Massimo Silverio – Hrudja (Okum Produzioni, 2023)

È un parallelismo abbastanza inflazionato (oltre che telefonato) quello che ci permette di accostare l’esordio del carnico Massimo Silverio con quello della gallurese Daniela Pes (altro esordio che aveva trovato spazio fra queste colonne), eppure risulta anche difficile farne a meno. C’è un tratto, più di tutti, che è da prendere in considerazione, e non è quello strettamente legato alla musica, pur con un evidente amore comune per le atmosfere brumose, un’elettronica strozzata e delle ritmiche asfissianti. Perché al centro tanto di “Spira” quanto di “Hrudja” ci sono due veri e propri recuperi linguistici. Il gallurese di Daniela – seppur sporcato da vere e proprie invenzioni – ed il carnico di Massimo – pur con degli imbastardimenti inglesi dentro – sono due facce della stessa medaglia. Due lingue antiche, figlie di due popoli altrettanto antichi e di un orgoglio identitario talmente forte da essere compreso anche da due ragazzi poco più che trentenni. Ed è, questo, un dato notevole, soprattutto se inserito nel panorama di un folk che diventa, vivaddio, sempre meno cartolina e sempre più recupero autentico di, appunto, identità e appartenenza. Ecco, questo è tutto. E, a proposito di “Hrudja”, album aperto dalle tinte cupe di “Schena” e da un contrabbasso cupo come il fondo di un burrone, che segna di drone praticamente tutta la canzone. “Criure” si muove sulle trame sghembe di ritmiche industriali, annebbiate dagli armonici del basso e diradate dagli arpeggi della chitarra e dalla voce del nostro. A seguire arriva “Jevâ”, che si snoda nel crescendo osseo creato dalla sezione ritmica ed in quello onirico tessuto dai colori smangiucchiati dei synth. “Colâ” poggia su un umido arpeggio di chitarra, scortato da una vorticosa sezione ritmica e da un tappeto di elettronica, da cui fuoriescono, incandescenti, le sovraincisioni della voce. “Nijò”, forse uno dei passaggi più interessanti dell’intero lavoro (ma a trovarne uno che non lo sia!) si srotola, minimalmente, lungo l’arpeggiare ipnotico della chitarra, per spegnersi in una evocativa coda strumentale. “Grusa” si sposta sui toni ossei creati da un basso abissale e da un pattern ritmico scalfito dalle visioni algide dell’elettronica. Giro di boa è “Šcune”, segnata da lagune di synth viscosi eppure cristallini, da cui fuoriescono le note pesanti del basso, unico vero contrappunto al cantato. “Piel” è, forse, il momento più prossimo ad una forma-canzone convenzionale: una chitarra acustica ad arpeggiare, una sezione ritmica ad agitarsi placidamente e gli interventi dei sintetizzatori a fare da scheggia impazzita. Penultimo passaggio è “Algò”, raccontato dalle note nevose del pianoforte, ad incastrarsi con gli annebbiamenti di basso e chitarra e con un’elettronica trapanante. A chiudere il disco ci pensa “(Grim)”, prezioso episodio di nemmeno due minuti in cui gli arpeggi tersi della chitarra acustica incontrano il frinire crepuscolare dei grilli. In conclusione, l’esordio di Massimo Silverio arriva come rugiada purissima e sanguinante, un meraviglioso valzer cupo e glaciale, sottolineato dalla produzione pazzesca di Manuel Volpe (che, del disco, è stato anche bassista, organista e tastierista) e dalle sfavillanti visioni sonore pitturate in primis da Nicholas Remondino (a batteria, percussioni, cori, synth e sample), ma anche da Luca Sguera (al piano) e Michele Anelli (al contrabbasso). 
“Nô o cjantìn parceche o tignìn dûr
 il nostri murî al è pal nassi dai fîs 
 cuan’ ch’o cjantìn alcìn lontan  
dal scûr dal bosc al cîl di Avrîl
il fûc dal nostri sanc, pa l’indoman”

“Noi cantiamo perché teniamo duro 
Il nostro morire è per il nascere dei figli
Quando cantiamo alziamo lontano
Dal buio del bosco al cielo d’Aprile
Il fuoco del nostro sangue, per il domani”

Pierluigi Cappello

Giuseppe Provenzano

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