Claudio Trotta, No Pasta No Show. I miei 40 anni di musica dal vivo in Italia, Electa Mondadori, Milano 2017, pp. 204, Euro 19,90

Claudio Trotta, è da quarant’anni organizzatore di concerti ed eventi per la sua Barley Arts Promotion. Il libro viene presentato in questi giorni con un lungo tour nelle librerie italiane, in appuntamenti che si trasformano in veri e propri piccoli eventi. L’abbiamo intervistato in occasione della data al Circolo dei Lettori di Torino.

Questa non è la classica biografia che racconta la vita in ordine cronologico, ma lo fai rievocando i momenti più interessanti che ti hanno visto coinvolto come organizzatore di concerti, e dici che tutto è iniziato con una telefonata. Come sei entrato nel mondo della musica live?
L’inizio è dovuto al fatto che ero un frequentatore di un negozio di dischi, quando i negozi di dischi erano tanti in Italia, e a Milano, dove ho passato la maggior parte della mia vita, e non erano solo delle rivendite di dischi, ma posti in cui si dialogava, si veniva consigliati, si scoprivano generi musicali e artisti che magari non si conoscevano. In uno di questi negozi, Il Discobolo di Via Vodice, bazzicava Massimo Bonelli, al tempo agente di vendita dei dischi della EMI e appassionato di rock. Massimo è stato uno di quelli che mi ha instradato verso il rock, mentre da Buscemi, altro negozio di dischi di Milano, c’era invece un addetto che mi ha instradato verso il jazz.
Ho avuto questo genere di fortuna, che molti oggi non hanno più, perché nella maggior parte dei negozi rimasti oggi, e soprattutto nei grandi store, non c’è più quell’attenzione verso il cliente. Massimo aveva un programma di rock a radio Monte Stella, una radio abbastanza atipica per l’epoca, essendo una radio commerciale, e un giorno mi chiama e mi propone di condurre un programma di musica italiana. Io avevo sedici anni, e in quegli anni le radio erano un miraggio per uno come me. All’epoca ero appassionato di rock americano, di country rock, Grace Slick, Jefferson Airplane, Grateful Dead, non ascoltavo per nulla la musica italiana, ma non ci ho pensato neanche un minuto, mi sono subito lanciato, ed ho iniziato così la mia attività nel mondo della musica. Da li poi è arrivata l’esperienza a Canale 96, di cui parlo lungamente nel libro, dove per tre anni e mezzo ho sperimentato tutto quello che potevo sperimentare, sia dal punto divista radiofonico che organizzativo. Ed ho organizzato così i miei primi concerti grazie a Giancarlo Soresina che li organizzava per la radio e che mi coinvolse. Da li ho incominciato, nel 1979, e poi per conto mio con Barley.

Dici che eri appassionato di rock, in realtà i primi concerti che ha organizzato, compreso un festival, erano dedicati alla musica folk, con nomi anche molto importanti...
In realtà il primo concerto che ho organizzato per Canale 96 era un concerto di jazz, con una band di Milano che si chiamava Basement Big Band, mentre il primo tour fu con una band di sole donne che faceva musica avantgarde, Feminist Improvising Group. Il primo tour organizzato per conto mio con Barley era dedicato alla musica country e folk perché oggettivamente ho iniziato con quell’area musica, e da il viene il nome Barley (uno degli elementi con cui si fanno alcune birre ed alcuni whiskey), ed il primo artista con cui ho lavorato, uno dei più grandi di tutta la storia della musica, e che è ancora nel mio cuore, è stato John Martin, artista scozzese di cui parlo lungamente nel libro. 

Da qui è partita la tua avventura con Barley Art, un’agenzia piuttosto particolare, con cui hai sempre cercato di inventare qualcosa di nuovo, qualcosa che in Italia almeno ancora non c’era. Siete stati i primi a proporre un festival blues come quello all’Arco della pace di Milano, con i nomi migliori in circolazione e completamente gratuito, i primi a portare in Italia l’idea del festival rock all’inglese con Sonoria, il primo festival metal italiano con il Monsters of Rock...  
Si, e aggiungerei anche i festival dedicati ad altre musiche, come per esempio quello dedicato alla musica balcanica, molto prima dell’esplosione del fenomeno Goran Bregovic. Questa è un po’ la mia caratteristica, ho sempre amato la sfida, cercare di presentare dei format, delle idee, degli artisti, della musica, che mi piacciono e che possano aiutare a stare meglio, perché alla fine, il senso del libro è quello. Noi cerchiamo di vivere meglio possibile, e cerchiamo di far stare meglio tutti quelli che vivono attorno a noi. Io ho scelto una strada, quella di organizzare concerti ed eventi, che mi mette in una corsia preferenziale, ho la possibilità di alimentare delle bellezze in cui io credo.

