso Toscano che anche grazie ai miei consigli, divenne il punto di riferimento culturale della chitarra battente in Italia (che poi vuol dire nel mondo)
Ci puoi parlare del progetto Zona Musicale Protetta con cui hai inciso il disco “In Ciociaria”?
Zona Musicale Protetta, che nelle sue iniziali ZMP rimanda a Zammarelli, Mazziotti, Piccioni è stata un’esperienza di tre musicisti professionisti ed esperti in uno strumento tradizionale. Allora ancora credevamo che si potesse rinnovare la tradizione usando la tradizione stessa, oggi non credo più si possa fare, se non dialogando necessariamente con la contemporaneità. Tuttavia, la grande bravura ed esperienza di Mazzioti e Piccioni, rese quel progetto molto interessante. Purtroppo ci limitammo alla pubblicazione di “In Ciociaria”, diciamo un lavoro commissionato dalla regione Lazio,nonostante ciò, insieme alla collaborazione di Riccardo Masi esperto di Ciociaria, riuscimmo in qualche modo a rendere attive certe canzoni “imprigionate” nella Discoteca di Stato e a valorizzare un area culturale ancora oggi un po’ trascurata.
Nella tua biografia mi ha incuriosito anche “Cenere” disco dedicato ai canti da osteria. Come è nata l’idea di fare un disco di questo tipo?
In realtà è un disco che non si trova più (e neanche io ho più, se non le registrazioni) e non è nient’altro che un embrionale “Canti Sepolti”. Era diventato uno spettacolo sui canti di Osteria partendo dal famoso proverbio: Bacco, Tabacco e Venere riducono l’uomo in cenere”. Direi il motto dell’uomo da osteria. Il rimando è agli anni 50/60 cioè la generazione dei padri ancora vivi, coloro con cui in qualche modo dobbiamo fare i conti nel bene o nel male.
Il disco “Ypsos” nasce invece dalla collaborazione con Mario Pio Mancino degli Indaco. Ci puoi parlare di questa esperienza?
E’ stata una breve esperienza, in cui il mio contributo si è limitato a due canzoni originali e alcune suonate di chitarra battente. Mi interessò la possibilità di integrare musica tradizionale italiana con suoni elettrici e da altre culture. Mi sembrò interessante anche se poi decisi di abbandonare il proggetto essendo più interessato al canto. Ricordo particolarmente l’incontro con il musicista di fiati D’Argenzio che mi colpì molto: stimo molto il suo capire subito in che area musicale e culturale si trova, senza perdere la propria creatività, una sensibilità davvero molto rara.
Il risultato delle tue ricerche sul campo in Cilento è raccolto nel libro “Tra Nu Bosco e Na Jumara”, a cui hai incluso anche un disco di field recordings. Ci puoi parlare di questo progetto?
Il titolo è un verso di un canto di partenza. Il progetto intendeva rendere disponibile alcune mie registrazioni effettuate durante 15 anni assieme ad un libro in cui potessi spiegare certe verità musicali del Cilento. Mi sembrava che nel panorama generale del folk-revival mancasse il Cilento, malgrado alcune lodevoli pubblicazioni (introvabili) di Amedeo La Greca. Per quanto riguarda le registrazioni, ho privilegiato quelle più spontanee, durante il vivo di una festa, nelle osterie, nelle serenate notturne, malgrado a volte la qualità audio le penalizzi.
Prima di tutto premetto che le mie ricerche sono state fatte senza grandi mezzi. Da studente potevo permettermi solo un registratore a cassette e poi un MiniCd. Il Pc ancora non c’era.
In genere utilizzavo molto l’intuito. Una ricerca iniziava grosso modo così: mi informavo prima su dei testi ma leggendoli in modo critico. Poi cercavo di far apprezzare agli stessi anziani la loro musica, vivevo come loro mangiando con loro, bevendo con loro, quando possibile il dialetto aiutava. Poi cercavo di convincerli che non tutti i giovani odiavano quella musica. Infatti pensavo che dove un anziano è attivo e non escluso, riesce ad integrarsi con i giovani. Viceversa il giovane che vede un anziano attivo e musicalmente comunicatore, tende ad ammirarlo tagliando le distanze, fino ad imitarlo. Questa è la ragione per cui molti giovani ( a dir la verità soprattutto al sud) hanno fatto sopravvivere certi strumenti, certe musiche. Io mi sono reso responsabile di aver riavviato alla musica decine di anziani in Cilento, suonatori abbandonati a se stessi, e più erano bravi, più erano offesi e si defilavano, vietando la loro preziosa presenza. Più che capacità etnologica, credo sia sensibilità sociale e psicologica, un tentativo di avere memoria e fare anche un po’ di bene sociale (dovrei avere uno stipendiuccio per questo….)
