Marco Rovelli – Bella una serpe con le spoglie d'oro. Un omaggio a Caterina Bueno (SquiLibri, 2018)

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Caterina Bueno doveva essere davvero una persona speciale. Chiunque l’abbia incontrata nel suo cammino personale e artistico sembra esserne rimasto toccato per sempre. Anche Marco Rovelli un giorno si è scontrato con un piccolo disco dato in allegato con un giornale. Nel cd i canti toscani e anarchici interpretati da lei. E così Marco ha scoperto tramite Caterina un mondo. Un mondo di amore e di rivolta che non conosceva. E se ne è innamorato. Per raccontare questa sua storia e le storie di Caterina si è inventato uno spettacolo di Teatro Canzone che si chiama “La Leggera” . E ha poi deciso anche di trasformare questo lavoro in un cd+libretto edito da Mimmo Ferraro di SquiLibri. Nel volumetto il testo de “La Leggera”. Nel cd le canzoni “di Caterina” riarrangiate da Rocco Marchi. Abbiamo fatto una bella chiacchierata con Marco Rovelli parlando di tutto questo, ma anche di memoria, di musica e di Popolo.

Chi si troverà tra le mani “Bella una serpe con le spoglie d'oro” avrà la fortuna di non incontrare segreti; ogni curiosità sembra già essere risolta in questo esaustivo Cd Book. Per questa ragione l’intervista cercherà di andare a scovare il non detto. Cominciamo con l’entrare nel personale. Tu vivi a Massa e hai sempre vissuto lì?
Sì vivo a Massa ma ho vissuto anche altrove. Per tre anni ad esempio ho insegnato a Milano.

Cominciamo da prima. Da quando eri solo un ragazzo. C’è chi da grande vuol fare il pompiere. E tu? 
Non lo so, non ricordo cosa volessi fare da piccolo. Come in realtà non ricordo un sacco di cose: ho cancellato una marea di ricordi non solo della mia infanzia ma anche della mia adolescenza; anzi, faccio fatica a ricordare anche cose di quando ero all’Università. 

Quindi tu sei uno di quelli che rimuove i ricordi? 
Sì; quando incontrai per la prima volta “Les champs magnétiques” di Breton, che viene considerato il primo primo libro del surrealismo, mi innamorai di una frase: “dimenticare l’ardore più bello” che presi come motto personale; se ci pensi diventa anche una fantastica presunzione di innocenza! C’è qualcosa di buono nel dimenticare.

Però sei un ricercatore, quindi la memoria dovresti averla in realtà molto buona! 
Ma io rimuovo solo le cose mie personali; in realtà per tutto il resto ho memoria fotografica.  Come se la tua memoria avesse deciso di non concentrarsi su di te ma su tutto quello che ti incuriosisce fuori! Più  che altro la mia memoria mi ha aiutato a conservare selezionando. Un testo che amo molto di Nietzsche è: “L’utiità e il danno della Storia per la vita”. La Storia come un troppo pieno è un danno e quindi è come se la mia coscienza avesse deciso da sola di selezionare, per cui: “questo non serve? Eliminiamo!” E poi per me gli anni della scuola non sono stati bellissimi; ho frequentato un Liceo Classico di provincia di  una severità vittoriana e dai metodi ottocenteschi che mi hanno spinto a fare il ribelle. 

Come è nata la tua coscienza politica? 
Un po’ per caso! Io stavo in questo ambiente ottocentesco - che per fortuna ho rimosso - e allora sai come succede quando sei ragazzino e hai quindici anni: cominci a sentirti diverso, cominci a sentire di non aver niente a che fare con nulla. Io vengo da una famiglia normale, di impiegati.

Una famiglia piccolo-borghese come quella di quasi tutti noi?
Sì. 

Come erano i tuoi genitori di mentalità?
I miei erano e sono tuttora cattolici praticanti; all’epoca lo erano poi nel senso più classico del termine: messa, DC, ecc. In realtà il babbo del mio babbo era comunista ma un comunista strano, cattolico, e poi non parlava molto. In realtà non si parlava molto di politica in casa. Quello che mi ha salvato è stata la Musica: ho cominciato ad ascoltare del Rock! 

