Patrizio Fariselli – 100 Ghosts (Warner Music, 2018)

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Membro fondatore degli Area e pianista in grado di coniugare la sua indole eclettica con i virtuosismi della tecnica, Patrizio Fariselli è uno degli strumentisti più originali ed innovativi della scena musicale italiana, non solo per la costante tensione nello spostare sempre più avanti i confini della ricerca sonora, ma anche per la capacità di attraversare e far convivere generi musicali differenti. Il suo nuovo album “100 Ghosts” raccoglie otto composizioni originali e due riletture che nel loro insieme compongono un viaggio sonoro di grande potenza evocativa nel quale la scrittura è la base di partenza per l’improvvisazione e la sperimentazione a tutto campo spaziando dalla world music al jazz fino a toccare l’avanguardia. Ogni nota, ogni battuta, ogni singolo brano ha una collocazione ben precisa all’interno di un percorso più complesso nel quale la sperimentazione non è mai fine a sé stessa ma al contrario diventa elemento centrale delle architetture sonore. Registrato nel suo Curved Studio e finalizzato allo Studio ZdB di Sermoneta (LT), l’album è il frutto di una lavorazione durata circa un anno e riflette la visione musicale e gli interessi di Fariselli per i suoni antichi e le tradizioni dimenticate. Lo abbiamo intervistato per farci raccontare la genesi di questo nuovo album, soffermandoci sulla centralità dell’improvvisazione e l’evoluzione dei brani dal vivo.

Com’è nato il progetto di “100 Ghosts”?
Come gran parte dei miei progetti e dei miei lavori che nascono e cominciano a concretizzarsi nel momento in cui mi accorgo di aver accumulato una quantità di idee e di materiali tali da giustificare un disco. Io non mi fermo mai, produco continuamente musica, e in questo andare avanti i dischi diventano l’occasione per fare il punto della situazione, fissando in qualche modo i risultati di un percorso in divenire. Il lavoro di “100 Ghosts” ha cominciato a concretizzarsi almeno un anno fa. Ci è voluto tanto tempo per lo studio delle tematiche affrontate e per la ricerca dei materiali arcaici che ho raccolto e successivamente rielaborato. Poi ho approcciato il lavoro in modo artigianale, alla vecchia maniera. Sarebbe meglio dire alla nuova maniera perché le possibilità del mondo digitale ti consentono di fare cose impensabili in passato. Gran parte del mio tempo l’ho trascorso in quella che amo definire la mia torre, una stanza sopraelevata a casa mia, dalla quale si vede il bosco e con il mio Mac lavoro sui materiali alla progettazione di suoni, musiche e situazioni varie. Lo step successivo consiste nell’integrare tutto questo lavoro con altri materiali che elaboro in cantina, sotto terra.

Quanto è importante la dimensione live e l’improvvisazione nel tuo processo creativo?
Foto di Andrea Stevoli
La dimensione live è potentemente connessa con la mia produzione creativa perché è quella che mi consente di sfruttare a fondo l’improvvisazione quindi, far sgorgare tante intuizioni che io poi sviluppo successivamente. Nell’elaborazione di questo lavoro c’è molta materia ragionata ed attentamente composta, ma poi c’è anche una forte componente di spontaneità e di improvvisazione che io tengo molto cara.

La struttura di “Der Golem” in questo senso mi sembra molto significativa…
“Der Golem” è un brano imbastito in modo molto preciso con una parte iniziale distopica con queste sonorità inquietanti in cui, addirittura, c’è anche una sirena della Seconda Guerra Mondiale mista a materia elettronica non meglio definita, quasi industriale e frammenti di lavori stradali. L’idea era quella di condensare il tutto in una struttura estremamente ritmica e pesante. Una volta imbastito tutto questo che ha richiesto molto lavoro, mi sono abbandonato all’improvvisazione ed è nata la prima parte di pianoforte che evoca il passo del Golem che si avvicina. Ho lavorato mesi e mesi su questo disco ma questa parte di pianoforte l’ho improvvisata in tempo reale. Così, sono nate in modo estemporaneo anche tutte le successive parti improvvisate con le urla meccaniche del sintetizzatore che ti graffia gli occhi e l’anima. 
Il mio metodo di lavoro contempla un po’ tutto questo e, infatti, il disco va giù come un bicchiere d’acqua con la parte costruita e meditata che si fonde a quella improvvisata e spontanea in percorso molto fluido.

