Giulio Bianco – Di zampogne, partenze e poesia (CGS/Puglia Sounds, 2018)

Più che una sortita solista per Giulio Bianco, fiatista polistrumentista del Canzoniere Grecanico Salentino, “Di zampogne, partenze e poesia” è una dichiarazione di intenti. Il poco più che trentenne musicista salentino è sulla scena da quando, all’età di 15 anni, ha iniziato a suonare con gli Aioresis. È stato fiatista dell’Orchestra della Notte della Taranta, ha collaborato con Antonio Castrignanò, altro artista di profilo internazionale della musica salentina, fino a incrociare la strada del CGS. Dal soffiare nei flauti e nell’armonica a bocca, approfondendo la prassi esecutiva dei repertori tradizionali salentini ma con interessi rivolti anche ad altre latitudini sonore (Irlanda, in primis), Bianco è approdato alla zampogna, catturato dal suono dell’aerofono con bordone melodico di Piero Ricci, ascoltato per la prima volta su un disco dei conterranei Uaragniaun. Da lì, ha intrapreso lo studio della zampogna (a chiave e zoppa), diventata il suo strumento elettivo, suonato con sensibilità contemporanea. È in seguito alle esperienze maturate con il CGS e all’esigenza di sperimentare il rapporto tra strumenti acustici e tecnologie (loop, campionamenti, sound design) che Bianco imbastisce  “Di zampogne, partenze e poesia”, le cui composizioni nascono anche dalle riflessioni  su pressanti tematiche contemporanee. Fonte di ispirazione le diverse motivazioni del partire e del viaggiare, il ruolo odierno della poesia e del fare musica. Un lavoro compatto, contenente sei brani della durata di poco più di ventisei minuti  (quasi un EP), dall’inconsueta formula strumentale, imperniato precipuamente sulla zampogna, ma la cui scrittura mostra un tratto immaginifico e non rinuncia all’energia ritmica. 
Accanto a Bianco, l’ottimo Rocco Nigro alla fisarmonica, l’elettronica di Inude, le voci campionate dei fenomenali Ucci e i suoi partner del Canzoniere: Mauro Durante, Emanuele Licci, Giancarlo Paglialunga, Alessia Tondo e  Massimiliano Morabito. Con la zampogna che assurge a ruolo di “voce narrante” di questo album, non potevamo che incontrare Bianco – lo scorso novembre - in uno dei luoghi della musica più importanti della Penisola quale è il Festival “La Zampogna” di Maranola.

Partiamo dal titolo dell’album, come mai “Di zampogne, partenze e poesia”?
“Zampogne” perché è un “viaggione” in cui la zampogna fa un po’ da Cicerone. La zampogna è lo strumento migrante per eccellenza, ed è da sempre legato al viaggio: gli zampognari percorrevano grandi distanze e stavano fuori per settimane. Il primo brano, “Tornare”, inizialmente, si doveva chiamare “Partire”, In realtà, ho scritto tutti i brani muovendo da mie riflessioni, da immagini. È un disco dove non ci sono parole, ma in cui ho cercato di materializzare le mie riflessioni attraverso la musica e le note musicali. Il primo brano arriva da una riflessione su quanto sia soggettiva la partenza, in cui ognuno di noi lascia qualcosa. Certo, il mio partire è diverso da chi parte per andare a studiare, per andare a lavorare fuori, da chi scappa da qualcosa o da chi emigra. Da qui è nata riflessione sul viaggio, che è rigorosamente per mare, perché il mare per me unisce non è una barriera. L’ho chiamato “Tornare”, pensando al mio lavoro di musicista, alle mie partenze e su quanto io sia fortunato a poter ogni volta ritornare nella mia terra, a cui sono molto legato. 
Per la terza parte del titolo “Poesia” tutto è nato leggendo un racconto breve di Erri Di Luca, che è “Il turno di notte lo fanno le stelle”, di cui mi colpì la frase finale: «Chi ha fatto il turno di notte per evitare l’arresto del cuore del mondo? Noi i poeti.» Non centrava nulla con la trama del libro. Con il CGS successivamente abbiamo conosciuto e collaborato con Erri. Lui in un concerto citò questa frase e catturò la mia attenzione. Disse che era una frase che Izet Sarajelic gli scriveva spesso a conclusione delle sue lettere. Izet poeta di Sarajevo che ha vissuto il decennale assedio della città, diceva di sentirsi responsabile dall’amore e della felicità dei suoi concittadini, per questo non se n’era mai andato. La sua produzione d’amore è stata interamente dedicata alla moglie, unica donna della sua vita, e le sue poesie sono state a lungo utilizzate dai ragazzi della città, per far innamorare le giovani di Sarajevo. Per questo motivo Izet, in una città dove mancava tutto, veniva chiamato spesso anche a celebrare dei matrimoni. Inoltre, nelle nottate difficili dell’assedio, organizzava degli incontri letterari, nei quali a lume di candela si leggevano poesie. Il pensiero della poesia “ da dedicare” e della poesia utilizzata come “ interruttore di bombe” mi ha spinto a interrogarmi sul ruolo della stessa oggi, un periodo in cui si vive velocemente ed in cui difficilmente ci si concede il tempo di “ entrare" in una poesia. Parlando di poesia come un qualcosa da utilizzare e dedicare ovviamente non potevo non pensare a Cirano, capace di scrivere lettere d’amore così belle, da far innamorare Rossana, la donna che lui amava, del cugino anch’esso innamorato. Oggi la musica ha sostituito la poesia nella vita di tutti i giorni e probabilmente se Cirano fosse vissuto nel nostro presente, invece di una poesia a Rossana avrebbe dedicato una canzone. Così è nata Cirano e per estensione il titolo del mio disco.