Quindi anche tu sei uno che attraverso la musica ha formato la sua coscienza sociale e politica. Anagraficamente appartieni alla generazione adolescente negli anni 80 e giovane negli anni 90. E a quell’epoca succedeva spesso che la Musica fosse veicolo politico. Mi fermo su questi temi perché proprio leggendo il libretto e ascoltando il disco ho riflettuto su quel mondo piccolo borghese. E mi sono chiesta, facendo un salto indietro rispetto alla nostra generazione: Caterina Bueno che tipo di mediazione ha fatto tra quella che era la sua origine e quello a cui poi scelse di dedicare la vita? e Marco Rovelli come spiega il suo percorso? E infine, se Pasolini seppe denunciare la distruzione delle tradizioni e delle radici popolari, nel frattempo però a cercare di recuperare e conservare pensò  di fatto una élite borghese. Faccio un esempio per tutti: Giovanna Marini.
Certo: Giovanna Marini addirittura proviene dall’alta borghesia! Beh all’epoca della Marini c’era infatti quel gruppo borghese a fare quel lavoro indispensabile; anche Caterina apparteneva a una famiglia borghese di artisti emigrati in Italia prima della guerra. Aveva però attrazione verso questo mondo rurale e popolare a cui non apparteneva e in questo mi riconosco abbastanza: è la mia stessa cosa. 
Io ho ascoltato musica Rock fino ai 30 anni; per me la musica italiana non esisteva, nemmeno i cantautori. Però, all’alba dei miei 25 anni, ho cominciato a frequentare le cantine sottoproletarie della campagna massese; esistono ancora, anche se sono molto cambiate da allora; negli anni 90 erano frequentate dal sottoproletariato massese ma ormai sono quasi tutti morti; è stato lì che ho cominciato a sentire delle cose; ma la mia passione non è nata per trasmissione orale del canto popolare. In verità io mi sono innamorato del dischetto “Canti di Maremma e d’anarchia”, pubblicato nel 1997 da Caterina e distribuito da “Avvenimenti”. Mi sono appassionato di quella voce lì e ho ascoltato quel cd a ripetizione, senza che fino ad allora avessi alcuna conoscenza di quel mondo. 

E ti sei innamorato – tra virgolette – anche di lei quando l’hai conosciuta? Ti sentivi a tuo agio con lei?
Dopo tre anni sono andato a sentirla in concerto e l’ho conosciuta in effetti. Caterina non aveva un carattere facilissimo e andava un po’ inseguita. Ci facevamo delle lunghe telefonate, ma non è che ci siamo visti chissà quante volte: non posso dire di essere stato un suo amico. Ci siamo incontrati un po’ di volte e un paio sono stato a casa sua. Lei mi stimava artisticamente. Anzi, stimava Les Anarchistes, almeno fino a quando non sentì il nostro “Battan l’otto”: lo avevamo stravolto; era il suo cavallo di battaglia e la nostra versione era troppo per lei. Allora dopo l’ho dovuta di nuovo inseguire. 

Bene e veniamo al punto: Caterina Bueno ha recuperato e ritrasmesso e tu le fai un omaggio. Metti in piedi questo lavoro, "La Leggera", questo spettacolo di Teatro Canzone, in cui racconti di lei e del mondo che lei amava ritrovare, recuperare e cantare. E nello spettacolo tu con la tua chitarra rifai quelle canzoni, tali e quali. Perché hai fatto questa scelta? Da quale esigenza personale è nata? Perché invece di fare un omaggio a Caterina Bueno non hai scelto di fare un passo avanti su quel percorso? E, infine, è un omaggio a lei o a quel mondo che lei cantava?
Lo spettacolo nasce dall’idea di raccontare una roba di cui mi ero innamorato: quel mondo amato anche da lei.  In realtà avevo voglia di raccontare quelle storie. Il disco nasce dopo e nasce perché mi è stato chiesto. 
E – sia chiaro – ne sono ben contento. Volevo però proprio fare quello spettacolo per narrare quelle storie. Io penso che quel mondo popolare ormai sparito sia necessario continuare a raccontarlo. Dopodiché nel disco quelle canzoni sono rifatte insieme a Rocco Marchi: volevo rinnovarle ma mantenerle per quello che erano, facendo un duplice lavoro e mettendoci la mia personalità di rocker. 

