Edmar Castañeda e Gabriele Mirabassi, Aula Magna, Università La Sapienza, Roma, 12 marzo 2019

Un’affascinante arpa blu elettrico, un combo con vistosi coni arancioni, un amplificatore Markbass ornato di spie verdi, un leggio, qualche asta microfonica e un luccicante clarinetto. Non è l’inventario del magazzino di un negozio musicale né la refurtiva contenuta in un furgone. È semplicemente il palco dell’Aula Magna dell’Università Sapienza di Roma dove l’Istituzione Universitaria dei Concerti (IUC) ospita un duo abbastanza inconsueto. La curiosità in sala è grande, questo connubio suscita perplessità e interrogativi per cercare di prevedere il tipo di spettacolo cui si assisterà. Entra in scena il colombiano Edmar Castañeda, virtuoso dell’arpa llanera, salito alla ribalta del palcoscenico mondiale partendo dai ristoranti di New York dove cucinava di notte non cibi ma una nuova ricetta musicale per l’arpa. Sul capo un vistoso basco rosso come consuetudine, sembra già dal primo brano – la sua “Cuarto de Colores” – farsi travolgere in un ballo sensuale dove la sua compagna non è fatta di carne e ossa ma è una Camac alta 150 cm e con 32 corde. È la volta poi di Gabriele Mirabassi, fra i più noti jazzisti italiani, amante e cultore della musica popolare brasiliana e tante altre espressioni tradizionali. Con il piede alzato, ginocchio quasi al petto, Mirabassi ricorda Ian Anderson (sebbene il suo traballare ogni tanto lo renda poco rock), il protagonista questa volta però non è un flauto come nei Jethro Tull, ma il suo clarinetto. La loro musica? Difficile definirla. 
L’incontro fra «colori andini dell’arpa llanera, i virtuosismi jazz e la ricerca sonora» tanto decantato nella pubblicità del concerto non è affatto smentito. In “Cuarto de Colores” e “Entre Cuerdas” c’è una sottile vibrazione, un ritmo vagamente esotico affidato inaspettatamente all’arpa, su di esso si librano i virtuosismi del clarinetto, talvolta marcatamente jazz ma spesso quasi un ibrido fra klezmer e sonorità d’oltreoceano. Il pubblico, sebbene non così numeroso come ci si sarebbe aspettato, risponde alle emozioni trasmesse dagli artisti con applausi convinti. Più Castañeda ondeggia spalla e braccio sinistro con sinuosità mentre i piedi si muovono come in un ballo, più Mirabassi diventa incontenibile col suo clarinetto in bocca si muove per il palco ogni volta in posizioni più strane (e scomode?). Vero protagonista, senza dubbio anche fulcro degli sguardi del pubblico, è quello strumento dal colore eccentrico che alla fine dello spettacolo tutti vorranno in un modo o nell’altro toccare. Il Programma di Sala distribuito all’ingresso svela il mistero. Si tratta dell’arpa llanera, strumento diatonico (cioè basato su una scala di sette note, senza possibilità di alterazioni) disseminato a macchia di leopardo nel Sudamerica, dal Messico al Cile, passando per Ecuador, Perù, Paraguay, Argentina. Nella musica delle pianure situate fra Venezuela e Colombia – i llanos appunto – l’arpa è protagonista del joropo, un genere di danza e canto marcatamente poliritmico dove ad essa è affidata la linea melodica e il basso, accompagnata dal cuatro (piccola chitarra ritmica a quattro corde) e dalle maracas. Ora tutto è più chiaro, l’ascolto diventa più consapevole. Nelle mani di Castañeda l’arpa, nell’immaginario europeo strumento garbato e soave, somiglia in certi momenti più ad una chitarra o addirittura ad un basso elettrico. Si tratta di un unicum nel mondo del jazz. È stato Castañeda infatti a portare in questo paesaggio musicale una voce fino ad allora assente e per questo totalmente originale, ma soprattutto sconosciuta. 
“Jaco”, omaggio del colombiano al grande bassista (un caso?) Jaco Pastorius e ispirato dalle parole di San Paolo, si apre con una melodia dolce alternata a dissonanze che passano quasi inosservate talmente il brano risulta posato, ben vestito e ricco di fascino come un attore hollywoodiano d'altri tempi. Il clarinetto entra in punta di piedi quasi a non voler rompere la magia, ma ben presto la sintonia risulta assoluta e l'atmosfera diventa così serena da trasportare l'ascoltatore lontano. Saranno dei cluster sonori sulle corde non più gentili a riportare tutti alla realtà. Castañeda sembra divertito dal semplice far musica, invita il pubblico – su suggerimento di Mirabassi – a non pensare agli impegni e alla Juve che si gioca proprio in quegli istanti la permanenza in Champions League, ma a restare con loro “toda la noche”. Per avvolgere il pubblico nelle proprie spire musicali si affidano alla “Santa Morena” di Jacob do Bandolim fra i maggiori compositori brasiliani. Le dita producono sulle corde vortici di note, a questo saliscendi turbinante si aggiunge anche il clarinetto e il pubblico si esalta. Il bis è sublime. E ora via, tutti sul palco a cercare di toccare l’arpa. 

Guido De Rosa

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