“100 Ghosts” è la prosecuzione del percorso di ricerca attraverso i suoni del mondo che hai intrapreso con gli Area e che successivamente ti ha condotto ad esplorare l’avanguardia?
Data l’antichità della materia parlerei di estrema retroguardia. Hai detto bene, perché con gli Area ci siamo occupati di musiche del mondo in tempi non sospetti, spinti dalla nostra curiosità verso le altre culture. La world music ancora non esisteva e noi ci chiamavamo ricercatori, etnomusicologi o semplicemente artisti curiosi di scoprire questo fenomeno che è la musica, intesa come un universale umano. Dovunque c’è un uomo c’è  una musica ed ognuna di esse è estremamente differente dall’altra. Noi abbiamo cercato di esplorare inizialmente le nostre radici, quelle del bacino del Mediterraneo e poi, pian piano ci siamo spinti anche a ritroso, perché il percorso delle genti indoeuropee, ci ha portato a risalire il percorso dei fluissi migratori di millenni fa verso l’India. Siamo andati ancora più su fino a girare tutto il mondo. “100 Ghosts” segue proprio questo percorso verso le musiche altre per sprofondare nel passato e, quindi, nelle musiche che sono alla radice di espressioni contemporanee o che in esse sono nascoste. La cosa che mi diverte moltissimo è lo sviluppare quella capacità alla Dylan Dog di indagare l’occulto e riconoscere in cose quotidiane e vicine a noi i residui fossili di un modo di suonare e fare cultura arcaico. 
E’ una sensibilità che si costruisce giorno dopo giorno. Io mi sono accorto di averla sviluppata in qualche modo. Certo questo non è un discorso scientifico nel senso che spendo la mia parola di artista e la mia sensibilità. Io propongo musica e, dunque, lascio agli altri il compito e l’onere di dire che sto sbagliando.

La tradizione è un fiume carsico che porta con sé suoni e ritmi archetipali “Danza del Labirinto”, ad esempio, racchiude un po’ tutto questo, essendo ispirata ai riti di fertilità dell’Antica Grecia…
E’ un brano tradizionale greco che apparentemente sembrerebbe risalire ai primi anni del secolo scorso ma nel suo interno presenta un residuo fossile delle danze orgiastiche della fertilità che sono antecedenti al Labirinto cretese. In realtà erano dei veri e propri riti che venivano praticati da centinaia di persone che danzavano tenendosi per mano e formavano una grande spirale. Questa forma geometrica è l’archetipo del labirinto e rimanda alle convulsioni dell’intestino delle bestie sacrificate in funzione della veggenza e della divinazione. Una musica che si può ascoltare nei bar di Atene o di Salonicco racchiude al suo interno un seme che ha viaggiato nella storia per millenni. Del resto,  “Paidushka” per esempio, rimanda ad una danza “zoppa” di origine sciamanica…

Nel disco fanno capolino strumenti tradizionali appartenenti a culture diverse come nel caso del duduk armeno o morin khuur mongolo…
Si tratta di strumenti campionati. Non mi piace usare la parola sintetizzati perché non rende giustizia alle potenzialità espressive di una tecnica ormai comunissima che consente di avere suoni così curati da sembrare registrati dal vivo da un suonatore tradizionale. In fondo anche il pianoforte è una macchina e non ha niente di naturale perché è un assemblaggio di legno stagionato, metallo, feltro, avorio. E’ una macchina complessa che ha raggiunto la sua perfezione nell’Ottocento quando si è cristallizzato come struttura, poi la sua evoluzione si è fermata perché noi lo abbiamo massacrato in tutti i modi, tanto con il piano preparato quanto introducendo strani oggetti e suonandolo con le tecniche più disparate. 
Non ultimo, nel mio precedente disco “Piccolo Atlante delle Costellazioni Estinte” un lavoro di improvvisazione su pianoforte e modulatore di anelli, ho introdotto questo elemento caotico sovrapposto e “giocato” con il suono ordinato del piano. Questo strumento nella sua maestosità è veramente un simbolo dell’occidente, macina una quantità di materia sonora enorme coprendo quasi l’intero spettro utile dell’audio che è ordinato in modo preciso con toni e semitoni. Io metto al primo posto le idee, il pensiero musicale. Lo sforzo che un artista deve fare è quello di maturare un proprio pensiero, indipendentemente dalla materia fisica che va a trattare. Nella mia cifra stilistica ci sono elementi che si possono leggere come le influenze più rock della title-track, le strutture etniche di “Aria”, oppure ancora la danza arcaica di “Danza del Labirinto”. Tutte queste suggestioni sono figlie di un progetto globale che è la mia vita, la mia visione del mondo, delle emozioni, dei sentimenti e delle forme musicali che mi diverto ad assemblare. Se ho necessità di un morin khuur mongolo ma non ho un musicista tradizionale a portata di mano, uso i suoni campionati che sono alla portata di tutti e che un giovane musicista può ottenere facilmente. E’ chiaro che è sempre il pensiero musicale che qualifica l’uso degli strumenti.