Dal punto di vista della ricerca quali sono i tuoi riferimenti?
Tutti quei ricercatori storici: Lomax, De Martino, Carpitella, Leydi. Credo che tutta la etnomusicologia ha sempre fatto e fa un ottimo lavoro. Tuttavia credo che il ricercatore per eccellenza sia il cantore tradizionale, come “ricercatore” di se stesso, prima, e della sua cultura poi. A catena riesce a riscoprire e riattivare un’intera cultura, sempre che eviti il folclorismo di massa.
Il cofanetto “Fior Di Radice” è un antologia che raccoglie alcuni brani cardine della tua produzione, componendo un vero e proprio viaggio in Italia attraverso la musica popolare. Come è nata l’idea di realizzare questo disco?
Da una parte per ribadire che la musica popolare non è privilegio di una regione a discapito di un’altra. In secondo luogo questo lavoro antologico raccoglie brani sparsi in dischi di altri, oppure per inaccessibilità a ristampe discografiche. Tutto sommato una soluzione alla mancanza di vivacità produttiva delle etichette discografiche. Il titolo si riferisce al fiore (simbolo poetico per eccelenza) e alla radice che spesso è amara e brutta, ma assolutamente necessaria e innegabile.
Il tuo ultimo disco “Canti Sepolti” raccoglie alcuni canti popolari dimenticati? Come nasce questo progetto?
L’idea non è recente, ma risale al progetto “Cenere”. Il tentativo era quello di valorizzare la cultura dell’osteria come incontro e creatività e non solo di bevute. Col passare del tempo decisi di scegliere alcuni canti, di cui in un modo o nell’altro ero venuto a conoscenza, e che oggi considero scomparsi, sepolti appunto, direi esclusi dall’odierna sintesi della musica etnica italiana (e non parliamo della musica italiana ufficiale). Considero che tutto ciò che si esclude si dimentica, tutto ciò che si dimentica muore, e tutto ciò che muore senza memoria non è mai esistito. Inoltre l’aspetto sconosciuto dei canti potrebbe anche dargli una certa forma di novità, alimentando anche una certa curiosità. Il disco verrà presentato in forma di concerto con il titolo”D’amore e di veleno” arricchito di altri brani anche meno “sepolti”.
Il disco mette insieme canti alpini e brani di Matteo Salvatore, composizioni autografe e tradizionali dal Cilento alla Romagna passando per il Lazio. Ci puoi raccontare da dove arrivano i vari brani?
Certamente l’intenzione è di riportare la musica popolare ad un livello più nazionale (parlando dell’Italia) oltre certi regionalismi che si sono cristallizzati negli ultimi anni del nuovo folk revival.
