Patrocinato da Amnesty International, questo album di inediti di Giana Guaiana e Bruna Perraro ci ferma ad ascoltare un flusso di verità in buona parte sommerse, avvinghiate ai processi globali di subordinazione e restrizione (politica, sociale, culturale: questioni espresse con grande disinvoltura e partecipazione, con sorprendente bellezza). Le due autrici avvinghiano storie di resistenza, storia politica e storie umane in un racconto che, attraverso i dieci brani in scaletta, sgorga in suoni meravigliosi – morbidi e piacevolmente compositi – attraverso i quali la trama feroce sfocia in un’atmosfera incantata, piena di dolcezza e determinazione. Nûdem Durak, musicista curda imprigionata in Turchia per avere cantato nella propria lingua, è la prima ispiratrice dell’album. Il brano “Donna chiama libertà”, a lei dedicato e alla sua voce intrecciato, apre le danze con un incedere allo stesso tempo misterioso e impetuoso, che diviene il manifesto narrativo di questa nuova parabola, cantata in coro: il canto monodico, solistico, qui non ci può stare. Siamo affacciati sulla denuncia e lo scompenso, sulla desolazione e sul peggio, che non c’è mai fine: ci vuole veemenza, non volume, ci vuole sostegno, contatto, azione, marcia unisona. La condensazione di questi movimenti nella canzone è presa dentro le voci piene e precise (l’incipit è travolgente), che poi si allungano negli intrecci di chitarra e fisarmonica, nell’andamento trascinato di un canto narrativo inflessibile, che avvolge e potrebbe continuare per ore. Questo andamento fascinoso – ritmo pieno e atmosfera acustica – riprende, come si conviene, nel brano successivo “Saluterò di nuovo il sole”. La linea qui la marca la flessuosità del basso, al quale si aggrappano i fiati e le corde, sostenendo un racconto vero e vivace, speranzoso e ambizioso. Un racconto complesso che si incunea in una metrica bellissima, cantata con la leggerezza dell’ispirazione piena, sincera. Sepideh Gholian, giornalista iraniana perseguitata e incarcerata per avere documentato uno sciopero in una fabbrica di zucchero, ispira il brano e trascina le due autrici in quello che lo segue, “Una punta di rosso”, che prosegue la sua storia, anche se da una prospettiva diversa: “ogni momento mi sento aggredire” dice la Gholian, ma bisogna gridare al mondo anche dalla propria prigione, e perciò “mi metto il rossetto/ la mia ribellione”, traccio “una punto di rosso/ spesa con decisione”. Colpisce molto, in questo insieme di cronache cantate, di racconti realistici, il lavoro raffinato sulla composizione, sulla costruzione metrica e ritmica, sulla definizione melodica e, in generale, sulla canzone. Colpisce e affascina senza dubbio questo divario – che va tutto letto dentro la splendida cornice della scrittura – tra il verismo e l’esaltazione artistica, tra la trama e il testo, tra il contesto e il contenuto. Un divario che appare, una volta studiato l’album, non semplicemente convincente (i gusti sono gusti, è inutile lavorarci su più di tanto) ma assolutamente necessario. Perché l’album diviene ancora più forte, guadagna in spessore. E questo ci porta a riconoscergli almeno due meriti: chi ascolta si allontana da una concentrazione esclusiva, ad esempio sul testo, che respinge l’esperienza complessa dell’assunzione musicale. In questo modo, chi ascolta, può trovarsi nelle condizioni di assorbire la bellezza di un processo evidentemente più profondo, che riconduce alla scelta degli strumenti (sono tanti: archi, fiati, corde, percussioni) e alla creatività delle due autrici (una siciliana e l’altra friulana), alle loro voci musicali e morbide, ai loro sguardi ampi, alle loro soluzioni ordinate. Diciamo questo perché l’album ricomprende, alla luce dei fatti, le caratteristiche più affascinanti del racconto musicale (quelle che, almeno, piacciono a noi): idee chiare, prontezza nella rappresentazione, capacità di elaborare melodicamente un contesto di significati complessi, agilità di scrittura, finezza compositiva, abilità musicale.
Daniele Cestellini