Uno dei progetti più importanti che conduce in questo periodo il Circolo Gianni Bosio è quello sulle musiche dei migranti (lo abbiamo chiamato, citando ironicamente una canzone romana del dopoguerra, “Roma forestiera”). Mentre prepariamo le prossime uscite – CD sui curdi, sui rumeni, un secondo CD antologico) vorrei proporre alcune riflessioni sul primo prodotto di questo progetto. Il CD Istaraniyeri, in cui sono presentate ontologicamente alcune delle prime registrazioni realizzate nel corso del progetto, e cercare di individuare alcuni dei tanti percorsi che ci suggerisce e dei significati che ci possiamo cercare.
Non sarebbe né sensato né legittimo imporre una lettura su un lavoro di questo genere, sui mondi di cui dà traccia, sulle persone di cui ascoltiamo le voci: non è un teorema che dimostra qualcosa, ma piuttosto una matrice di percorsi e significati possibili che dipendono soprattutto dall’ascolto di chi lo sente. Certo, esistono quadri generali. In primo luogo, l’evidenza tangibile della presenza culturale del mondo migrante, che per primi documentiamo con una ricerca sul campo (dopo avere dedicato iniziative a mettere in evidenza la scrittura letteraria dei migranti) e di cui quindi implicitamente riaffermiamo i diritti. Poi, la conferma e ulteriore articolazione della nostra ipotesi di partenza – un’ipotesi forte e provocatoria: la musica popolare a Roma non è (solo o più) il vernacolo romanesco ma è poliglotta e multiculturale. Ancora: la straordinaria lettura che ne ha dato spontaneamente Giovanna Marini, al primo ascolto di una bozza provvisoria, riconoscendoci una mescolanza, un intreccio, un sincretismo di cose “nostre” e “loro” in una sintesi nuova.
Ma al di là di questi quadri generali, ascoltando e riascoltando, si aprono ulteriori connessioni e percorsi sotterranei e rivelatori. Per esempio: potremmo tracciare una linea che collega la canzone “Istaraniyeri”, con cui si apre il CD (“Sono solo un ospite, uno straniero, non sono né africano né europeo”), con il brano improvvisato dalla nigeriana Lucy Rabo (“Non capisco perché la gente mi odia, perché ce l’hanno con me”) per riconoscere in entrambi il senso di solitudine e spaesamento dell’esilio e della migrazione (fra l’altro: ricordiamo “Ciavevo un cuore e l’ho donato a voi ma voi a me non ci pensate mai”, le migranti abruzzesi all’Acquedotto Felice, che esprimo lo stesso stato d’anima all’interno di un’esperienza di migrazione dentro i confini nazionali). Se poi facciamo un altro passo e ci mettiamo anche la crudele canzoncina colombiana del bambino che non riceve i regali perché “Gesù Bambino non mi vuole bene”, allora il senso di esclusione, di solitudine, di emarginazione diventa più ampio, più esistenziale (anche la canzone di Violeta Joana, grande voce rom, ben nota a chi frequenta la linea A della metropolitana, parla di solitudine). A proposito: quante cose diverse può essere il Natale, fra questa canzoncina terribile e i canti rituali, inclusivi, delle donne ucraine o del coro rumeno di Civitavecchia, a loro volta inclusi nel disco?
Da Lucy Rabo che chiede oboli ai passanti col suo cartello: “Sono povera ma felice”, potremmo tornare anche indietro al racconto di Janeth, musicista di strada ecuadoriana, sull’orgoglio di “fare un’offerta musicale”, e individuare una narrazione sul tema dell’orgoglio, del rifiuto di sentirsi umiliati per il fatto di essere poveri e di lavorare in strada. Colleghiamo il racconto di Janeth sullo stress e l’impazzimento di fare la badante, e i canti delle badanti ucraine di Terni: la cultura, la musica, la memoria, lo stare insieme, come difese dall’alienazione.
Ma la canzone di Sergio e Janeth – “Sono il discendente di Atahualpa e del sole” – apre un altro percorso ancora: se la connettiamo con “Muhabat” cantata da Mamosté Abdurrahman Ozel, maestro di poesia e musica curda, esiliato politico, vediamo che entrambe riguardano grandi simboli dell’identità di gruppi marginali o discriminati, gli indios latinoamericani o i curdi. Mettiamoci anche la canzone filippina cantata da madre e figlia di Casilino 23 sull’orgoglio della propria lingua e sulla memoria dell’eroe della liberazione nazionale: i migranti arrivano portandosi dietro anche l’orgoglio consapevole della propria storia.
A proposito di lingua: che relazione c’è fra “Istaraniyeri”, con la sua ibridazione linguistica (parole italiane assimilate alla fonetica somala) e l’inno protestante filippino in improbabile italiano? Non c’è anche l’indicazione di un percorso di sincretismo linguistico da seguire e sviluppare? E sulla via del sincretismo: il percussionista senegalese Yussouf che, fiero della sua cultura, dice “Diventiamo tutti africani”, e Anatole Tah che connette il canto di lavoro della Costa d’Avorio con l’articolo 1 della costituzione italiana…
Un altro percorso, su un piano più teorico: sia la canzone di Sushmita Sultana, danzatrice e musicista del Bangla Desh – composta dal grande poeta Radindranath Tagore, premio Nobel – sia il brano di Brahms eseguito dal violinista sul tram, sia la canzone cantata da Abdurrahman Ozel, scritta da un importante poeta curdo – non sono “folk” ma musica colta, cultura “alta” (Sushmita ha tanto di laurea prestigiosa) ma stanno dentro la pratica dell’oralità. Anche altri brani del disco rimescolano le categorie: per esempio, la canzone che canta Roxana Ene (studentessa rumena di 16 anni) viene dal repertorio di Maria Tănase – una star della popular music romena degli anni ’40, che troviamo facilmente su youtube, ma che troviamo anche nei dischi di registrazioni etnomusicologiche sul campo curati da Alan Lomax. In altre parole: nei Balcani come in Bangla Desh come in Kurdistan come in Ecuador – come nella maggior parte del mondo eccetto Europa e Nordamerica – la definizione di “musica popolare” è decisamente diversa, molto più fluida, più aperta e meno gerarchica di quella codificata da noi (ma anche recentemente, quando ho registrato i musicisti palestinesi a Nazareth, la loro era musica contemporaneamente popolare e classica). Questa mi pare una delle indicazioni teoriche, storiche e metodologiche forti che emergono dalla ricerca: un invito a ripensare le categorie e le gerarchie occidentali sui “dislivelli culturali” in ambito musicale. E non solo.
Ora, questi sono solo alcuni nei nessi, dei percorsi, delle narrazioni che vengono in mente a me adesso. Ad altri verranno in mente altre connessioni, altri significati, altre storie. Altri ne possono venire in mente ancora a me perché matrici di significati come questa sono inesauribili (per esempio, mentre scrivo: la polvere e il vento di Roxana, i fiori e le stagioni della canzone del maestro di scuola cinese alla scuola Pisacane, e di quella di Sushmita…). Non dobbiamo fare altro che ascoltare. E sulla base di questo ascolto andiamo avanti a progettare i prossimi percorsi.
Alessandro Portelli