“D’Amore e Di Veleno” è un testo originale sul tema della mia lontananza dal Cilento, utilizzando un canto ancora vivo e interessante, l’ottava rima che ho appreso soprattutto da Donato De Acutis e Alessandro Calabrese per primi. “La Frontiera” è un canto alpino che per sua discendenza dalla guerra ‘15-’18 ha avuto una diffusione in tutta Italia, tanto che mi fu cantato anche da un’anziana del Cilento, Vincenza Cortazzo. “Cilento” è la mia elaborazione di un brano degli anni 60 del cantastorie Aniello De Vita, recentemente scomparso. Ho sempre amato questa canzone, la quale era diventata quasi tradizionale, di quelle cui si ignora l’autore; rappresenta bene senza eccessive smielature il problema emigrazione. “La Donna Bella” mi è stata cantata a Roma da un cantore abruzzese Gino Lancianese, e credo sia il precedente della più famosa canzone di Modugno, oppure una sua parodia di cui io ho aggiunto alcune strofe. “Svegliati” è una serenata di origine romagnola ma diffusa anche in Ciociaria, l’ho sentita prima da Riccardo Masi e Sara Modigliani, poi da Pino Pontuali e credo siano il soli che conoscano questa canzone. “La Ballerina” è tratto da il repertorio di Italia Rinaldi della provincia di Rieti. “Di Te Mi Innamorai” è una rielaborazione del trallalero genovese a cui ho aggiunto il testo mio. “Il Pollo” in realtà nasce da una filastrocca che la tradizione narra debba essere arricchita ogni generazione di un verso nuovo, e anche io ho fatto la mia parte. Mi è stata riferita da Pino Pontuali e io l’ho arrangiata a tarantella, credo sia molto attuale e persino futuro. “Sole Santo” è una canto cilentano di lontananza, ma considero la musica di origine colta e chiaramente non so dirne l’autore. “La Notte è Bella” è forse il meno sepolto dei brani, è una canzone di Matteo Salvatore. Considero questa canzone una bella descrizione della notte in un piccolo paese rurale di qualsiasi sud, c’è molta poesia e colloca Matteo Salvatore tra le vette dei cantori italiani. “La Monaca” è un’altra canzone satirica di origine lucana riferitami sempre da Pontuali. “All’Uscita” è un brano originale originariamente pubblicato nel disco “Oltremare” degli YPSOS e già presente in Cenere, qui riarrangiata per l’occasione . “Sonno” è semplicemente la ninna nanna del Cilento.
Su tutti ho fatto una scelta forse discutibile (per uno come me che ama il dialetto): ho tradotto quasi tutto in italiano. Infatti ho pensato più alla comprensibilità, quasi come un cantastorie. Se alla fine verranno fuori tanti e diranno” non sono sepolti, li canta mio nonno!” vuol dire che avrò raggiunto un risultato.
Da una parte ho voluto integrare strumenti della tradizione come la chitarra battente, la ciaramella, l’organetto e il mandolino con le sonorità contemporanee o comunque piuttosto recenti, ma secondo uno stile che avrebbero utilizzato i cantori stessi della tradizione. In pratica ogni strumento ho cercato di farlo esprimere al di fuori dei codici a cui sono stati destinati e codificati anche da un certo consumo di massa, restituendoli ad una espressività molto personale, in questo caso la mia. Faccio sempre l’esempio del suonatore tradizionale che può suonare “Calabrisella” con l’organetto, con la ciaramella, con la zampogna, con…una foglia. Per questo progetto ho beneficiato dell’aiuto di Gabriele Gagliarini che ha un uso delle percussioni molto personale e originale a mio avviso, con un’attenzione alla verbalità degli strumenti; e di Marco Rufo che oltre ad essere un grande suonatore di fisarmonica e organetto ha una sensibilità molto aperta all’interpretazione, chiave importante della musica popolare. Altrove ho cercato di riprodurre l’aspetto ludico e gioioso del repertorio tradizionale oppure l’aspetto più onirico, a volte inesplicabile e denso di rivendicazione sociale di tutto l’immaginario popolare. Unico riferimento delicato all’elettronica si può trovare in SONNO. Il tutto cercando di pensare questi canti sepolti come canzoni originali, nuove. Nell’esecuzione dal vivo partecipa anche un grande musicista come Silvano Boschin alla chitarra classica e il mandolino.
Da sempre hai imboccato la strada dell’autoproduzione, quali sono le difficoltà che incontra chi opera questo tipo di scelta?
