“Vodka, Polka & Vina” è il nuovo disco della Babbutzi Orkestar, un ensemble italiano nel cui progetto e nella cui musica convergono un’interessante reinterpretazione dei canoni più diffusi del balkanismo (“Pintalabios”, il terzo brano in scaletta, ne è un chiaro esempio) e un insieme di “gitanismo” e iconografia circense. Quest'ultima, in particolare, sembra essere il risultato di una mistura di colori sgargianti - che si imprime nel profilo sognante e inverosimile di questo ensemble di otto elementi - e uno slancio forte e deciso, che sorregge tutto il disco attraverso un ritmo costante e una successione di movimenti cadenzati e strampalati. I quali, nel complesso, risultano quadrati dentro un andamento azzoppato, che raccoglie evidentemente gli indirizzi di una vasta tradizione esteuropea. Il balkanismo, però, nella versione di questa orkestar, diviene più elegante, svincolato dalle formule più retoriche e generalmente utilizzate (le quali, attenzione, non mancano, ma sembrano più strategiche e vengono qua e là richiamate per ottenere il passo teso che si richiede a queste formazioni, soprattutto nella dimensione del live). In particolare, il balkanismo della Babbutzi si definisce attraverso una relazione originale con uno scenario armonico che ammicca a una tradizione più complessa, più problematica e incoerente, accolta e reinterpretata con convinzione, filtrata con una partecipazione che assume anche la forma di una lettura ponderata, di un approccio critico. A ben vedere, poi, quel “circensismo” così ironicamente esasperato (nell’interno della copertina del disco si vedono due stinchi coperti da due calzini decorati con l’immagine di una madonna con le mani giunte, sfondo biancastro, celeste, rosa, violaceo, che richiama evidentemente la madonna della copertina, immersa in uno sfondo di rosa saturo, con in un mano una vodka e nell’altra la “vina” e sul petto stampato un improbabile piccione, da cui irradia una luce fluorescente quanto irriverente), che deforma e rende piacevolmente indefinita l’immagine del gruppo, non stride con una evidente, anche se ben celata, eleganza di fondo, che si può riconoscere nella costruzione dei brani e in alcune soluzioni timbriche (proviamo ad ascoltare, attraverso l’impressione di queste immagini, l’assolo di “Clovek Ej Hovno”). Un’eleganza che non solo riflette un mondo musicale apparentemente distante dalle parabole e dalle immagini evocate dalla Babbutzi, ma che, sebbene attraverso una serie di connessioni molto sottili, ne abbraccia in pieno la musica, che si rivela così più “mistica” di quanto può sembrare e di quanto quella madonna popolare, mondana e ammiccante sia in grado di suggerire. In questo senso la narrativa della band si sviluppa attraverso una mistica di relazioni con uno scenario ampio, originale e incoerente (e che fa sicuramente il verso al modo in cui sono assemblate quelle poche e selezionatissime immagini del disco). Mi riferisco, più nello specifico, a quei “legami” che la stessa band richiama qua e là nelle notizie che la riguardano. Primo fra tutti Tom Waits, il mistico della rifondazione musicale che ha definito un linguaggio nuovo dopo aver tritato solo elementi incoerenti, le cui relazioni hanno creato però un nuovo senso condiviso, attraverso un processo inverso, una ricerca a ritroso, una decostruzione del jazz da night, che si è potuta realizzare solo nella sintesi di impressioni indelebili, di visioni e rumori da marciapiede, da bancone di bar, da letto di motel (l’assolo di chitarra in “Parruska" sembra venire proprio da lì). Da Tom Waits, poi, la Babbutzi passa a Carosone, a Buscaglione - con una versione bum bam espansa all’inverosimile di Buonasera Signorina (mentre il cielo sembra dire buonasera/ la vecchia luna sul Mediterraneo appar) - alla No Smoking Orkestar, Boban & Marko Marcovic, Goran Bregovic, Baba Zula, Can Bonomo, Fanfare en Petard, Kocani Orkestar, Saban Bajramovic, Besh O Drom, Mike Patton, Balkan Beat Box, Fanfara Ciociaria e via di questo passo. Insomma, si potrebbe anche dire che siamo oltre la “musica balcanica” (volendoci concedere il gusto di una piccola provocazione). Da un lato grazie alla tensione di questi musicisti, che battono tutti i colpi, sia dentro che fuori la canzone: il ritmo, i fiati instancabili, le chitarre waitsiane, la voce profonda ma senza strascichi, l’inglese alienato e sillabato con l’enfasi equilibratamente balcanica. Ma anche, appunto, la scena, lo scenario, l’immagine, i drappi di una tradizione adattata alla visione di una musica contaminata e spavalda, cappelli, gilet, camice, barbe e baffi. Dall’altro lato, probabilmente, ci ritroviamo oltre la “musica balcanica” grazie proprio alla musica balcanica. La quale ormai è conosciutissima e adattissima a una coreutica sociale quasi istintivamente frenetica. È spesso rivoltata in modi differenti, ma più o meno per gli stessi motivi: si configura come un insieme di elementi elastici, i quali, se nella dimensione dal vivo si riallacciano alle componenti più estemporanee che ne caratterizzano la struttura, sono riusciti a restituire anche le articolazioni complessive di una grammatica molto ricca, incardinata su pochi elementi ma, allo stesso tempo, sviluppabile in innumerevoli combinazioni. Non è un caso che la linea delle influenze della Babbutzi si possa probabilmente percorrere anche al contrario (cioè attraverso il suo riflesso speculare). Che, ad esempio, nei ritmi affogati e balbuzienti di Waits si possano ritrovare le combinazioni strutturali balcaniche e che da quei ritmi, prima di arrivare alle forme più tradizionali di quelle espressioni musicali, si possa incontrare proprio il suono della Babbutzi Orkestar.
Daniele Cestellini
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