“La cosa strana è che l’America mi ha fatto scoprire le cose italiane. Cioè, io sono arrivata, partendo da quelle americane, a cui m’ero proprio dedicata, me le studiavo in America insieme a quelle italiane”, così Giovanna Marini sottolinea l’importanza che ha avuto per lei la scoperta della musica tradizionale americana, nella bella intervista con Alessandro Portelli, che impreziosisce il suo nuovo album, Lady Of Carlisle. Proprio grazie all’incoraggiamento di quest’ultimo è nato questo disco, che rappresenta un unicum all’interno della sua ormai immensa discografia, in quanto raccoglie una selezione dei brani della tradizione folk anglo-americana, che pur facendo parte da sempre del suo Dna musicale non aveva mai inciso. Si tratta di un lavoro molto intimo, in quanto mescola i ricordi della sua adolescenza, trascorsa per motivi di studio in Inghilterra, e dell’infanzia dei suoi figli, che sono cresciuti con lei negli Stati Uniti dove aveva seguito il marito che lì si era trasferito per motivi di lavoro. E’ però anche un lavoro di grande importanza musicale perché da qui traspare anche una profonda conoscenza della tradizione musicale anglo-americana, della quale la Marini ne fornisce un interpretazione personale e allo stesso tempo profondissima. L’idea di realizzare questo disco, nasce però in modo molto casuale come ci racconta lei stessa: “L’idea di questo disco è nata quasi per caso, complice la mia amicizia con Alessandro Portelli, professore universitario alla Sapienza di Roma e noto americanista. Con lui spesso andiamo in vacanza insieme e molto spesso mi sono ritrovata a cantare questi brani, e a lavorarci per il Circolo Gianni Bosio, che ha fondato lo stesso Portelli e dove insegno anch’io. Sono canti che ho imparato quando stavo a Wimbledon in Inghilterra, vicino Londra dove ho studiato negli anni quaranta. Ricordo che ero dalle suore e ho imparato molte canzoni, perché nelle scuole si cantava e si canta molto. Successivamente quando mi sono trasferita negli Stati Uniti, per seguire mio marito che lavorava come fisico al MIT a Cambridge, ho scoperto Woody Guthrie, la bellezza dei suoi canti. Quando sono tornata in Italia queste cose sono rimaste un po’ sopite nella memoria, anche dei miei figli. Ogni tanto però è
capitato che abbiamo ricantato questi brani con i miei figli, che sono ormai dei musicisti professionisti affermati. Una sera c’era anche Portelli, e stavamo cantando e suonando e lui ha registrato tutto, perché c’era anche il figlio Matteo. E’ nata così l’idea di fare questo disco, è avvenuto tutto in famiglia, insomma. Così grazie a Matteo, che era entusiasta del progetto, abbiamo registrato il disco, al quale hanno partecipato entrambi i miei figli. E’ la mia memoria, quella dei miei figli, di quando stavamo all’estero…”
La partecipazione alle registrazioni dei figli della Marini, Silvia (piano e voce) e Francesco (clarino e sassofoni), ricompone così una sorta di album di famiglia, tra ricordi e canti della tradizione anglo-americana: “Quando eravamo negli Stati Uniti con mio marito, i bambini cantavamo questi brani, che apprendevano a scuola, perché frequentavano un asilo di neri dove imparavano tutti questi spiritual, questi canti bellissimi delle manifestazioni antirazziali. Venivano a casa e io li imparavo, poi andavamo alle manifestazioni con mio marito e le ricantavamo. E’ tutta vita vissuta questo disco”. Durante l’ascolto a spiccare in modo particolare è l’iniziale Ain’t You Glad, rilette in una trascinante versione in duetto con la figlia Silvia al piano e alla voce: “Eravamo negli Stati Uniti quando hanno ucciso Viola Liuzzo, attivista del movimento dei diritti civili, e ricordo che i bambini tornarono da scuola cantando “Ain’t You Glad”. Cantavano per questi neri che venivano massacrati, e Viola era una mamma, era andata per aiutarli. Quando ci siamo ritrovati ad inciderla, è nato tutto sull’onda della memoria musicale. Non abbiamo scritto una nota, perché mia figlia sin da piccolina ha sempre suonato il jazz. Le piaceva molto questa musica e per lei era facilissimo prendere lo swing tipico, perché si ricordava tutto. Si è messa al pianoforte, e ha risuonato tutto alla perfezione. Lei ha un grande orecchio, e poi musicalmente è preparatissima, è una musicista completa, è una professionista. Si è messa a suonare divertendosi e tutti ci siamo divertiti molto, anche mio figlio che insegna al conservatorio di Vibo Valentia. E’ stato piacevole tirare fuori la memoria della
loro infanzia e anche della mia. Senza mai scrivere niente, come ci pareva, come cantavamo sempre”. Altro brano dal significato particolare è la title track, fattale conoscere dall’indimenticato Bruno Trentin e qui impreziosita dal clarino del figlio Francesco: “Bruno era molto appassionato di questi canti, era amico di Ewan McColl, e conosceva bene anche Peggy Seeger, della quale mi regalò un piccolo disco della Folkways che conteneva questo brano. Lei suonava divinamente il banjo, forse meglio del fratello Pete, e quando l’ho conosciuta le ho chiesto di cantarmi “Lady Of Carlisle”. Lo fece in modo splendido accompagnata dal suo banjo”.
