WOMEX The World Music Expo, Katowice (Polonia), 25-29 Ottobre 2017

Il rilievo nostrano è stato la presenza di Italian World Beat, che accanto alla già affermata Puglia Sounds, rappresenta la grande novità di una rete nazionale che aggrega diversi soggetti: direttori di festival, promoter, etichette discografiche, artisti, stampa specializzata, operatori di piattaforme digitali, dando finalmente una visibilità più corposa alla musica italiana per il pubblico di professionals internazionali. Altrove, le istituzioni finanziano le presenze di operatori e artisti (Spagna, Paesi Baltici, Europa Centrale): la speranza è che si possa costruire un network forte e riconosciuto istituzionalmente, piuttosto che continuare ognuno per la sua piccola strada personalistica o che ci si disperda in rivoli di iniziative (folk, trad, ecc.), magari costruite su base geografica, che ancora una volta dimostrerebbero l’incapacità italica di fare squadra. Perché, se è vero che l’operazione Talento (che univa artisti e promotori di festival) molti anni naufragò miseramente, qui siamo di fronte a tempi nuovi in termini di azioni da intraprendere. Venendo ora al programma WOMEX 2017, diciamo che le conferenze tematiche e la sezione di film costituiscono una fetta significativa in termini di confronto e di arricchimento culturale. Tra le prime, segnaliamo il focus
sulla world music in Russia, quello sul passaggio delle tradizioni musicali di generazione in generazione, la discussione sulla musica delle lingue in pericolo di estinzione, su quanto il folklore possa diventare cool o sulla scena della musica elettronica nel continente latino-americano e in Africa. Tra le “pellicole”, ricordiamo “Etiopiques-Revolt of the Soul” di Maciek Bochniak, ritratto di Francis Falceto, ideatore dell’omonima collezione discografica, “Hibridos” di Vincent Moon e Priscilla Telmon, dedicato ai culti religiosi in Brasile, “Charco – Songs from the Rio de la Plata” di Julian Chakde e “Lute electric” di Vaseilos Dimitriadis e Mike Geranios, sulla costruzione del primo laouto elettrico nell’isola di Creta da parte di Dimitris Sideris. Passando ai set degli artisti scelti dai cosiddetti 7 samurai, che spalmati in tre giorni hanno riempito i palchi dalle 13 alle 15 e dalle 21 all’1.30 del mattino, il resoconto del vostro inviato, che ha cercato di ascoltare il più possibile, pur privilegiando ciò che lo interessava maggiormente, è inevitabilmente parziale, visto che nonostante la buona distribuzione logistica degli show, tutti raggiungibili a piedi in pochissimi minuti, la
sovrapposizione di eventi non ha giovato alla fruizione totale. Iniziamo dalla folta pattuglia polacca e dell’Europa centrale, che ha visto la coppia Maniucha & Ksawery, con uno show imperniato sui canti della Polessia, approntati in modo minimalista, mettendo al centro la conversazione tra voce e strumento. Gli Skład Niearchaiczny muovono dalla musica tradizionale dei Beschidi (la catena montuosa che attraversa da ovest a est la Repubblica Ceca, la Slovacchia, la Polonia e l’Ucraina), reinterpretandola con un appeal contemporaneo (voce, violino, viola, contrabbasso, flauto e cornamusa). Se il Trio Woźniak/Wachowiak/ Kinaszewska aka WoWakin gioca sull’interazione di formazione classica, jazz e contemporanea per riprodurre la musica dei villaggi, il quartetto Hanba!, originario di Cracovia, mischia punk, folk e klezmer. Dalla Slovacchia il sestetto Banda ci porta con piglio deciso e spirito hip-folk dentro la tradizione morava, riletta con spunti in levare e jazz, ma soprattutto presenta un buon amalgama vocale e strumentale (voci, fisarmonica, violino, cimbalom, contrabbasso, mandolino, bouzouki, percussioni e tastiere). Nel programma di concerti, le pomeridiane all’interno dell’auditorium del centro concerti hanno offerto più di una scoperta. 