Insomma, ti sei divertito abbastanza nell’incidere questo disco…
E’ stato molto entusiasmante perché durante la lunga lavorazione ci ho sempre lavorato con grande piacere e anche quelli che hanno partecipato alle registrazioni si sono molto divertiti come Grazia Di Michele che ha cantato “Il lamento di Tecmessa” con la pronuncia perfetta del greco antico. Quando mi ha detto che conosceva a memoria tanti passi dell’Odissea in greco, ho voluto assolutamente che partecipasse a questo lavoro. 
Claudia Tellini ha interpretato con grande entusiasmo le cose più impossibili: per esempio in “100 Ghosts” c’è una frase ad una velocità che qualsiasi altro cantante mi avrebbe dato del matto. Allo stesso modo Marco Micheli al basso e Walter Paoli alla batteria e non ultimo il grande Giovanni Giorgi, batterista ed elaboratore elettronico, che mi ha aiutato a concretizzare le prime due riletture che abbia mai inciso nella mia carriera. Ancora, Federico Chiari che ha voluto introdurre in “Der Golem” delle sonorità che io non avrei mai usato.

Parliamo proprio di questi due classici del jazz che hai riletto nel disco…
“Giant Steps” di John Coltrane e “Young and Fine” di Joe Zawinul sono due brani iconici del jazz che mi sono divertito a riarrangiare alla mia maniera, qualcosa di completamente differente da quello che avevo fatto in passato ma pertinenti per vari motivi. Entrambi sono stati per me due grandi maestri. Zawinul è stato da sempre attento alla espressività etnica con la visione di un austriaco trapiantato negli Stati Uniti. John Coltrane in “Giant Steps” ha introdotto una sapienza ai limiti dell’esoterico e per realizzare il mio arrangiamento sono andato a studiare a fondo la struttura di questa composizione e mi ha colpito il modo in cui gestisce ed elabora il numero tre in modo sotterraneo. Nella mia versione ho cercato di esasperare tutto questo per far risaltare questa peculiarità del brano, facendo scontrare con sé stessa la centralità numerologica del tre. Si tratta di una cosa altamente specialistica e per capirlo è necessario conoscere a fondo quel brano. Alla fin fine in un mondo musicale estremo è un pezzo come un altro. A differenza dell’originale io l’ho rallentato per far emergere queste sovrapposizioni di triadi musicali e Giovanni Giorgi mi ha dato un impulso sostanziali.

Claudia Tellini ti affiancherà nelle presentazioni dal vivo di “100 Ghosts”…
Ho fatto questa scelta perché da solo con le mie macchine riesco a restituire l’anima e la complessità sonora di questo lavoro. Dal vivo i suoni verranno rigenerati contemporaneamente alla mia performance e ho scelto lei perché si è ritagliata un posto importantissimo nel disco. Non è propriamente un lavoro di canzoni cantate ma in diversi momenti è presente la voce. 
Foto di Salvo Contarino
Ci sono due brani cantati “Danza del Labirinto” e “Lamento di Tecmessa”. Il resto sono piccoli frammenti che però hanno un ruolo sostanziale come nel canto “Song From Ugarit” nella quale Claudia canta un frammento dedicato alla dea Nikka in ugaritico, una lingua pre-fenicia. E’ un reperto formidabile che è stato ritrovato in Siria e rappresenta la prima testimonianza di musica scritta nel mondo Occidentale e del bacino del Mediterraneo. In “Iqbal” sono presenti una serie di temi che io ho utilizzato per un film di animazione dal titolo “Iqbal bambini senza paura”. Nell’occasione li ho ricostruiti e riarrangiati per un ascolto discografico. Claudia è intervenuta improvvisando ritagliandosi un ruolo formidabile.