E perché hai scelto di raccontare quel mondo passando da Caterina Bueno? 
Perché avevo voglia di raccontare una cosa di cui sono innamorato e quindi in qualche modo raccontare anche me stesso: quell’amore – come dicevo prima – è nato ascoltando il disco di Caterina e la sua voce. Quindi canto quel mondo seguendo un itinerario in realtà che è mio. In fondo se senti il repertorio di chi rifà le cose di Caterina ti accorgerai che vengono scelte altre canzoni e altri paesaggi.

Tu scegli soprattutto Amore e Anarchia. 
Io scelgo Amore e Utopia, Amore e Rivoluzione.

Tu dici che quel Popolo non esiste più. Forse quello no, ma ce ne è ancora nel territorio, con nuove storie. Non ce ne accorgiamo solo perché non appare e non viene ritrasmesso dai mezzi di comunicazione. 
Vero, ma questo non è più un Popolo che racconta e canta col suo particolare linguaggio. È un Popolo che usa strumenti esterni che gli arrivano da fuori.

Hai ragione. E a proposito di linguaggio popolare, tu hai dato un titolo molto specifico allo Spettacolo: si chiama “La Leggera” e spieghi bene cosa significhi questo termine. Gli uomini senza padrone, gli uomini della “Leggera”, erano quelli che si arrangiavano con lavori giornalieri e precari e lo facevano con orgoglio, perché pensavano che il lavoro non fosse il valore della vita. E tu? La pensi come gli uomini della Leggera o come quelli che considerano il lavoro essenziale per definire la dignità dell’uomo?
Il lavoro per me è la dimensione della necessità che si contrappone alla libertà e quindi, in quanto necessità, ci deve essere per tutti;  però la dimensione propriamente umana non è il lavoro. Lo diceva anche Marx nei “Manoscritti economico-filosofici”. Io sono eclettico nella mia formazione filosofica. Mi chiamano “anarchico” ma per gli anarchici sono troppo marxista e per i marxisti troppo anarchico! Però Marx diceva che al culmine di tutto c’è la capacità dell’uomo di creare la bellezza e la bellezza sfugge al valore, sfugge alla necessità. Quindi non è certo un caso che io abbia scelto tra i tanti titoli possibili proprio questo qua!

E finalmente parliamo del Rovelli musicista. Nello spettacolo sei tu con la tua chitarra, ma appunto come accennavi prima nel disco hai tirato fuori la tua anima rock. E difatti ho sentito sotto la tua voce un bel sound, che sembra non appartenere per niente a ciò che canti. Anche se, a pensarci bene, secondo me a Sante Caserio sarebbero piaciuti questi suoni. 
Penso di sì. Dal punto di vista musicale lavoro – come dicevo - con Rocco Marchi. Il giornalista Fausto Pellegrini una volta l’ha definito: il Centromediano metodista dell’Indie Rock  italiano! Tra noi c’è sintonia totale; Rocco è un grandissimo disegnatore di ambienti e ha la capacità - con pochi tocchi che un ascoltatore inesperto non individua nemmeno -  di cambiare totalmente l’ambiente sonoro di un pezzo. Quindi abbiamo parlato e condiviso una serie di idee. Sono sonorità diverse ma molto rispettose. E poi in realtà è quello che fa la tradizione, che altro non è se non quel processo di trasformazione e di cambiamento per cui per esempio la fisarmonica diventa nel nostro immaginario uno strumento tradizionale, mentre in realtà è stata introdotta nell’Ottocento. Anche noi facciamo questo: introduciamo altri strumenti che sono nel flusso stesso di questi canti.

Sei soddisfatto del risultato?
Sì, non lo riesco ad immaginare in un altro modo.

Hai poi una bella squadra di musicisti. Suonerai ancora con loro o andrai da solo?
Dipende dal cachet ovviamente!

