Dario Fornara & Roberto Menabò, Teatro Civico Luciano Pavarotti, Leinì (To), 22 febbraio 2019

Giunta alla seconda edizione, la rassegna “I suoni della torre” si svolge sotto la direzione artistica di una vecchia conoscenza di “Blogfoolk”, Enrico Negro, di cui ci siamo occupati anche di recente in occasione di un suo concerto al Folk Club di Torino. La rassegna, che proseguirà fino a giugno, presenta un programma abbastanza variegato di concerti, teatro e balli, ma generalmente orientato alla valorizzazione delle radici culturali della musica popolare. Quest’anno ci ha offerto la possibilità di vedere condividere il palco da due artisti, due chitarristi acustici, dalla personalità assai diversa. Quello di Dario Fornara è un nome familiare per tutti gli appassionati del genere, apprezzato anche per i suoi interventi su “Chitarra Acustica” e fingerpicking.net. Roberto Menabò è ormai l’ultimo alfiere italiano della “American primitive guitar”; un percorso iniziato a metà degli anni ’80 lungo il solco tracciato da John Fahey e che negli anni ha superato indenne mode ed epoche con ostinata coerenza, svolgendo al contempo una meritoria opera di divulgazione anche tramite alcune pregevoli pubblicazioni. La serata è stata aperta da Fornara con “Redemption Song” di Bob Marley, ed è questa già una dichiarazione d’intenti. «Suonerò cose tristissime, malinconiche» e «l’acustica può cambiare le persone», anche lui che, come confessa, prima della propria “conversione acustica” suonava in una band heavy rock. Un’introduzione garbatamente ironica, che dimostra la volontà di non prendersi troppo sul serio sul palco; uno stile che sarà il leitmotiv introduttivo di tutti i brani a seguire. La successiva “Salty dog” è un classico che, in veste acustica, conosciamo anche per la versione di Peppino D’agostino; Fornara la interpreta in maniera assai differente, con uno stile molto più fingerstyle jazz. Seppure dopo un brano inglesissimo, l’artista si proclama orgogliosamente italiano: un’affermazione che è anche la chiave di lettura della sua intera proposta musicale, rivendicata artisticamente nella scelta di riarrangiare melodie e canzoni della tradizione nazionale. Una dedica personale e sentita ha introdotto “Portata dal vento”, un brano molto lirico la cui speciale ispirazione, anche durante la esecuzione, è stata percepita dal pubblico che ha restituito una particolare attenzione. Il tema di “Roma nun fa’ la stupida stasera” non può sorprendere e si inscrive perfettamente nel solco indicato dall’artista, con un occhio alla chitarra classica e impreziosito da un pregevole tocco di bella scuola. “Halleluja” di Leonard Cohen conferma il lirismo dello stile e la predilezione per la melodia, come la successiva “Imagine”, riarrangiata con una citazione del tema di “Almeno tu nell’universo”, e “Questa lunga storia d’amore” di Gino Paoli. “Somewhere over the rainbow” invece ci riporta sui binari di uno stile più tipicamente jazz fingerstyle. Un brano abbastanza tecnico è invece “Gruvido” che è anche l’unica concessione allo stile percussivo dal quale Fornara, dopo una iniziale ubriacatura sull’onda di Tommy Emmanuel, si dichiara definitivamente emancipato; una scelta che si configura come quella definitiva della propria maturità artistica. Il set si chiude con il tema di “O Fortuna” dai Carmina Burana di Carl Orff, una breve esecuzione tutta giocata sull’ostinato percussivo al basso e sul crescendo del tema fino all’inevitabile esplosione del finale. 
Dopo la necessaria pausa per la riorganizzazione del palco comincia il set di Roberto Menabò. L’inizio è subito coinvolgente, anche grazie all’innegabile abilità di narratore per cui Menabò ama introdurre i brani che presenta, spesso veri e propri momenti di microstoria, che per Menabò sono sempre un pretesto per una divulgazione, musicale e non. È subito il caso del primo brano “Slawitz e il treno”, veloce ragtime nello stile di Mississippi John Hurt che vuole imitare il ritmo del treno, ispirato alla storia Rienzo Slawitz, il quale nel 1923 con la sua auto volle sfidare proprio un treno sul percorso da Parma a Roma. Con la consueta piccola dose di teatralità ha introdotto “Early morning blues”, un classico di Blind Blake, in cui Menabò si cimenta anche alla voce, più con lo stile di un divertito e scanzonato cantore che con la gravità del bluesman consumato. Segue il medley “Two steps from sunflower” e “Autogrill”, in cui l’amore per John Fahey emerge prepotentemente, insieme alle solite doti di affabulatore grazie alle quali, nel suo immaginario, una banalissima stazione di servizio autostradale può trasformarsi in un juke joint all’italiana. “Alba” è uno slide lento che offre il pretesto per spiegare l’accordatura della chitarra in RE aperto tipica del gospel (detta anche Vestapol, e che deve il nome alla storpiatura del titolo di un vecchio strumentale: “The siege of Sevastapol”). La storia della chitarra acustica fa nuovamente capolino con “Guitar rag” di Sylvester Weaver, che Menabò ci ricorda essere stato il primo brano di sola chitarra acustica, inciso nel 1927 tra i race records destinati al pubblico di colore degli Stati Uniti (più famosa resterà la versione smaccatamente country del 1936 di Bob Wills and his Texas playboys “Steel guitar rag”, che diventerà uno standard dell’old time). Alle sue radici piemontesi è dedicato “Tra il Viona e l’Olobbia”, radici il cui albero è però cresciuto nelle rugose terre di John Fahey, a cui idealmente si lega in medley con la iconica “Poor boy long ways from home”. Ha chiuso infine la serata la classicissima “Will the circle be unbroken”, che lo ha visto ancora impegnato come cantante prima di sbizzarrirsi nell’improvvisazione della lunga coda finale. La musica di Roberto Menabò è una musica senza fronzoli, secca e diretta come quella degli interpreti originali che Menabò spesso vuole far rivivere, con in più la leggerezza del divulgatore appassionato. Per questo motivo i suoi concerti sono sempre una occasione non solo per ascoltare, ma anche per imparare di più su un mondo lontano e ormai passato, che tanto però ha dato alla musica contemporanea e che, forse, ha ancora qualcosa da dire. La serata è stata quindi una occasione per ascoltare due musicisti profondamente differenti. Contemporaneo, legato alla rilettura della melodia e anche della canzone, soprattutto italiana, il primo; fedele interprete delle radici americane della chitarra blues e ragtime il secondo. Due scalette ben distinte quindi che possono aver accontentato, e forse anche reciprocamente “contaminato”, pubblici diversi che difficilmente avrebbero condiviso lo stesso appuntamento. 

Pier Luigi Auddino

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