Concludendo come saranno i concerti di presentazione di “100 Ghosts”…
Saranno molto belli perché, tra l’altro, faremo anche una cosa assurda, andando ad anticipare quello che forse sarà un nuovo lavoro. Gran parte del concerto sarà dedicata al nuovo disco ma c’è un dieci per cento di cose nuove che probabilmente affronteremo il prossimo anno. Per scaramanzia non aggiungo altro. I brani prevedono anche delle improvvisazioni e dal vivo si prestano ancor di più in questo senso. Addirittura alcune composizioni come “Il lamento di Tecmessa” che canterà Claudia e ”La danza del labirinto”, le ho quasi ricostruite per il live, ovviamente non li rifaccio uguali al disco ma sono un passo più in là. “Danza del labirinto”, inoltre, era già nel repertorio di “Area Open Project” un quartetto che vede la presenza di Claudia Tellini oltre che di Marco Micheli e Walter Paoli. Questa è la formazione con cui faccio concerti e con cui eseguiamo anche alcuni brani degli Area che Claudia canta con la stessa tonalità di Demetrio Stratos. Insomma il disco fissa un momento e già a distanza di pochi mesi alcuni brani si sono evoluti.


Salvatore Esposito


Patrizio Fariselli – 100 Ghosts (Warner Music, 2018)
“100 Ghosts” percorre sonorità da sempre care all’artista, in bilico tra musica etnica, sperimentazione, rock e jazz, continuando un percorso pionieristico inaugurato molti anni fa con lo storico gruppo.In questo progetto Fariselli è accompagnato da: Claudia Tellini e Grazia di Michele: voci, Walter Paoli: batteria e percussioni, Marco Micheli: basso, Giovanni Giorgi: batteria, live electronics e Federico Chiari: additional electronics. Nell’intervista avete letto molte curiosità e approfondimenti sulla lavorazione dell’album e dei  singoli brani, con altrettanti riferimenti alle molteplici fonti che hanno ispirato il compositore. A chi scrive spetta il compito di “tirare le somme” riordinando i molti pensieri che ancora affollano la mente dopo l’ascolto. Una cosa è certa, qui ci troviamo dinnanzi a un lavoro di ricerca notevole, ma quello che è ancor più interessante per il sottoscritto, è proprio il processo di elaborazione delle tracce, che affianca metodi differenti ( anzi opposti) in un’azzeccata sintesi tra razionalità e spontaneità. “100 Ghosts” riesce infatti a fondere mirabilmente “materia musicale molto ragionata e attentamente composta” (come la definisce lo stesso Fariselli), con interventi estemporanei, e lo fa molto bene, al punto da non riuscir effettivamente a discernere l’una dagli altri e proprio questo è il bello, oltre a essere anche uno degli obiettivi pienamente raggiunti dal suo autore. Nell’album troviamo spesso parti improvvisate in tempo reale nate al momento, inserite con linearità in strutture ritmiche molto meditate. “Der Golem”, il brano in apertura, esemplifica molto bene questo metodo, raccontato dettagliatamente nell’intervista. Oltre alle questioni prettamente strutturali, molto interessante è anche naturalmente la profonda (e appassionata) indagine storica condotta da Fariselli, che scava sino a rintracciare fonti che spaziano dalla tradizione greca antica ( “Lamento di Tecmessa”), alle danze sciamaniche (“Paidushka”) a frammenti cantati in ugarittico (“Song from Ugarit”), sino alle personali riletture di Coltrane (“Giant Steps”) e Zawinul (“Young And Fine”) in un ideale ponte tra passato e “presente”. In “100 Ghosts”, insomma, l’interesse di Patrizio non è quello di riproporre fedelmente questi “materiali arcaici” citati/elaborati nei vari pezzi, ma di interpretarli, farli rivivere, portandoli alla luce con libertà e competenza, restituendoci qualcosa di attuale e nuovo, che ritrovi nel presente le recondite tracce del passato… Questa non ci sembra affatto una cosa da sottovalutare.



Marco Calloni

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