In realtà ho una mentalità di autoproduzione già da tempi non sospetti, sin da quando da ragazzino mi registravo canzoni con il registratore a cassette. Sembrerà strano, ma non ho mai cercato assiduamente una etichetta discografica per una naturale pigrizia e diffidenza e per avere anche una certa libertà di lavoro (a volte a discapito purtroppo della qualità audio, questioni di gusto). Non che abbia tuttavia alcuna avversità per il “produttore”, anzi, ma i tempi ci hanno insegnato che inevitabilmente ci si sarebbe avviati all’autoproduzione, e praticamente oggi è tutta autoproduzione. Con il consolidamento del web come canale di consumo e promozionale addirittura il CD fisico è solo un gadget da vendere/regalare ai concerti e sicuramente oggi più di 25 anni fa chiunque può produrre un CD in piena autonomia, spesso con risultati eccellenti. Però anche qui non abbiamo inventato nulla! Infatti già dagli anni ’60 esisteva un auto produzione sotterranea detta “da bancarella”, diffusa soprattutto nel centro-sud Italia. Una maniera di essere autonomi nella propria cultura rifiutando a priori qualsiasi contatto fisico e culturale con la distribuzione di massa, e più in profondo con il potere che esclude. In questo mi sento molto simile, anche se non vedo il potere così persecutorio. In fondo cosa cambia tra una grande produzione e un’auto produzione? Forse solo una certa resa sonora e la qualità della carta, ma certamente a livello comunicativo il valore pende molto verso l’auto produzione. Chiaramente ci sono alcuni svantaggi in questa scelta, a parte il rischio del naif. Sicuramente canali di promozione più difficili da percorrere, soprattutto in Italia dove ancora siamo legati ad un’ impostazione politica/statalista della cultura. Sicuramente pochi finanziamenti (diciamo nulla) e difficoltà quindi a sviluppare seriamente delle buone idee e diffonderle. Organizzo ancora alcuni micro-festival solo con le mie forze e sono contento. Insomma in un autoproduzione è molto difficile dare un servizio agli altri, ma in qualche modo ce la caviamo. Da noi si dice “Quant’anni vuò campà!”.
Concludendo, quali sono i tuoi progetti futuri?
Nell’immediato c’è la preparazione del tour”D’amore e di veleno”, a mio avviso uno spettacolo molto originale e rivolto non solo agli amanti della musica popolare. C’è anche molta interattività a seconda dei luoghi e dei tempi, con Ottave riarrangiate e improvvisate a seconda del caso, e anche molto divertimento.
Nell’ambito discografico oltre alla continua sistemazione del mio repertorio sparso dedicato alla tradizione, stiamo preparando il prossimo CD “CIVILI DISPERSI” che vedrà ancora l’ uso degli strumenti tradizionali accanto a testi originali e cover dedicati all’impegno civile, argomento secondo me da riattivare in ogni campo artistico.
Gianluca Zammarelli – Tra Nu Bosco E Na Jumara. Tradizioni del Cilento (Etnomalia, 2011) Cd + Ebook
Frutto di un intensa frequentazione con la tradizione musicale cilentana, “Tra Nu Bosco E Na Jumara” raccoglie i risultati delle tante campagne di ricerche sul campo condotte da Gianluca Zammarelli nella sua terra d’origine, e nel suo insieme rappresenta un vero e proprio atto d’amore verso la sua cultura popolare del Cilento, ancora misteriosa e poco conosciuta, ma allo stesso tempo piena di fascino. Attraverso i ventisei frammenti raccolti nel disco, registrati spesso con mezzi di fortuna o servendosi di un semplice registratore digitale, Zammarelli ricostruisce il panorama sonoro del Cilento, conducendoci nel cuore delle feste tradizionali, nelle case degli anziani cantori e suonatori, nelle osterie, dove ascoltiamo voci antiche, quasi senza tempo, e lo fa senza servirsi di particolari tecniche di ricerca, ma piuttosto puntando a cogliere quella spontaneità che è alla base della musica tradizionale. Ad accompagnare le registrazioni c’è l’interessante ebook esplicativo nel quale per ogni brano, è fornita una contestualizzazione etnomusicologica e laddove possibile viene riportato anche il testo. Tra le registrazioni più interessanti presenti nel disco, vanno segnalate senza dubbio “Alla Craunara” proveniente dal repertorio di Salento, paese di origine di Zammarelli, la serenata “Saluto” ripresa a Rofrano (Sa) e cantata da zi’ Antonio Grosso, il canto d’amore “Alla Longa” registrato dalla voce di zi’ Carmelo di Novi Velia (Sa) e “Alla Cilentana” cantata da Vincenza Cortazzo di Cannalonga (Sa). “Tra Nu Bosco E Na Jumara” rappresenta allo stesso tempo un punto di arrivo e di ripartenza per il percorso artistico di Zammarelli, in quanto racchiude il frutto delle sue ricerche ma allo stesso tempo apre una nuova parentesi nella sua carriera.
