Massimo Priviero – All’Italia (Moletto/MPC/Self, 2017)

Prossimo a festeggiare i trent’anni di onorata attività discografica, Massimo Priviero ha recentemente dato alle stampe “All’Italia”, sedicesimo album in carriera che giunge a quattro anni di distanza da “Ali di Libertà”. Da colto artigiano della canzone d’autore declinata in chiave rock ha messo in fila tredici brani, dalle eleganti trame acustiche, che nel loro insieme compongono un concept album sul tema dell’emigrazione, raccontata attraverso gli occhi chi l’ha vissuta. Brano dopo brano si ricorrono storie comuni a quelle di tanti italiani di oggi come di ieri in cui si canta rinascita, riscatto e ricerca di un futuro migliore, mentre sullo sfondo si muovono le vicende della nostra nazione dai primi del Novecento ad oggi. E’ il racconto di una nazione a cui i protagonisti del disco sentono di appartenere con forza, nonostante la difficile scelta di abbandonare la propria terra alla ricerca di migliori fortune all’estero. Il risultato è un album toccante ed intenso, nel quale si alternano linguaggi e sonorità differenti, tenute insieme da un songwriting profondo che intreccia le passioni del cantautore veneto per la poesia e per la storia, di cui è fine conoscitore. Abbiamo intervistato Massimo Priviero per approfondire insieme a lui i brani del disco, senza dimenticare l’approccio agli arrangiamenti.

Nel titolo del disco: "All'Italia" è racchiuso il concept dell'album e nel contempo una dedica alla nostra nazione. Come nasce questo nuovo album?
Nasce dal desiderio di dare voce all’Italia che sento più vicina. La migrazione, ieri come oggi, è un atto di coraggio e di forza. Questo è il filo rosso che unisce i protagonisti delle canzoni. In più volevo fare un album diciamo quasi chitarra e voce, molto essenziale, giusto per valorizzare al massimo le vicende che si raccontano e la voce che da fiato a queste storie.

Da "Testimone" che in qualche modo ha rappresentato uno dei capisaldi della tua discografia degli ultimi anni ad oggi. Come si è evoluto il tuo songwriting?
Chi mi ascolta e chi mi segue può giudicare. Probabilmente sempre più si è andato affermando il desiderio di dar voce ad un mondo col quale mi identifico più che scavare su pensieri che mi riguardano più individualmente. Col tempo forse sono diventato sempre più testimone di un certo particolare mondo e nello stesso tempo sono diventato io stesso ancor più le canzoni che scrivo.  

"All'Italia" è un disco sostanzialmente acustico, ma non mancano colori folk e world ad impreziosirlo. Come si è indirizzato il tuo lavoro in fase di arrangiamento dei brani?
Questo è un album nato per essere chitarra voce e armonica. Registrato in questa modalità. Ogni volta che scrivevo una nuova canzone andavo in studio e in un paio d’ore la incidevo. Così si sono succeduti più o meno una ventina di brani. I colori a cui ti riferisci sono serviti esclusivamente a rafforzare un poco quel che era in tutto e per tutto un album diciamo da minstrel. Era ovvio che fossero colori scarni ed essenziali, per lo più, e che non dovessero essere invasivi. In quel caso è altrettanto ovvio che istintivamente si usino sonorità e strumenti essenzialmente folk. 

Il disco prende le mosse da "Villa Regina" che introduce al tema dell'emigrazione che caratterizza il concept del disco ed ritorna in "Aquitania" e "Fiume". Come sono nati questi brani?
“Villa Regina” è la prima canzone che ho scritto per l’album insieme a “Bataclan” dunque fai conto l’inizio e la fine del viaggio. Una volta scritti ho realizzato quanto fosse giusto realizzare un concept e la scrittura delle canzoni ha seguito uno sviluppo anche di tipo storico, cioè ha seguito quel che poi senti nel disco. In specifico “Villa Regina” è la storia di emigrazione di un giovane veneto che era negli anni venti il migliore amico di mio nonno e che, dopo aver fatto il Piave con lui, decise di lasciare l’Italia per cercare il suo destino in Argentina. “Aquitania” è anch’essa una storia diciamo di famiglia che riguardo’ all’epoca una mia zia che se ne andò in Francia partendo dalla campagna veneta. “Fiume” meriterebbe invece un discorso a parte. Tanti italiani di quella zona furono sfollati dalle mie parti. Tanti di loro vissero tragedie essendo colpevoli solo di essere stati italiani nel posto sbagliato al momento sbagliato. In generale, al di là dei tratti autobiografici che puoi incontrare, sono storie comuni di tanta gente, soprattutto nel pezzo d’Italia da cui vengo io.   

"Cielo Blu" è uno dei brani autobiografici del disco. Quanto c'è della tua storia in questa canzone?
In realtà “Cielo Blu” è la storia di un figlio dei fiori che disprezza il mondo che ha intorno e se ne va a vivere in una baita più vicina ad un cielo che ovviamente coincide con la sua anima. Da lì guarda il prossimo con distacco e pure con certo disprezzo. Fai conto che sia una specie di Mauro Corona ante litteram.  Ovvio che abbia pure anche molte ragioni per fanculare quel che vede dalla cima della sua montagna.

