“Quista è la storia de lu Cici ca face appello a tutti l’amici ca pe l’avvenire la mia storia non deve finire”, così Cici Cafaro ci introduce al racconto della sua vita, una vita che sembra raccoglierne altre dieci, contadino, soldato, emigrante ma anche cantastorie e poeta dotato di una esplosiva creatività. Considerato patrimonio vivente della tradizione grika e salentina, Luigi “Cici” Cafaro non è un “albero di canto” come era ad esempio l’indimenticato Uccio Aloisi, ma piuttosto è lui stesso a “fare” la tradizione con la composizione di canti e poesie nuove, come la famosa Opillopì Opillopà. Per anni è stato oggetto di numerosi studi, ricerche e tesi di laurea, tuttavia mancava un testo che lo ritraesse a tutto tondo, così grazie all’interessamento di Kurumuny e di Eugenio Imbriani, docente di Antropologia Culturale presso l’Università del Salento, è nata l’idea di pubblicare le sue memorie, scritte di suo pugno in un quadernone a righe con le pagine numerate. Introdotto dall’intervento di Sergio Torsello e dalla nota di approfondimento del curatore, Eugenio Imbriani, il cuore del testo è rappresentato dal lungo ed ininterrotto flusso di ricordi di Cici Cafaro, il quale, nonostante una scrittura povera dal punto di vista grammaticale, si racconta racconta con una ricchezza ed una profondità sorprendente, conducendoci indietro nel tempo a quando imparò ad aggiustare i grammofoni, o nei giorni appena successiva all’8 settembre 1943 quando sfugge fortunosamente alla cattura dei tedeschi, o ancora il suo attivismo durante la battaglia per l’introduzione del divorzio. Il suo parlarci della sua vita a cuore aperto, riannodando le fila del passato e del presente, è così l’occasione per ritrovarlo organizzatore di feste, “ribbelle” sempre pronto a sostenere le sue posizioni in difesa della classe contadina e operaia e per questo pronto a pagare in prima persona, ma soprattutto poeta ispirato in grado di raccontare la sua terra e la sua gente in modo superbo. Emerge così una figura di uomo eclettico, fuori dalle righe, di un uomo che non ha mai pensato di essere un letterato ma che si definisce poeta pur non sapendo di essere lui stesso poesia vivente. Nella sua vita c’è la storia di un popolo, della Grecìa Salentina, del suo dialetto, della sua memoria. Cici Cafaro con le sue parole rivendica il suo ruolo di cantore, di voce di un popolo, ma lo fa in modo quasi impercettibile, desiderando semplicemente di essere ricordato e di continuare a vivere nella memoria di chi lo ha amato, anche dopo la morte. Un desiderio di immortalità che appartiene a chi sa di essere in possesso di un talento, a chi è cosciente di voler trasmettere un messaggio. Cici a quasi novantanni ci dice anche di essere vivo, e ancora in grado di scrivere e comporre nuovi canti, di raccontare la realtà per come la vive e l’ha vissuta, dei giorni spesi nel lavoro sin da bambino, della costruzione dei lampioni di carta per la festa, dell’amore per la madre, delle serenata notturne e dei suoi amori. Così la scelta di lasciare inalterata la sua scrittura, senza alcuna correzione, diventa fondamentale per comprendere a fondo la ricchezza del suo immaginario poetico, un immaginario ricco, che racconta da semi-analfabeta con una profondità che appartiene ai grandi scrittori e poeti. Imbriani coglie così un documento eccezionale per la ricerca, che fotografa con Cici Cafaro, anche l’importante passaggio dall’oralità alla scrittura, elemento quest’ultimo importante anche per la presenza di alcuni scritti in griko, lingua sempre meno parlata e che qui ritroviamo come base creativa di componimenti poetici di grande intensità. Ad accompagnare il libro c’è un disco, inciso con Antonio Castrignanò, Daniele Durante e Pasquale De Nigris, e che raccoglie ventuno brani, tra canti, poesie e strumentali in cui Cafaro suona l’armonica. Splendide ed imperdibili sono canti come “Vita Maria”, “La Vigna”, “La Tabaccara” e lo “Stornello D’Amore”, nei quali Cafaro si mostra ineccepibile e coinvolgente performer, ma soprattutto cantore di una terra che ama e che non ha mai voluto abbandonare, anche quando il suo generale, dopo i giorni della Resistenza gli offrì dapprima di diventare sottufficiale dell’esercito e poi un lavoro da civile.
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