È un album importante, importantissimo “Wasteland”. Lo è per diversi motivi: musicalmente perché tanto vicino alla tradizione quanto pieno di riferimenti alla musica britannica dell’ultimo quarto di Novecento, con qualche cenno alla più spiccata contemporaneità. E lo è per i temi delle canzoni, che nel dipanarsi di nove tracce appaiono tutti riconducibili a un unico grande tema: la condizione umana, declinato raccontando e quasi analizzando i rapporti tra mondo naturale e individuo, tra globalizzazione e ricerca delle origini, tra crisi climatica e guerre, tra la dimensione del lavoro (per molti totalizzante fino diventare l’unica vissuta) e quella degli affetti e degli amori, sempre oscillanti tra precarietà e speranza, tra rifugio e perdita. La stessa copertina ha chiari riferimenti ai contenuti dell’album: Jim Ghedi è ritratto su di una sedia di foggia antica, vestito con abiti settecenteschi, sporchi e laceri, in una posa che ricorda il Barry Lindon del capolavoro di Stanley Kubrick, e quindi richiama anche i quadri di William Hogarth, drammatici e feroci ritratti della società inglese dell’età georgiana. Attorno a Ghedi un’area brulla e spoglia, dove dominano il grigio e il nero, quasi fosse stata da poco percorsa dal fuoco; sullo sfondo una parete rocciosa, a precludere la vista e la fuga. Appunto una “wasteland”, una terra desolata o abbandonata, dove il termine è da intendersi non solo in senso materiale, ma anche come immagine interiore e rappresentazione della società, con un non nascosto riferimento al poema quasi omonimo di T.S. Eliot “The Waste Land” (1922). Una terra e una natura che a volte è sfondo indifferente delle vicende individuali e dell’umanità, ma spesso è essa stessa
vittima dell’azione antropica. Così è nel brano di apertura “Old stones”. Le colline rocciose su cui il protagonista ricorda di essere stato con colei che ha amato e che ora non c’è più sono e saranno sempre lì, mentre la vita letteralmente si brucia nel passare del tempo. Esse però non sono qualcosa di intangibile, fisse in una sorta di Arcadia, perché “… il mondo giace avvelenato dalle sue stesse mani”, come recita il secondo verso della canzone, in un punto in cui il brano passa da un canto scarno a un pieno il cui attacco rinvia a quella “Epitaph” del primo, seminale disco dei King Crimson, in cui attraverso atmosfere medievaleggianti era rappresentata la società di fine anni ’60. Allo stesso modo in “Sheaf & Feld”, brano elettrico e scuro che da una parte ricorda alcune cose di Richard Thompson e dall’altra il prog-rock di Robert Fripp & Co. (in questo caso però di “Red”), l’immagine di alcuni cavalli che riposano all’ombra degli alberi e del mais che cresce nei campi lascia il posto al ricordo degli amici perduti. Le suggestioni del British rock anni ’70 occhieggiante al folk si ripetono anche nelle note iniziali di ogni verso, nella fuga elettrica e nell’ampio e travolgente finale di “The wishing tree”, un insieme riuscitissimo di citazioni di Led Zeppelin, Pink Floyd, Van der Graaf Generator, fino ad arrivare ai Genesis e ritornare ancora ai King Crimson. Citazioni non solo musicali, ma che riguardano anche l’ambito estetico e filosofico, in particolare quello più suggestionato da temi come l’esoterismo e le leggende arturiane (palesi a nostro
giudizio nei video ufficiali dell’album). Altro tema rappresentato nelle canzoni di “Wasteland” è il lavoro, che è affrontato da Ghedi facendo affidamento al patrimonio tradizionale e ai testi poetici dell’irlandese Joseph Campbell o di Ewan MacColl. Di quest’ultimo mutua anche il modello interpretativo, come si può chiaramente cogliere in “Just a note” che, potentissima e scarna, con la voce a riempire lo spazio sonoro sostenuta da poche note di violino e harmonium, è un canto d’amore di un uomo costretto lontano da casa per lavorare. La stessa modalità, ma con le voci di Amelia Baker, Ruth Clinton e Cormac MacDiarmada al posto degli strumenti, la troviamo in “The seasons”, poesia di Campbell eseguita come una vera working song, in cui un figlio parla dell’avvicendarsi delle stagioni e delle attività agricole che il padre vi svolge, e in cui gli elementi naturali sono protagonisti quanto gli umani. “Cosa ne sarà dell’Inghilterra” si chiedono invece i versi della tradizionale “What will become of England”, che parlando della mancanza di lavoro o della sua precarietà, nonché della crudele selezione in-naturale che ne consegue (con l’esclusione di intere fasce di popolazione dal raggiungimento di decenti condizioni di vita) riportano alla memoria l’amara constatazione dei Pink Floyd in “Time”: “… hanging on a quiet desperation is the english way”. Il tutto su un ritmo lento di danza che sembra sfrangiarsi a contatto
con le parole del testo. In chiusura, ed ancora dal repertorio di MacColl, “Trafford road ballad” denuncia l’assurdità della guerra e delle divisioni tra etnie: un uomo che dalla natia Salford si è allontanato solo per combattere, parlando del figlio si chiede “Che genere di futuro potrà esserci /con aerei, carrarmati e fucili/ … /e bombe che cadono/su altri bambini”, indi afferma “Io lavoro ogni giorno al porto/e vedo arrivare molte navi/e nessuno chiede di vedere il colore della pelle dei marinai” e conclude con l’appello “lasciateci vivere in pace”. Diverse dalle altre tracce nell’impostazione e nel suono sono “Wasteland” e lo strumentale “Newtondale/Blue John”. La prima è la più cantautorale tra le canzoni dell’album, un pezzo elettrico di ampio respiro con inserti jazz e un pizzico d’Oriente, in cui si racconta di una terra che appare desolata e gravata dal peso della sua stessa natura mortale, come il protagonista del video ufficiale della canzone (lo stesso Jim Ghedi), che porta il fardello della propria esistenza e non riesce più a considerare come propria la terra in cui si muove. Il secondo è un brano del clarinettista inglese Dave Sheperd (1929-2016), che Ghedi ha trasposto per chitarra e violino, nella prima parte dilatandolo e rallentandolo fino a raggiungere ambiti quasi sperimentali, per poi recuperare nel suo svolgimento tutto il carattere folk dell’originale. Insieme ai già citati Baker, Clinton e MacDiarmada, “Wasteland” vede la partecipazione di David Grubb al violino e, insieme a Daniel Bridgewood, ad altri strumenti a corde; Neil Heppleston al basso e basso doppio e Joe Danks alla batteria e percussioni. Jim Ghedi da parte sua suona chitarre, harmonium, sintetizzatore e percussioni. Dopo la bellissima prova acustica in duo con Toby Hay del 2023 (l’omonimo “Jim Ghedi & Toby Hay”,consigliato BlogFoolk) Ghedi ha costruito un album ricco ed entusiasmante, che conferma non solo la sua bravura esecutiva, ma anche una robusta vena compositiva e notevole lucidità negli arrangiamenti. Un album di quelli che possono lasciare un segno e aprire nuove strade.
Marco G. La Viola
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