"Friuli '76" racconta il dramma del terremoto in Friuli, ma nei suoi versi c'è tanta attualità con le ferite ancora vive del sisma in centro Italia...
Chiaro che Friuli poteva anche chiamarsi L’Aquila e ti confesso che proprio dal centro Italia sto’ ricevendo molte mail commosse proprio per questa canzone. Non c’è ovviamente alcuna differenza in un dolore e in un destino che accomuna a diverse latitudini. Ieri come oggi. Il desiderio è sempre che una tragedia serva almeno a rinsaldare in qualche maniera una comunità. A volte la lezione che riceviamo dalla natura ci fa capire quanto siamo fragili e precari. Ti auguri che alla luce di questo si riesca a stare al mondo in modo migliore, imparando cos’è per esempio il bene comune per poi rinascere in modo migliore.  

Se in "Berlino" canti di un giovane degli anni Ottanta che emigra alla ricerca di lavoro in questa grande capitale europea, "London" invece ci porta all'attualità della generazione Erasmus. Come è cambiato il concetto di viaggiare in Europa in trent'anni?
Del tutto diverso. I ragazzi vanno a Londra come noi trent’anni fa da Venezia andavamo a Milano. Questa è la parte buona di quella che chiamiamo globalizzazione e che la mia generazione inevitabilmente deve invidiare. Il rovescio della medaglia se vuoi è nell’instabilità e nella precarietà che potrebbe essere pure accettabile non fosse che in paesi come il nostro questi concetti sono in qualche modo degenerati dalla mafiosità e dal nepotismo che rovinano l’Italia. L’assenza di opportunità da noi traducono un modo di stare al mondo che davvero costringe la gioventù migliore ad andar via in un modo o nell’altro. Fanno bene, naturalmente. Detto ovviamente con grande dolore. Ma il suicidio italiano meriterebbe naturalmente ben altro approfondimento.  

"Alba Nuova" è nel contempo una canzone di rabbia e di rivalsa. Cosa ti ha ispirato questo brano?
Torniamo al discorso di prima. Hai presente i due ragazzi italiani periti nell’incendio di un grattacielo di Londra? Erano due giovani architetti scappati dall’Italia per non gravare sui bilanci famigliari e che da noi sarebbero finiti a lavorare in un call center, se andava bene. Hai presente quel che disse il ministro del lavoro mesi fa a proposito del fatto che si trovano più opportunità con gli amici del calcetto piuttosto che mandando curriculum alle aziende? Sono logiche idiote e allo stesso tempo criminali. Il protagonista di “Alba Nuova” se ne va perché non ha niente da perdere. E fa benissimo a farlo.

"Rinascimento" con il suo arrangiamento "Irish" nasconde una amara riflessione sulla nostra nazione e sul suo degrado morale. Ci puoi parlare di questo brano?
“Rinascimento” si rivolge alle minoranze resistenti del nostro paese. Ovviamente a prescindere da qualunque colore politico. Le minoranze, spesso meravigliose, sono l’unica vera speranza che abbiamo. 
La loro voglia di essere ancora vive sono la nostra unica salvezza. Ed esser vivi si traduce fortunatamente con il vedere da qualche parte una luce nel buio facendo in modo che questa possa brillare un po’ di più.

"Mozambico" racchiude la storia di un medico che parte volontario per assistere nel confronto con la vita normale di un suo amico lontano. Come mai hai scelto questa dicotomia per questo racconto?
Il protagonista trova l’essenza dell’esistenza. Trova la sua ragione di vita, quasi per caso. Nell’attesa dell’acqua che sta’ per cadere trova il segreto più grande della ragione per cui siamo al mondo. Nella disponibilità verso chi non ha niente trova in questo caso anche quel Cristo che abbiamo perso per strada. Cos’altro potrei aggiungere?

Il disco si conclude con il trittico "Bataclan", "Abbi Cura" e "Basso Piave", tutte e tre legale da un filo comune: la reazione alle sofferenze e alle prove della vita. Quanto uno storyteller di oggi deve riuscire a cogliere i sentimenti della collettività e mediarli attraverso la propria sensibilità?
Non ho lezioni da dare. Considero quella che tu chiami reazione alle sofferenze come il vero banco di prova di un’esistenza. Cadere e rialzarsi. Cadere di nuovo e cercare ancora forza per ripartire. Non abbiamo vere alternative a questo. Il mistero della nostra esistenza prevede essenzialmente questo. Per quel che mi riguarda quel che posso fare è trasfigurare questo concetto prendendo spunto da una vita e da un’esperienza che sento più vicina alla mia anima. La mia vita non è stata e non è distante da questa modalità, diciamo così. Ogni giorno.

Come saranno i concerti di "All'Italia?”
Molto emotivi. Molto spaccati in due tra una dimensione acustica e un necessario completamento elettrico che fotografa la mia carriera. I miei concerti sono stati spesso uno scambio di forza tra il palco e chi ci stava davanti. Confido che avvenga ancora così.