Non mancano brani del repertorio di Woody Guthrie come “Oregon Trail”, “Those Brown Eyes” e “What Did The Deep Sea Say”, e che ci forniscono l’occasione per aprire uno spaccato di riflessione sulla diffusione della sua musica di quest’ultimo negli Stati Uniti: “Vorrei sapere quanto siano realmente diffusi in America, perché non credo siano molto diffusi adesso. Non so quanto sia conosciuto Woody Guthrie, certamente è più conosciuto Bob Dylan. Per loro è proprio un padre fondatore e quindi dovrebbero conoscerlo, e vorrei andare su a vedere, perché non ho capito bene questa cosa. Ai tempi nostri non era molto conosciuto Woody Guthrie, era amato solo dagli appassionati e tra questi c’era Bob Dylan. Quando Woody Guthrie è morto in ospedale, mio marito era andato a trovarlo, io non c’ero e mi ha detto che chi era sempre fisso lì era Bob Dylan. Quindi lui è stato fino all’ultimo momento vicino a Woody Guthrie e ne ha preso molto. Senza altro come spirito di trasmissione di cantacronache…”. Si apre così un’ulteriore parentesi sulla differenza della percezione della musica tradizionale tra Italia e Stati Uniti: “Negli Stati Uniti, a differenza dell’Italia, c’è una percezione e un
rispetto diverso per la musica tradizionale…Gli americani sono più intelligentemente dediti al commercio della cultura, gli italiani hanno sempre avuto questo freno etico, un po’ snobbistico, e la cultura con la C maiuscola non si vende nei negozi. Gli italiani non hanno mai affrontato questo problema come lo affrontò la Folkways, la prima grande casa editrice, che ha raccolto i canti popolari, come noi avevamo fatto i Dischi del Sole. La Folkways era la parente più stretta dei Dischi del Sole. In America loro li immisero immediatamente in distribuzione facendo conoscere questo materiale, da noi abbiamo fatto i dischi, ma non avevamo i soldi per una distribuzione, e ciò che è peggio è che non c’era una richiesta. Da noi rimaneva tutto chiuso nelle cantine nei ghetti politici, e quindi non si apriva alla gente, alla folla. Quando ho pubblicato nel 2002 “Il Fischio del Vapore” con Francesco De Gregori, tutti hanno scoperto questi canti tradizionali italiani, e nessuno li conosceva. Mi chiedevo come fosse possibile, visto che erano canti ripresi da cose che avevamo già cantato ed inciso in passato e la gente nemmeno lo sapeva. Questo è successo perché in Italia non hanno aggredito il commercio come in America dove sono più abituati a trovare in commercio cose colte” Conoscere la tradizione musicale anglo-americana è stata però, per la Marini, la base di partenza per cominciare un più importante percorso di ricerca su quella italiana: “In effetti si, sono partita per l’America che avevo appena fatto il Bella Ciao a Spoleto e conosciuto il mondo del Nuovo Canzoniere Italiano, che mi era piaciuto moltissimo. Io però venivo dal conservatorio e dalla musica classica e ancora non conoscevo il canto popolare italiano, che lì a Spoleto avevo solo sfiorato e dove ero andata perché mi piaceva molto cantare. Arrivata in America ho ritrovato però le mie origini perché lì cantavano i canti e le ballads inglesi. Dove