Innanzitutto, una delle voci folk più interessanti della scena argentina, Luciana Jury. Accompagnandosi alla chitarra, la cantante cresciuta a Tortuguitas, zona settentrionale della Grande Buenos Aires, ha colpito per la sua interpretazione diretta di materiali tradizionali resi con un’intensa voce scura e profonda. Inusitato l’incontro ai confini tra classicismo, jazz e tradizione greca e mediorientale del laouto di Vasilis Kostas e del violino dell’iracheno-giordano Layth Siduq. Tra i vertici di quest’anno il set del chitarrista Dimitris Mystakidis in viaggio, tra storia e ipotesi, nel mondo dei migranti grechi di inizio XX secolo, che nello sviluppo della tecnica finger-picking, denominata tsibiti, assorbirono elementi del blues afro-americano. “Amerika” è l’album in cui il chitarrista e docente all’Scuola d’Arte dell’Epiro esplora questo repertorio di canzoni migranti. Mentre Mystakidis suonava le sue chitarre, dietro di lui scorrevano immagini dell’emigrazione greca del secolo scorso, addensando amare analogie con quanto accade oggi in Europa. Merita un ascolto il progetto tra jazz da camera coreano di Park Jiha, che sposa strumenti della tradizione coreana (piri, saenghwang e yanggeum) con vibrafono, sax, 
contrabbasso e clarinetto. Invece, la finlandese Maija Kauhanen è una one-woman band dal temperamento deciso, tutta voce, kantele e percussioni: i temi tradizionali dei suoi canti hanno rilevanza contemporanea (amore, gioia, violenza domestica, nascite e problemi relazionali). Kauhanen è un personaggio da seguire anche per il suo approccio tecnico allo strumento nazionale finnico (è appena uscito “Raivopyörä” pubblicato da Nordic Notes). Se chiediamo al WOMEX da darci i nomi di talenti da scoprire, allora diciamo che l’edizione di quest’anno non ha offerto che pochi nomi per cui strapparsi le vesti. Non certo il punk-folk-teatrale delle ucraine Dakh Daughters, che è sembrato proporre istanze estetiche un po’ logore, mentre alle note pentatoniche degli etiopici Qwanqa, dotati di krar elettrico e basso, violino monocorde masinko, violino a cinque corde e percussioni, manca ancora un quid per fare un salto in termini di impatto. Sempre dall’Africa il kologo del ghanese King Asyioba ha suonato potente e forte al Twin stage, mentre il cantautore angolano Waldemar Bastos si è proposto in uno recital di classe in quartetto acustico (chitarre e percussioni) nel più elegante e 
adeguato acusticamente Theatre Stage del NOSPR. Buone vibes creole dal colombiano Elkin Robinson, originario dell’isola di Old Providence. Il fronte celtico ha offerto gli scozzesi Talisk, con il loro bell’interplay di concertina, violino e chitarra, e i gallesi Alaw (voce, chitarra, violin e fisarmonica), che rileggono canzoni e musiche della terra del dragone. Convincenti gli irlandesi Lankum (già noti come Lynched), band che ha dato alle spalle “Between the Earth and Sky” (Rough Trade/Self). I dublinesi combinano armonie vocali a quattro parti e uno strumentario comprendente uilleann pipes, concertina, violino e chitarra, per interpretare brani originali, ballate della tradizione folk urbana e delle comunità dei traveller, con uno spiccato uso di drone e di arrangiamenti che esaltano il dialogo del quartetto. Superlativo il trio di Leyla McCalla (voce, violoncello, banjo), con suo marito Daniel Tremblay (chitarra) e Free Feral (violino). La musica dell’artista di New Orleans intreccia folk del bayou, retaggio haitiano-creolo, blues e classicismo, facendo convergere idiomi musicali antichi su temi sociali della contemporaneità. In tema di fusione di stili anche l’haitiano-canadese Wesli si è 
