Non è musicista di primo pelo il trombonista Ruslan Trochynskyi, dall’Ucraina all’Estonia, dagli Haydamaky agli Svjata Vatra; oggi è il vocalist e frontman di una band che furoreggia nella scena folk revivalista del paese baltico. Il nome Svjata Vatra, che in ucraino vuol dire Fuoco Sacro, calza a pennello a questo quartetto nu folk ad alto tasso rock e punk, che può ricordare esperienze affini in terra polacca. Compagni d’avventura di Ruslan (voce, trombone, falce) sono Kulno Malva (fisarmonica, voce, cornamusa estone), Juhan Suits (cornamusa estone, scacciapensieri, corno di legno, whistle, voce) e Martin Aulis (batteria e percussioni). “Svitlyi Schljah” (in ucraino significa più o meno “un cammino più luminoso”) è la quarta uscita discografica di una formazione che veste anche panni multimediali, visto che in passato si è “imbarcata”, nel vero senso della parola, in un progetto musical-teatrale su di una nave che ha veleggiato nelle acque del Baltico, toccando tutti i paesi rivieraschi; un altro progetto li ha visti protagonisti di un documentario su un viaggio musicale nei Carpazi. Il significato della raccolta “Svitlyi schljah” è così spiegato da Ruslan: “L’album inizia con lo spirito della primavera, cui seguono le feste dell’estate, poi le tradizioni invernali augurali di salute e fertilità”. Dai canti di gioco infantili ucraini alle danze, dai canti augurali alle scorribande balcaniche, bordoni e fiati, peso ritmico rock e funk, Qua e là uno scacciapensieri si impone a sorreggere come fosse un basso o a incunearsi nelle melodie. Il disco si apre con “Zajchyk”, un canto infantile che descrive la preparazione del pane, elemento base della cucina dei popoli: parte con un attacco di torupill, poi su un serrato gioco ritmico agiscono fisarmonica, flauto e trombone. La successiva “Jaanike, poisikene” è una canzone associata al solstizio d’estate in salsa funk. Siamo nella festa più importante per gli estoni, con l’accensione dei falò, ai quali è importante partecipare se si vuol assorbire buone energie per essere felici l’anno successivo”, mi spiega ancora Ruslan. Cadenze balcaniche per il tradizionale ucraino “Mak”, un canto infantile che parla del papavero, simbolo di fertilità, ma molto usato nella cucina e nella farmacopea tradizionale popolare. Ancora un’usanza popolare è il tema del canto tradizionale ucraino “Oi u poli dva dubky” (Due querce nel campo): un ragazzo offre alla ragazza dei frutti di bosco, che rappresentano una proposta di matrimonio: se la ragazza li accetta e li mangia, la proposta è accettata e il matrimonio si celebrerà. Seguono due canzoni cosacche: il folk-rock di “Kozak guljae” – pubblicato anche in singolo per le radio – dove corno, scacciapensieri, fisarmonica e whistle fanno squadra, dando vita ad un sound compatto ed affascinante, che lascia trapelare qualche rivolo celtico, e “Jak by Meni syvy kin” che si si muove a ritmo di rock-ska-unza unza, tra assoli di cornamusa, che si infila tra fiati e base ritmica. Voci, tamburi e bordoni nll’attacco di “Оi syvaia ta i Zozulechka” (Il cucù grigio), un’altra canzone tradizionale ucraina eseguita nel periodo natalizio, in cui il canto rituale si appoggia alla melodia del torupill. Mid-tempo, invece, per “Tuman iarom” (La nebbia ha coperto il dirupo), un canto cosacco con andamento da ballad, che Ruslan ha appreso da sua nonna; il testo parla della nebbia e dell’impossibilità di vedere cosa ci sia oltre. Poi, alcuni simboli diventano visibili: una quercia (radici e famiglia), un pozzo (anima), l’acqua (relazioni pure) e una sciarpa (matrimonio): fuor di metafora, le cose importanti della vita non sono chiaramente visibili. Tocca poi al folk-rock della title track, “Svitlyi Schljah”, con il trombone di Ruslan che si fa spazio tra whistle e fisarmonica, qui si riprende la metafora delle scelte di vita rappresentate simbolicamente da sentieri che si aprono di fronte a noi. In “Tvoi guby, jak maky”, la bellezza di una ragazza è paragonata ai papaveri che sbocciano. “Lalala” è una sgroppata, uno di quei brani trascinanti, tutto ritmo e sudore che dal vivo fanno saltare e ballare il pubblico. Un canto polivocale, “Tule tulele”, è ancora un invito a partecipare ai falò estivi, mentre mantiene una forte tensione “Tulesõnad!”, che chiude l’album, ricordando che il fuoco è fonte di tutto, ma occorre saperlo maneggiare.
Ciro De Rosa
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