Da salentino, come ti sei avvicinato alla zampogna invece di imbracciare tamburello? 
Qui a Maranola, stasera mi sono emozionato, perché erano presenti le tre persone che in qualche modo mi hanno fatto avvicinare alla zampogna: Piero Ricci, Marco Tomassi e Ambrogio Sparagna. Mi sono avvicinato allo strumento per caso: era il 2004, ascoltando “Danza di Mastro Gerardo”, un brano di Piero Ricci, contenuto nel disco “Skuarajazz” degli Uaragniaun. All’epoca suonavo flauti dolci e armonica a bocca. Sono stato preso dal suono della zampogna: ho pensato che avrei voluto suonare una zampogna. Era il primo anno di Ambrogio Sparagna maestro concertatore a La Notte de La Taranta”. In quella occasione ho conosciuto Marco Tomassi, che mi ha costruito una zampogna a chiave modificata, che ho iniziato ad apprendere da solo, anche perché a l’epoca in Salento non c’era chi potesse insegnarmi. C’era Nico Berardi ma era troppo lontano… È iniziata questa lotta tra me e lo strumento, per apprendere l’intonazione, l’accordatura… L’anno dopo mi sono ritrovato per caso a Melpignano in occasione di una riunione e delle prove per l’Orchestra della NdT . Ho fatto un provino stranissimo, perché non avevo la zampogna… Sparagna, che era ancora il maestro concertatore, si arrabbiò moltissimo di questo fatto. Gli spiegai che mi trovavo lì per caso e che ero in partenza per una crociera-concerto. Con pazienza lui mi chiese di ritornare la settimana successiva per suonare la zampogna. Quando, infine, mi ascoltò e mi disse: «Vabbè, almeno è intonata…» 
E mi prese nell’Orchestra, perché lui aveva idea di fare scuola a livello locale. Da Marco Tomassi, che ho avuto accanto in quegli anni dell’Orchestra, fino al 2006, ho imparato davvero tanto e ho avuto occasione di suonare strumenti superlativi. 

Un disco in cui la zampogna va a braccetto con l’elettronica…
Concettualmente l’idea era di avvicinare lo strumento zampogna all’elettronica e agli archi classici. Per me la musica tradizionale è sempre stata la musica più contemporanea mai esistita – concedimi questa forzatura – visto che parla del presente. La musica popolare aveva delle funzioni, molte delle quali oggi sono sparite, ma era un mezzo per divulgare qualcosa e si suonava con gli strumenti che erano a disposizione. Com’è noto, Gustav Mahler dice una cosa sacrosanta: «Musica popolare non è culto delle ceneri ma custodia del fuoco». Che poi è anche il progetto del CGS. Nei nostri testi noi parliamo dei problemi del presente ma rispettando fortemente il linguaggio tradizionale. Con il CGS facciamo proposta non riproposta: teniamo acceso il fuoco! Volevo riproporre questa cosa anche con la zampogna, accostandola agli strumenti di oggi, tra i quali c’è anche l’elettronica, anche per rivalutare a livello sociologico la zampogna, strumento che ha potenzialità infinite.