Massimo Priviero – All’Italia (Moletto/MPC/Self, 2017)
Quando nel 2013, Massimo Priviero diede alle stampe “Ali di Libertà” ci colpì in modo particolare “La casa di mio padre” nella quale in modo molto toccante raccontava la storia del trasferimento della sua famiglia dal Veneto a Milano. A distanza di quattro anni, il cantautore veneto ha sviluppato il tema trattato in quella splendida canzone, dando vita a “All’Italia”, concept album nel quale ha raccolto tredici canzoni che ruotano intorno al tema dell’emigrazione, raccontando oltre un secolo di storia della nostra nazione dagli inizi del Novecento ad oggi. Si tratta di storie cantante dalla prospettiva dei protagonisti che fungono da immaginifico io narrante, quasi in ognuna di esse ci fosse l’intrinseca urgenza di raccontare e condividere, ricordi, pensieri, riflessioni profonde. Da abile storyteller, Priviero entra di volta in volta nei vari personaggi, ne raccoglie le confessioni e ne interpreta magistralmente lo spirito profondo, modulando la voce attraverso registri differenti. Nati inizialmente per soli voce, chitarra ed armonica, i brani sono stati arricchiti da architetture sonore folk-rock prettamente acustiche, impeccabilmente costruite dal dialogo tra le corde dello stesso Priviero e di Alex Cambise (chitarra acustica, ukulele, mandolino), su cui si inserisce Riccardo Maccabruni che si divide tra fisarmonica, pianoforte ed organo, il tutto sostenuto dall’ottima sezione ritmica composta da Fabrizio Carletto (basso e contrabbasso) e Oscar Palma (batteria). Ad impreziosire il tutto sono gli interventi di vari strumentisti, per lo più di estrazione folk, come Vincenzo Zitello (flauto), Chiara Cesano (violino), Keith Eisdale (cornamusa, tin whistle) e Antonmarco Catania (uillean pipes), a cui si aggiungono Giancarlo Galli (ukulele), Simone Jovenitti (tastiere, pianoforte), Nick Manniello (tastiere), Claudio Lauria (sax), e le voci di Carlo Ozzella, Brunella Boschetti e Lisa Petti. Insomma gli arrangiamenti sono una cornice perfetta in cui si inseriscono le liriche intense, evocative, ricche di immagini, volti, ricordi ma anche speranze, sofferenze, dolore. Per comprendere tutto questo, basta sfogliare il ricco libretto che accompagna il disco, ogni canzone sembra diventare il capitolo di un libro in cui immergersi fino in fondo, per coglierne ogni sfumatura, ogni sensazione. L’album si apre con “Villa Regina”, un brano dal velato crescendo country-rock che racchiude il racconto dei tanti veneti che ad inizio Novecento partirono alla volta dell’Argentina alla ricerca di migliori fortune. Si prosegue con la toccante storia d’amore “Aquitania” in cui un giovane trentino parte per la Francia alla ricerca di lavoro e ad attenderlo trova tante difficoltà, ma a dargli la forza di superarle è la speranza di fare prima o poi ritorno a casa. Se la struggente “Fiume” ci riporta alla mente il dramma delle foibe nei ricordi lontani di un bambino che non vede più il padre fare ritorno a casa, la successiva “Cielo Blu” è un’immersione sonora nelle good vibration della summer of love e nei suoni della west coast con il protagonista che lascia la città alla ricerca di un approccio nuovo con la natura e l’esistenza. L’atmosfera da murder ballad di “Friuli ‘76” con il dramma del terremoto visto con gli occhi di un giovane, ci evoca le terribili immagini delle tante calamità naturali che hanno colpito negli anni il nostro paese. Ieri come oggi, è cambiato poco: le sofferenze ed il dolore sono rimasti gli stessi. “Berlino” con la sua atmosfera che rimanda alle pagine migliori di “Nebraska” ci porta negli anni Ottanta con un giovane che approda nella capitale tedesca alla ricerca di un lavoro, proprio come avevano fatto molti italiani prima di lui. Il dialogo tra mandolino e chitarre che accompagna “Alba Nuova” e le atmosfere irish folk di “Rinascimento” ci conducono a “Mozambico”, nella quale il protagonista è un medico che in Africa ha trovato il senso della sua vita e della sua professione. La solare “London” con il suo ritornello radiofonico guidato dalla fisarmonica ci conduce verso il finale in cui a spiccare sono “Bataclan” dedicata a Valeria Solesin scomparsa durante l’attentato nel celebre teatro parigino e l’epilogo per voce e chitarra “Abbi cura”, un congedo che suona come un invito ad aver cura di sé stessi e del mondo perché il futuro ci appartiene. C’è però ancora tempo per la splendida ballata “Basso Piave”, proposta come bonus track e che racchiude il senso di tutto il disco. Il Veneto è, infatti, il punto di partenza e di arrivo del disco, quasi a voler rimarcare il senso di una appartenenza profonda alla propria terra e alle proprie radici. “All’Italia” è, insomma, un disco di rara intensità e poesia che rappresenta certamente uno dei vertici del songwriting di Massimo Priviero.



Salvatore Esposito

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