Se leggete qualche volta questa rubrica, sapete quanto io sia ossessionato da Bob Dylan, e quanto sia importante per me e la mia musica la sua sola presenza. Così, quando leggo che Elton John si è convinto a registrare questo disco dopo aver ascoltato “Modern Times” di Bob Dylan, beh, eccomi qui ad ascoltarlo per voi. Il fatto che il talentuosissimo cantautore inglese sia al trentesimo album accresce la curiosità, nonché il fatto che al timone della produzione artistica ci sia un altro elemento fortemente in orbita dylaniana come T-Bone Burnett, che, a mio modesto parere, è il top dell’idea stessa di produzione artistica. Elton John, come tutti i protagonisti dell’era “vinilica” della musica, (laddove con questa definizione si intende rappresentare quei musicisti affermatisi quando il supporto era nero, le copertine di cartone profumato, e le facciate A e B non debordavano in lunghezza) si deve confrontare con l’idea che si tratti di musicisti, che sono alla ricerca del sé perduto, in una sorta di pseudo dovere di ripresentarsi come la maggior parte della gente li ricorda. Nel caso di Elton John, con una delle sue mise, forse? Il disco che ho ascoltato è tutto meno che passatista. Certo c’è quel piano acustico suonato con personalità dal nostro, ci sono i testi di Bernie Taupin. Su tutto vigila il genio di un T-Bone Burnett, che lavora per sottrazione, togliendo e togliendo qua e là. Così, quel che rimane è il fare musica di un musicista ispirato, triste, malinconico, con evidenti momenti di introspezione artistica e storica, con suggestioni letterarie e sociologiche, che però non sono fondamentali per amare un disco. Da musicista, vi dico che questo disco suona molto bene. La voce è quella di un consumato cantante, che ha le corde vocali della sua età. Si sente la voce che canta con fatica in qualche episodio, ma sarebbe innaturale il contrario. Elton John afferma di aver scritto il disco in due giorni, ma credo si tratti di una delle boutade necessarie agli uffici stampa per condire un comunicato stampa. Credo che se fosse un ultimo lavoro (cosa che non mi auguro assolutamente, ci mancherebbe!) sarebbe assolutamente un bel testamento musicale. E allora vai con Oscar Wilde, e di trampolini di lancio, e del suono di pianoforte più bello che ho sentito negli ultimi anni, e groove di batteria croccanti, e bassi melodiosi e quasi niente chitarre.
Antonio "Rigo" Righetti
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