Come è stata sviluppata la scrittura dei brani? 
Per cinque brani su sei, si è partiti da una base solida e poi si sono inseriti dei moog e delle parti elettroniche che restano in secondo piano secondo l’orchestrazione del brano. Il “Valzer dei giocattoli dimenticati” è stato prodotto interamente da Inude e lì l’elettronica è più profonda ed evidente. Gli Inude sono Giacomo Greco, Flavio Paglialunga e Francesco Bove. Mi piace molto il loro modo di arrangiare e di produrre. Il punto di partenza era un brano completamente acustico, molto più esteso in una serie di parti da cui si sarebbero potuti scrivere tre o quattro brani diversi. Era un momento in cui non riuscivo a scegliere e e loro hanno tagliato tutto quello che era superfluo filtrandolo attraverso il loro gusto e l’elettronica. Le parti scritte sono state processate, sono diventate diverse nonostante le note fossero le stesse. Adoro il lavoro fatto sul valzer, dove hanno aggiunto anche le percussioni utilizzando la libreria di percussioni di Mauro Durante, il quale l’aveva utilizzata per un  altro brano del Canzoniere

Parlando degli altri musicisti che ti accompagnano: alla fisarmonica c’è Rocco Nigro…
Con Rocco ci conosciamo e collaboriamo da quasi vent’anni; credo che il suo talento e la sua estrema sensibilità musicale abbiano portato un valore aggiunto al lavoro. Rocco ha suonato su quattro brani. Tra l’altro il solo di “Cirano” è un’improvvisazione di Rocco. Insieme a Giuseppe Anglano, che suona la fisa nella “Ronda”, è uno dei due musicisti che hanno partecipato, esterni al Canzoniere.

In effetti, c’è il Canzoniere Grecanico Salentino che è al gran completo…
I pilastri sono i miei temi di zampogna e le percussioni, dei loop, che mi ha registrato Mauro Durante e che ho orchestrato. Ma in studio sono arrivati tutti i Canzonieri. Tutti i tamburi a cornice suonati a pizzica li abbiamo registrati insieme io, Giancarlo Paglialunga e Alessia Tondo, ci sono dei passaggi di bouzouki di Emanuele Licci. Massimiliano ha suonato l’organetto sulla “Tarantella di San Filippo”.

Da dove arriva questa tarantella?
È una tarantella che inizia con una parte di zampogna tradizionale proveniente da San Filippo Superiore in Sicilia. Lì c’è un suonatore molto bravo che si chiama Salvatore Vinci. Il tema l’ho sentito la prima volta sulla colonna sonora di “Barìa”, Approfondendo il discorso, ho saputo che erano passate tradizionali di San Filippo. Quindi ho voluto fare un omaggio a questa tradizione siciliana. 

In “Tranieri” ci sono le voci degli Ucci…
Non volevo mettere parole nel disco, ma è da anni che avrei voluto farli cantare in un mio brano, non avendone avuto la possibilità quando Uccio Bandello e Uccio Aloisi erano vivi. In effetti, sono io che suono sulle loro voci, che sono state “pitchate” e “strecciate” (provengono da “Bonasera a Quista Casa”, Kurumuny 1999, ndr), però, l’anima del canto a tranieri c’è.   

E la “Ronda” finale?
Con il nuovo disco del CGS ho cambiato zampogna, da quella a chiave sono passato a una zampogna zoppa per esigenze tecniche. Mauro mi ha chiesto di scrivere qualcosa per il momento finale del concerto. Ho scritto questo brano che è  l’ultimo bis, in cui suoniamo con me che vado al centro del palco e loro che mi accerchiano con i tamburi. L’ho orchestrato un minimo e – come dicevo prima – ci suona la fisarmonica Giuseppe Anglano. Mi è piaciuto mettere al brano un vestito nuovo, farlo suonare diversamente rispetto al live. 

