Cocullo è un paese dell’Abruzzo con circa 250 abitanti (all’inizio del Novecento il numero era sette volte maggiore), noto soprattutto per la suggestiva festa dedicata a San Domenico Abate, per la quale giungono pellegrini e curiosi provenienti da ogni dove. Dal 2012, i festeggiamenti sono stati fissati al 1° maggio ma, in passato, si svolgevano il primo giovedì del mese. Quella di San Domenico e dei Serpari è una delle feste nazionali più conosciute da un punto di vista folclorico, ben documentata visivamente anche dai media nazionali e internazionali. Seguendo un preciso percorso devozionale, anticamente, i fedeli ciociari provenienti da Sora, Atina e da diversi altri paesi, a piedi, impiegavano 3 giorni prima di raggiungere Cocullo. Tra loro vi erano zampognari e suonatori di ciaramella, i quali accompagnavano i canti religiosi paraliturgici. Giunti al bivio del paese, al suono degli strumenti pastorali, i fedeli in processione si avviavano verso la piazza principale dove ad attenderli vi erano altri pellegrini e i serpari i quali, da settimane, si erano organizzati per catturare serpi non velenose da riporre ritualmente sul capo della statua del Santo al termine della funzione religiosa, prima di iniziare la processione per le strette stradine di pietra di Cocullo. Nel canto a quartine i pellegrini chiedevano la grazia: - Evviva San Domenico/nostro protettore/fa la grazia tute l’ore/noi andiamo a visitar.
Era questo un canto monodico corale, intenso e lirico, caratterizzato dalla libertà espressiva tipica della vocalità popolare, nella quale non è determinante la padronanza tecnica, quanto saper utilizzare la voce come mezzo di preghiera, come forma di comunicazione che si trasmette emozionalmente dal “corpus” dell’orante per dirigersi nelle intenzioni devozionali verso il Santo.
Attraverso il canto si implora, si chiede la grazia e si ringrazia. Ogni quattro quartine la musica si fermava per dare spazio a un’ovazione non cantata: “Evviva San Domenico!” Poi il canto corale riprendeva come pure i suoni strumentali cadenzando il procedere della processione. Ci si avvicinava alla chiesa e varcata la soglia, sempre più lentamente, ci si approssimava alla statua del Santo posta sull’altare. A seguito del rito liturgico e all’immissione delle serpi sul capo della Statua seguiva la processione, accompagnata questa volta dal suono della Banda e dagli spari, elemento sonoro tipico di numerose feste popolari per annunciare il passaggio del Santo e per allontanare simbolicamente il “negativo” tramite il rumore. Terminata la processione, la gente tornava alle proprie abitazioni o si disperdeva nella piazza principale, ma i fedeli forestieri ritornavano in chiesa per intonare il cosiddetto “canto della partenza”. Una sola quartina ripetuta più volte, con i fedeli rispettosamente intenti a camminare a ritroso senza mai volger le spalle al Santo, sempre accompagnati dal suono delle ciaramelle e delle zampogne: - “Addio San Domenico/ noi siamo di partenza/ e dacci la licenza/ la santa benedizion”. Nella chiesa (dietro all’altare) vi era chi prendeva la terra benedetta e considerata medicamentosa, da spargere nelle case o nei campi di lavoro a scopo protettivo e propiziatorio. In sottofondo al canto un disordinato tintinnio, provocato dai fedeli che con i denti tiravano una corda per mettere in vibrazione una campanella posizionata vicino all’ingresso della chiesa: un antico rituale popolare per tener lontani i dolori fisici e in particolare quello dei denti. Fuori dalla chiesa, dopo aver salutato commossamente il Santo, i pellegrini continuavano a cantare e a suonare fino al bivio del paese, dove poi riprendevano il cammino verso le proprie destinazioni.