vivevamo noi, a Cambridge nel Massachusetts, quello è New England, è il posto dove sono approdati dall’Inghilterra, e dove sono presenti tutte famiglie che rivendicano le loro origini inglesi. Questo lo si sente nelle loro canzoni e nel loro modo di cantare. Ho conosciuto poi il lavoro di Woody Guthrie, il primo disco l’ho comprato ad Harvard Square all’Università di Harvard, e ho capito che lui era l’inventore del folklore bianco americano. Ha scritto dei canti bellissimi, anche lui sui modi delle ballads e unendoli con molti canti Spiritual”. L'aver approfondito le strutture e gli stilemi tipici della tradizione anglo-americana ha però influito anche nella sua attività di autrice di compositrice: “Quando compongono per il cinema o per il teatro c’è un approccio diverso, ma quando mi trovo a comporre brani che devo cantare io stessa o il quartetto, allora faccio grande uso del talkin’ blues come nel caso de La Ballata dell’America. Anche il blues mi è entrato dentro, e se devo rievocare Giovanna Daffini, utilizzo il blues. Quando racconto La Nave, che è un disco che ha fatto Ala Bianca, ancora di vecchie ballate ed è metà talkin’ blues metà blues, quindi ha influito moltissimo”.
Dalla scoperta della vocalità americana è nato un sorprendente parallelo con la cultura orale italiana: “Ricordo che andammo una volta al Club 47, a sentire Almeda Riddle, una delle più importanti cantrici tradizionali americane, e la sua voce era identica a quella delle nostre mondine. L’imposto delle contadine americane e l’imposto delle contadine italiane era uguale. Hanno un imposto dove non vanno mai nelle ossa del cranio a cercare i punti di risonanza come facciamo noi o chi canta lirico, loro si fermano al palato superiore, cioè la loro voce ha una risonanza puramente facciale, si ferma all’altezza degli occhi. Ed è una voce più spinta che chiamano the belt voice, perché infatti viene dalla cintura, dal
basso, spinta dal diaframma, ed è noi diciamo banalmente voce dal basso, ed è uguale. Qui la geografia non c’entra, è proprio la stessa”. Completano il disco la sorprendente versione di “The Sloop John B.” nella quale è affiancata dal Quartetto Urbano, una struggente “Goodnight Irene” e “Will You Miss Me”, tuttavia non manca anche uno spaccato dedicato ai canti di lavoro in senso stretto con “Miner’s Lifeguard”: “Miner’s Lifeguard è l’inno del sindacato dei minatori, nel suo ritmo ha il suono e la cadenza del lavoro. E’ la musica del rituale, quella legata alla funzione, quella dei lavoratori della campagna che cantano mentre lavorano. Sono canti che nascono con la funzione precisa di scandire i tempi del lavoro. Se chiede ad un cantore contadino di cantarle i canti di Pasqua, lui le dice subito, che non può cantarglieli perché non è Pasqua. Quando io chiedevo alle vecchiette in Sardegna di cantarmi un lamento, mi rispondevano “ e mica sono morta!”. Anche qui ho un amico che è siciliano e che si ostina a cantare anche se sega con la sega elettrica, quindi fa un frastuono tremendo, perché lui appena si mette a fare un lavoro manuale canta. E’ questo che mi interessa, sono i canti legati dal rito alla funzione, quei canti che provengono dalla quotidianità. Una canzonetta può essere musicalmente bella o meno, ma non è necessariamente bella, un canto di lavoro, un canto di passione della settimana santa, anche perché è cantato con quella voce, ha sempre un interesse musicale di tipo colto, profondo. Il canto necessario quello è un canto interessante”. Con “Lady Of Carlisle” Giovanna Marini ci ha regalato uno spaccato di America nel quale si intrecciano ricordi personali e studio profondo della musica tradizionale, ma allo stesso tempo ci ha donato un altro prezioso tassello per la sua ormai leggendaria vicenda artistica.
Salvatore Esposito
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