Ma riesci a suonare?
Io suono parecchio, adattandomi ovviamente alla mia nicchia di pubblico. Suono nei circoli e in certi ambienti specifici.  Quando ci sono i musicisti ovviamente è tutto più bello.



Marco Rovelli – Bella una serpe con le spoglie d'oro Un omaggio a Caterina Bueno (SquiLibri, 2018)
Per prima cosa, nell’affrontare questo Cd Book di Marco Rovelli, è doveroso accennare al coraggio di  Mimmo Ferraro, dell’editrice SquiLibri, per la bellezza e la cura della collana “Crinali”, giunta alla sesta pubblicazione. Bella la carta, belle le foto, eleganti le copertine, mai banali e pretestuosi i testi. E un simile “involucro” nasconde tutti piccoli gioielli sonori che è prezioso ascoltare e conservare. Qua si fa la storia senza morire, e si fa arte. Si studia e ci si rende leggeri. Si fa cultura e intrattenimento. Senza paura e senza mediazioni compromissorie. E Bella una serpe con le spoglie d’oro, un omaggio a Caterina Bueno non fa certo eccezione. Con fare pignolo si vede che anche questa volta non si è ceduto un attimo né alla fretta né alla casualità.  E partiamo proprio dal libretto, perché oltre ad un interessante scritto di Maurizio Agamennone dedicato a Caterina Bueno, contiene anche il testo dello spettacolo di Teatro Canzone “La Leggera”, che Marco Rovelli ha scritto e messo in scena per rendere omaggio al mondo toscano amato da Caterina Bueno, ma anche dall’attore Carlo Monni e dal poeta Altamante Logli. Leggendolo mentre si ascolta il cd – prassi indispensabile per godere appieno di questo lavoro – si resta incantati da come – non sappiamo se per scelta o per impulso inconscio del cuore – Rovelli sia riuscito in una narrazione che mette insieme e sullo stesso piano umano le storie di Caterina, di Carlo, di Altamante, di Marco (naturalmente), di Sante, di Rodolfo, di tutte le mamme contadine, degli uomini della “leggera”… una storia che continua e si confonde e che partecipa delle vicende dell’altro. Sembra di stare in una serata d’agosto, dopo una festa di qualche Santo, dopo i canti, i balli e il vino, quando i più piccoli dormono abbracciati alle madri e viene il fresco e qualcuno comincia a raccontare. Marco Rovelli dichiara il suo amore per questo mondo scomparso di vicende popolari in teoria anche lontane tra loro: anarchici, contadini, lavoratori della leggera, ragazze pronte per l’amore, tutti insieme nella stessa storia che immaginiamo a fumetti. Questa narrazione e queste canzoni del repertorio scovato e reso vivo dalla Bueno vanno tutte nella direzione dell’amore e della rivoluzione, temi cari a Rovelli. E se il cantautore massese nello spettacolo imbraccia la chitarra - e lo immaginiamo perciò cantare in quella serata tiepida d’agosto - per il cd ha scelto una strada diversa. Con tutta l’anima punk della sua generazione ha riproposto – grazie al supporto fondamentale di Rocco Marchi, attrezzato di chitarra elettrica, sintetizzatori, diamonica e glockenspiel – il repertorio di Caterina, vestendolo di un sound molto particolare. Non facciamo fatica a definirlo – anche se con molta cautela – rock, almeno nell’ispirazione.  Resta la domanda aperta di quanto conti - e perché - il continuare a riproporre quelle storie che non ricordano più come vissuto neanche i nostri nonni. Banalmente potremmo dire che ciò che non sparisce non muore mai e ad ogni nuovo incontro si rigenera e si reinventa. Quel mondo popolare che non c’è più e che Caterina ha ritrovato e cantato ci appartiene ancora, molto più di quanto non si creda. Perché di questi canti e di queste storie restano vive la liricità, la forza, la rabbia, il lamento, la fatica, l’allegria, la passione, il dolore, il tormento. Restano vive senza compromessi. Come è senza compromessi la straordinaria voce di Marco Rovelli, così vera, così – soprattutto - antiborghese. 


Elisabetta Malantrucco

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