Ho usato l’imperfetto nel descrivere la breve (e parziale) sintesi sonora della suggestiva Festa di San Domenico perché gli eventi principali attualmente non sono stati modificati più di tanto. Negli anni Settanta, la festa venne descritta e studiata in modo dettagliato da Alfonso Maria Di Nola (1926-1997), uno dei massimi rappresentanti dell’antropologia culturale italiana del Novecento, il quale tra l’altro mise musicalmente in risalto la presenza di un gruppo di ragazze davanti alla processione, intente a cantare l’inno di culto composto da un parroco locale (tal Marchione) “… completamente estraneo al contesto festivo popolare”. L’opera “Gli aspetti magico-religiosi di una cultura subalterna italiana” venne pubblicata dallo studioso nel 1976, dedicando tutta la prima parte dell’opera al “culto abruzzese dei serpenti” e alle componenti magico-rituali della festa di Cocullo, proponendo una personale ipotesi interpretativa in chiave antropologica. Dal libro citato sono stati ripresi i versi dei canti menzionati (pp. 70-74). Agli appassionati del folklore che ancora non la conoscessero, personalmente consiglio un’attenta lettura dell’opera (un classico metodologico della ricerca antropologica italiana), da alcuni anni ripubblicata con un’ampia presentazione di Francesco Pompeo, intitolata “Alfonso M. di Nola e la “provocazione” dell’antropologia religiosa”. Allo studioso napoletano, Cocullo ha dedicato un’Associazione culturale cui è collegato un “Centro Studi e Documentazione per le Tradizioni Popolari”, al quale collabora un Gruppo di ricercatori coordinati dall'antropologa Lia Giancristofaro (Università di Chieti).
Alfonso Maria Di Nola |
Attualmente il Centro è impegnato a dare il proprio contributo culturale e interdisciplinare affinché la suggestiva festa di San Domenico Abate e dei Serpari possa essere inserita nell’ “ICH” (“Intangible Cultural Heritage”), ovvero la “Lista del Patrimonio Culturale Intangibile” facente capo all’ UNESCO. Una proposta meritevole che ci si augura possa essere presto concretizzata anche per garantire benefici ritorni in termini di promozione culturale a favore dell’intera comunità cocullese e, più in generale, di quelle abruzzesi.
Alfonso Maria di Nola era un comunicatore carismatico, in grado di utilizzare con rara raffinatezza i differenti registri linguistici, grazie ai quali riusciva a spiegare i concetti più ostici dell’antropologia e dell’etnologia religiosa con parole “semplici”, come quelle indispensabili per riuscire ad agganciare il vasto pubblico televisivo. Verso la fine degli anni Ottanta, lo ricordo sulla piazza di Cocullo circondato da studenti universitari, giornalisti e telecamere, impegnato a realizzare per la RAI servizi televisivi e documentari. Da tutte le parti, curiosi e studiosi (provenienti già allora da ogni parte del mondo) lo inondavano di domande e lui serafico rispondeva a tutto campo, ora in italiano ora nelle lingue straniere. Dovendo girare un documentario per conto del Ministero dei Beni Culturali (“La Sagra dei Serpari”, “Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione”, rinvenibile gratuitamente nel web), la Casa di produzione per cui lavoravo, alcuni mesi prima, lo aveva ripetutamente invitato a tenere delle conferenze come autorevole consulente e formatore.
Un libro di Di Nola |
Era catalizzante e possedeva una metodologia espressiva impeccabile, con la quale riusciva ad appassionare l’ascoltatore e ad avvicinarlo emotivamente ai riti, dando risalto ai dettagli solo in apparenza più insignificanti delle feste popolari. Sapeva spaziare con sicurezza tra le discipline storico-umanistiche e medico-psicologiche, continuamente interagendo tra il diacronico e il sincronico, in modo che la mente dell’ascoltatore fosse sempre attenta a cogliere le numerose tessere indispensabili per riuscire a dare alle feste popolari un quadro organico. Durante l’esposizione orale appassionava anche perché era entusiasta del proprio lavoro e delle proprie ricerche. Utilizzando saggiamente l’ironia, era sempre pronto a fornire risposte e a dare spiegazioni esaurienti anche alle domande più banali. Come regista con formazione etnomusicologica, in privato gli chiesi, se fosse stato regista, che cosa lui avrebbe scelto di evidenziare visivamente durante la Festa dei Serpari da un punto di vista musicale. Mi guardò sorridente, aspirò voracemente il fumo della sigaretta e a seguito di una rapida espirazione iniziò a rispondere ininterrottamente per circa venti minuti. Lo ascoltai (come sempre) con vivo interesse. Mi sembrò di assistere a una lezione di anatomia pittorica leonardesca, nella quale viene spiegato agli artisti che ogni muscolo più o meno teso permette di evidenziare un certo stato d’animo, uno specifico tratto psicologico, inevitabilmente legato al “mood” interiore dell’individuo. In sintesi, di Nola mi invitò a ricercare la musicalità della festa non solo nei suoni delle zampogne, delle ciaramelle o nelle melodie dei canti ma, soprattutto, nei volti degli “attori” musicali, tirati, carichi di pathos e di angoscia, al pari di tutti gli altri pellegrini cantanti od oranti in loro compagnia. Mi invitò, in particolare, ad osservare bene i volti dei musici e dei pellegrini durante il percorso di andata verso la chiesa e la mutazione degli stessi dopo il “canto di congedo”, prima di tornare ai propri paesi, perché per i singoli individui la festa aveva anche significato salvifico e detensionante da un punto di vista psicologico. “Se come regista riuscirà a documentare la rinascita in quei volti”, mi disse, “riuscirà a svolgere una operazione significativa di antropologia visiva”. Di Nola chiuse la risposta con un sorriso sornione, quasi a dire, adesso che hai avuto esauriente risposta vedrai tu come cavartela in termini registici.