Gianluca Zammarelli – Fior Di Radice (Etnomalia, 2013) Cd + Ebook
“Fior Di Radice” nasce dall’idea di riassumere e compendiare il percorso di ricerca del polistrumentista Gianluca Zammarelli, cominciato nel 1998 e perseguito con grande determinazione spaziando dalla musica tradizionale della sua terra d’origine, il Cilento per allargarsi a quella del Lazio e dell’Abruzzo. Il disco, accompagnato da un interessante ebook di approfondimento, raccoglie quattordici brani tratti dalle sue produzioni discografiche precedenti, coprendo un arco temporale che va dal 2006 al 2013. Ad aprire il disco è il canto in ottava rima di “Aspro Come Fiore Di Radice”, a cui segue in medley il tradizionale lucano “Partenza Dolorosa” nella quale brilla l’intreccio tra la surdulina suonata da Mauro Bassano e i tamburelli di Gianni Berardi. Dalla Lucania si passa poi alla tradizione musicale laziale con il canto di emigrazione “Andando In Francia” tratta dal disco “In Ciociaria” con il progetto ZMP ed introdotta da una registrazione sul campo della guida sul carro con i buoi effettuata a Marcellina (Roma). Se dal repertorio abruzzese arriva la “Castiglionese” in cui spicca lo scacciapensieri suonato dallo stesso Zammarelli, il brano successivo “Suonata Dei Pastori” per sola zampogna ci guida nel cuore delle tradizioni natalizie della Campania. Non manca poi un accenno alla Sicilia con il canto d’amore “Frammento Siciliano”, e ai canti di lavoro con il tradizionale laziale “A Mete” tratto da “Stornelli D’Italia”. L’intermezzo per ciaramella apre la strada alla trascinante “Tammuriata” della tradizione cilentana con protagonista assoluta la voce di Maria Rosaria Nocera. L’omaggio alla Calabria della sperimentale “Cantavano Le Nottate”, in cui si intrecciano elettronica, chitarra battente e lira calabrese, ci conduce verso il finale in cui spiccano certamente la “Tarantella Lucana” per zampogna e tamburello, il tradizionale ciociaro “Vendemmia” e la splendida “Novena di Natale”, che sfocia nella sperimentazione sonora di “Surdulina Line” in cui Zammarelli si diverte ad incrociare ancora l’elettronica con i suoni tradizionali. “Fior Di Radice” è, dunque, un ottima raccolta che documenta in modo dettagliato tanto la sua produzione quanto la variegata gamma di interessi musicali che coltiva Gianluca Zammarelli come ricercatore.
Gianluca Zammarelli – Canti Sepolti (Etnomalia, 2014)
Nato con l’idea di ampliare il raggio d’azione di quanto fatto per il progetto “Cenere”, nel quale l’attenzione si era soffermata sul repertorio di canti tradizionali da osteria, “Canti Sepolti”, il disco più recente del polistrumentista romano Gianluca Zammarelli, ne è dunque l’evoluzione andando a scavare nel repertorio più oscuro e meno praticato della tradizione italiana, spaziando dal settentrione al meridione della nostra penisola. Ad aprire il disco è “D’Amore E Di Veleno”, brano originale firmato dallo stesso Zammarelli ed ispirato alla sua lontananza dal Cilento, che ci introduce al canto alpino “La Frontiera”, appreso da Vincenza Cortazzo e risalente al repertorio della Prima Guerra Mondiale. La personale rielaborazione di “Cilento” dal repertorio del cantastorie Aniello De Vita, ci introduce poi al tradizionale abruzzese “La Donna Bella” rimodellata sulla versione che ne fece Modugno, ma è con la serenata romagnola “Svegliati”, appresa da Riccardo Masi e Sara Modigliani, che si tocca il vertice interpretativo del disco. Si prosegue con “La Ballerina” dal repertorio di Italia Rinaldi della provincia di Rieti, a cui seguono la rielaborazione del trallallero genovese “Di Te Mi Innamorai” a cui si accompagna il testo firmato da Zammarelli. La tarantella “Il Pollo” ci conduce verso il finale con il tradizionale cilentano “Sole Santo”, “La Notte è Bella” di Matteo Salvatore e il canto satirico lucano “La Monaca”. La nuova versione di “Oltremare” già ascoltata con gli Ypsos e qui diventata "All'Uscita", e la ninna nanna cilentana “Sonno”, completano un disco senza dubbio interessante, che non mancherà di affascinare quanti vi si avvicineranno dedicandogli un ascolto attento.
Salvatore Esposito