Dieci anni nell’Orchestra della Notte della Taranta, cosa hanno significato?
Una crescita continua. Ho fatto due anni con Sparagna (2005-2006), gli anni di Pagani, di Einaudi, di Bregovic. Sei a contatto stretto con realtà più grandi di te, conosci un sacco di world music, sei a contatto con gli ospiti, ti si amplia la visione della musica. Gli anni di Sparagna sono stati importanti perché ho fatto scuola seria, ho imparato tantissimo.  I due anni di Einaudi, mi hanno aperto la mente, mi hanno dato degli spunti, come l’uso degli archi accanto agli strumenti tradizionali, poiché nella sua Notte della Taranta venivano utilizzati molto gli archi. Poi come Orchestra abbiamo fatto anche dei tour con lui. È stato un arricchimento importante, che mi è rimasto impresso

Un commento al successo internazionale del CGS, che è stato votato come Best Group di world music del 2018 dal periodico “Songlines”?
Un premio bellissimo, una cosa meravigliosa. Sono orgoglioso di far parte di questo gruppo che riesce a trasmettere energia ed emozioni. Tutti insieme siamo una sola cosa. Questo premio collettivo  è Premio importante anche perché accende per la prima volta un riflettore sull’Italia, è la testimonianza di un’attenzione verso questo piccolo territorio. Magari potrà ispirare nuovi giovani a prendere in mano il tamburello, l’organetto e la zampogna e a suonare. 

Dal vivo che succede con il disco? Questa fusione di mondi si spinge in avanti, si dilata?
Dal vivo Giacomo Greco suona la chitarra elettrica, una serie di parti elettroniche che si è creato lui con pedali e i sintetizzatori. Io ho aggiunto lo chalumeau, ho aggiunto dei flauto irlandese traverso in legno e low whistle in metallo, uso molto la loop station e processori di effetti. Musichiamo un visual: il concerto si svolge tutto al buio, perché l’ascoltatore viene catturato dalle immagini. C’è anche una voce narrante di un attore teatrale che fa dei piccoli interventi durante i brani.



Giulio Bianco – Di zampogne, partenze e poesia (CGS/Puglia Sounds, 2018)
Una pagina di musica “trad-innovativa” – passatemi il termine – per il polistrumentista Giulio Bianco (zampogna zoppa, zampogna a chiave, chitarra, elettronica), fiatista del Canzoniere Grecanico Salentino, che appronta un esordio di tutto rispetto, scrivendo, arrangiando e producendo un disco composto da sei brani originali – sono ventisei minuti di musica – in stretta collaborazione creativa con i fisarmonicisti Rocco Nigro, i fidi sodali del Canzoniere e le manipolazioni elettroniche di Giacomo Greco & Inude. Addirittura, sembra che Bianco non abbia voluto farsi prendere la mano nello spingere nell’uso dell’elettronica, anzi si sia un po’ trattenuto, investendo nell’equilibrio tra il suo strumento elettivo, una zampogna modificata con bordone melodico che ne amplia le possibilità melodiche e armoniche, gli altri strumenti acustici e le ambientazioni, i pattern e le pulsazioni digitali. “Tornare” è il titolo guida, messo in apertura, che ti risucchia subito nel vortice sonoro con il suo potente ritmico di pizzica su cui la zampogna sviluppo il suo profilo melodico, sintetizzando l’intento narrativo di Bianco e stabilendo le coordinate del disegno sonoro del musicista sperimentatore.“Trainieri” rimette in circolo le voci degli immensi Ucci (Uccio Aloisi e Uccio Bandello), dilatate sulla classica aria tradizionale da carrettiere, qui trattata con sequenze cicliche e la texture che non sfilaccia l’umore del canto contadino. La fisarmonica di Nigro introduce “Valzer dei giocattoli inventati”, tema che si snoda tra atmosfere danzanti e sospensioni: qui si avverte un intervento elettronico più deciso (la produzione è di Inude), che innerva il brano che più di altri può dare il senso della dimensione live del progetto di Giulio Bianco. Negli umori mutevoli di “Cirano”, a cui ancora la fisarmonica di Nigro conferisce un colore particolare, confluiscono vividamente i diversi elementi della narrazione musicale di Bianco, mentre “Tarantella di San Filippo” è la rilettura creativa a partire da un tema tradizionale siciliano, dove gioca di fino l’organetto diatonico di Massimiliano Morabito. Infine, c’è “Ronda”, un brano già nel repertorio del CGS, che assume un vestito nuovo, dato dal muro di tamburi suonati dai Canzonieri e dalla fisa di Giuseppe Anglano, conservando però la densa impronta ipnotica, emotiva e liberatoria. Contro i tempi oscuri, c’è bisogno di poesia e di zampogne che vadano oltre i luoghi comuni. Prestate ascolto! 



Ciro De Rosa

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