Una volta andato sul campo con la meticolosa ricercatrice Maria Teresa De Nigris, aiutato dai Cocullesi (che si distinguono per affabilità e squisita cordialità), studiai il percorso che avrebbero compiuto i musici il giorno della festa, cercando di immaginare il caos della processione. L’operazione proposta da di Nola era suggestiva, visivamente “pasoliniana”, ma difficilmente realizzabile con i mezzi televisivi a mia disposizione. Per documentare tutta la festa avevo a disposizione solo tre telecamere. Desistetti, quindi, puntando su una sceneggiatura meno “fiction” e più centrata sul movimento. Tuttavia, durante la festa, con un cameraman andai ad aspettare gli zampognari e i suonatori di ciaramelle ciociari al bivio del paese. Ero determinato a porre loro delle domande a caldo, ma ricordo che i pellegrini e i suonatori erano concentratissimi sul proprio ruolo devozionale. Ponevo le domande, mi guardavano, ma non rispondevano, quasi parlassi una lingua sconosciuta. Riuscii solo a farmi dire il paese di provenienza (Atina) e che erano in viaggio dalla mattina, perché lungo il tragitto, prima di giungere a Cocullo si erano fermati a pregare presso altre chiese. Al termine della festa, gli operatori di ripresa erano stremati, perché avevano dovuto lavorare per ore con la telecamera in spalla in una ressa stressante. Da solo seguii gli zampognari fino al bivio. Uno di loro terminato di suonare, visibilmente affaticato, mi sorrise.
Il volto era disteso e soddisfatto. Provai a fare una domanda e capii subito che ora era disposto a parlare. Rimasi colpito dalla sua profonda devozione verso il Santo. Mi spiegò che da decenni veniva a questa festa e che ci sarebbe venuto finché le forze lo avrebbero sorretto. Per lui e per i compaesani la musica non era folclore, ma un atto devozionale per San Domenico, cui la tradizione attribuisce diversi miracoli e prodigiose guarigioni. Quando stavo prendendo gusto alla conversazione, mi liquidò: “Ora mi scusi” - mi disse - “ma dobbiamo andare a mangiare, per noi la festa continua”. A chi ancora non la conosce o ha avuto modo di osservarla solo tramite i canali televisivi, suggerisco, se si ha la possibilità, di andare il 1° maggio a vedere la festa di Cocullo, perché l’atmosfera dal vivo è decisamente suggestiva e i rituali sono particolarmente significativi. Gli strumenti popolari nella festa di San Domenico inducono a riflessioni tipiche dei fenomeni di “accultura musicale”. Per questa ragione, in conclusione di articolo, sento il dovere di rammentare ai visitatori interessati alla musica popolare che, non lontano da Cocullo, è possibile visitare proprio i luoghi della zampogna laziale e molisana. Mi riferisco ad Atina, Castelnuovo Volturno e Villalatina, dove peraltro è visitabile il “Museo della Zampogna”, essendo lo strumento musicale identificativo della cultura comunitaria.
Il Museo svolge anche attività didattiche rivolte alle scuole e si propone di valorizzare lo strumento popolare attraverso conferenze, concerti e festival tematici. In provincia di Frosinone vi è pure Acquafondata dove, dal 1961 si svolge l’importante Festival della Zampogna (nel mese di agosto). Un altro Museo-Laboratorio della Zampogna è stato istituito a Scapoli, in provincia di Isernia, dove risiedono abili costruttori e suonatori popolari, grazie ai quali è stato assicurato il ricambio generazionale ai fini della trasmissione delle conoscenze organologiche e musicali. Infine, ricordo Maranola, in provincia di Latina, dove nel mese di gennaio si svolge il Festival della Zampogna, coordinato da Erasmo Treglia e Ambrogio Sparagna, due autorevoli etnomusicologi formatisi a livello universitario con Diego Carpitella. Per un approfondimento sui due ricercatori-musicisti e sui Festival della Zampogna, i lettori potranno ricercare informazioni e dettagli leggendo i puntuali articoli proposti da "Blogfoolk" nel corso degli anni.
Paolo Mercurio