prodigato in un mix gustoso di funk, merengue, rara, kompa e afro-beat. Della pattuglia latino americana, il combo di Città del Messico Sonido Gallo Negro è stato portatore di una calda corrente di suoni tropicali ‘mezclati’ con la psichedelia. Gustoso il set dei franco-colombiani Pixvae, mentre una ventata afro-venezuelana l’ha introdotta, da Barlovento, la voce di Betsayda Machado & La Parranda El Clavo. Quanto alla cubana Yaité Ramos-Rodriguez, conosciuta come La Dame Blanche, ci è sembrata più degna per l’appeal scenico che per la sua proposta musicale. Passando all’Africa, la storica Orchestre Les Mangelepa non si discute, mentre la contemporaneità urbana dei Gato Preto non ha impressionato tanto gli astanti più selettivi. Dal Madagascar è cosa buona e giusta riportare in scena la fisarmonica di un grande come Bitori. Anche il sassofonista Orlando Julius è un altro nome di punta, che non ha tradito le aspettative. Molto atteso il set del progetto Ifriqiyya Electrique, con il pubblico richiamato dalla connotazione rituale e trance. Mentre dietro i musicisti scorrevano le immagini del docu-film girato a Djérib dal chitarrista francese François- Régis Cambuzat, che ha condiviso il palco con 
Gianna Greco (basso) e tre musicisti tunisini, depositari della liturgia musicale della comunità banga. Il canto responsoriale e la reiterazione di sequenze percussive del trio si intersecano con la chitarra elettrica, il basso e l’elettronica. La fusione elettroacustica è scura e densa, fluttuante e corposa, magnetica e ossessiva. Tuttavia, forse anche per il persistente flusso di spettatori che transitano da uno show all’altro, lo spettacolo perde parte della sua potenza avviluppante. Tra le novità mediorientali, segnaliamo il dabka elettronico dalla marcata tensione politica degli anglo-palestinesi 47Soul e il progetto di Victoria Hanna, vocalist israeliana dalla grande tecnica vocale: cresciuta in una famiglia ebrea ortodossa, Hanna possiede notevole personalità scenica, canta in aramaico ed ebraico, nelle liriche prende a prestito insegnamenti cabalistici e si ammanta di un suono pop e hip-hop, che ha qualcosa da rivedere. Atteso ma non proprio irreprensibile sul piano vocale il quintetto del virtuoso del qanun irakeno-belga Osama Abdulrasol. La Spagna e la Catalogna si sono presentate al WOMEX con diversi show. Oltre all’ormai abusato groove reggae-sub-latin targato Barcellona dei Txarango,
 abbiamo visto nell’Off-stage (dove gli artisti o le loro agenzie pagano per esibirsi) il notevole trio basco di Juan Mari Beltran, armato di fisarmonica, fiati, txalaparta e percussioni, e La Banda Morisca, da Cadice, con il suo mix di retaggio di Al-Andalus e influenze chaabi, flamenco sevillano e ritmica rock. Altrove, spicca la personalità del francese Valentin Clastrier, maestro sperimentatore della ghironda elettroacustica, in coppia con il fiatista olandese Steven Kamperman (sassofono e clarinetto), in un originale connubio che si muove su fertili terreni modali improvvisativi. Altra chicca di quest’edizione 2017 l’assaggio di musica nepalese, di cui è stato portatore il sestetto Night, che arrangia temi tradizionali con una strumentazione acustica. Infine, chiudiamo questa rassegna con due protagonisti assoluti: il cantante iraniano Alireza Ghorbani, in compagnia di Saman Samini, giovane compositore e talento della viella ad arco kamantché, Milad Mohammadi al târ, il liuto a manico lungo, e Hussein Zahawy alle percussioni. Il quartetto costruisce solide e creative basi strumentali, sulle quali si libra il canto di Alireza, capace di interagire perfettamente con gli strumenti a corda e le percussioni nei repentini cambi di ritmo e tempo, controllando perfettamente i volumi, passando dal sussurrato alle potenti impennate, eccellendo nelle improvvisazioni, nei melismi e nelle ornamentazioni vocali proprie dell’estetica musicale d’arte persiana. Altra esponente di una grande tradizione musicale d’arte è la violinista e compositrice Jyotsna Srikanth, in trio con mridangam e morsing. La strumentista di Bangalore, residente a Londra, di formazione musicale carnatica, è propensa a sperimentare e collaborare con musicisti occidentali e con jazzisti indiani. Il suo set è stato sapiente, divulgativo ed ineccepibile sul piano sonoro. Ci siamo sicuramente persi qualcosa degna di nota: dai belgi globali Black Flower ai brasiliani Meta Meta, dalla ceca Marta Topferova ad Hazart’Trio, fino ai DJ set per chi aveva ancora le forze per arrivare oltre gli showcase. Questo è stato il WOMEX, che dà appuntamento a tutt’altra latitudine, a Las Palmas de Gran Canaria, dal 24 al 28 ottobre 2018. 



Ciro De Rosa

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