Il libro racconta la tua storia, però in tutti gli episodi che riporti non sei mai da solo, e i tuoi amici e collaboratori sonno sempre ben presenti e citati.
Il libro racconta una storia non solo mia, ma una storia corale, di persone anche sconosciute, facchini, tecnici del suono, e parlo per esempio di un episodio della mia giovinezza a me molto caro, in cui ho lavorato con uno spazzino spalando neve, e da cui ho imparato la cura dei dettagli e la dignità sul lavoro. Il libro non è agiografico, non voglio far credere di essere figo perché ho conosco personalmente Springsteen, Zappa, Guns n’ Roses, ACDC). Con questo libro cerco di trasmettere la passione, l’entusiasmo, l’amore per il lavoro, per la dignità e per la bellezza che ho da sempre e che avrò sempre.

E non nascondi anche i fallimenti che pure ci sono stati in questa carriera lunghissima e piena di successi, tipo alcuni musical o il Festival Sonoria, un cartellone bellissimo con pochissimo pubblico...
No, nascondere i fallimenti sarebbe stato molto ipocrita. Per quanto mi riguarda, una delle lezioni che ho capito nella vita e che non bisogna mai entusiasmarsi troppo quando le cose funzionano particolarmente bene, ma neanche deprimersi troppo o pensare di aver sbagliato tutto quando le cose non funzionano particolarmente bene. Nel libro ci sono delle appendici dove faccio delle chart con i dieci concerti che hanno incassato di più, ma anche quelli che hanno incassato di meno.

E hai messo anche la classifica dei dieci concerti a cui sei più legato.
Si, però sono quelli nel momento in cui ho scritto il libro. Io credo che la bellezza dello spettacolo dal vivo è proprio la sua dinamicità, la sua interazione con quello che noi siamo nella nostra essenza e con quello che siamo tutti i giorni, ed il giorno che partecipiamo ad un evento, e quello che poi ci rimane nella memoria. Questo è mutevole e cangiante, per fortuna, e quindi per giocare ho indicato i dieci eventi a cui sono più legato tra quelli che ho organizzato io, ma magari ne ho dimenticati altri, e fra qualche anno se ne aggiungeranno altri, o la mia memoria porterà al primo posto degli altri che non ho citato nel libro.

A proposito del Festival Blues di Milano, un festival con i nomi più importanti del genere ma completamente gratuito, o della rassegna Dieci giorni suonati al castello di Vigevano, un festival con nomi grandissimi ma a misura d’uomo, dove si poteva ascoltare musica live in un luogo bello e raccolto, questi erano eventi che si potevano mettere in piedi perché in qualche modo c’era l’aiuto degli Enti Pubblici. Oggi è ancora possibile convincere un Ente Pubblico ad investire in cultura?
Nel caso di Milano Blues festival, era interamente pagato dal Comune di Milano, e quindi abbiamo potuto sviluppare quel progetto grazie alle amministrazioni pubbliche di quegli anni. Nel caso di Dieci giorni suonati, il Comune di Vigevano, che aveva meno mezzi economici di quello di Milano, si è semplicemente occupato di farci avere il bellissimo castello senza spese, ed una piccola partecipazione alle spese organizzative locali. Devo dire che purtroppo ad un certo punto ho dovuto interrompere quel festival perché non c’erano i numeri che lo sostenevano, né aziende e sponsor ad alimentarlo. Io penso che oggi sia ancora possibile organizzare cose belle come queste, ma è evidente che ci vuole un’inversione di tendenza, maggior attenzione per la qualità e meno per la quantità, maggior attenzione per il territorio e per gli eventi piccoli di qualità e non solo peri grandi eventi, che io organizzo pure ben volentieri, vedi gli ACDC a Imola o Ligabue al primo Campo Volo, ma la musica non può essere solo quello.
La musica è principalmente altro, è contatto fisico, sudore, insegnamento, emulazione, sentire qualcuno che suona e tu quasi lo tocchi perché è a cinque metri da te. Adesso purtroppo c’è una deriva speculativa per cui ai fans, che sono i principali shareholders degli artisti, viene quasi impedito di poter stare vicino ai propri beniamini a meno che mettano mano al portafoglio in maniera estremamente impegnativa. Questo è particolarmente grave e sbagliato, ed in ultima analisi qualcosa che io credo farà male a tutta la filiera della musica e non solo a chi non potrà più accedere ai concerti perché non avrà più le risorse economiche per andarci.

Tra i tanti incontri bellissimi che racconti nel libro ce ne uno che in particolare mi ha colpito, e credo abbia colpito anche te, e non è un incontro con un musicista ma con un atleta, Muhammad Ali. 
E’ successo che io avevo un concerto con Bo Didley a Milano e Muhammad Ali era in città insieme a Gianni Minà, e in quel periodo avevo organizzato per lui un concerto contro l’embargo a Cuba. Gianni mi ha chiamato e mi ha detto che voleva venire a trovarmi con Muhammad Ali, ma il resto del racconto lo lasciamo scoprire a chi comprerà il libro.

Chiudi il libro dicendo che questi quarant’anni vissuti nella musica sono stati quarant’anni immersi nella bellezza. E’ stato davvero così?
Si, nel senso che l’attitudine che ho cercato di mettere nelle mie modalità di lavoro e nell’insegnarlo a tanti giovani che in questi quarant’anni hanno lavorato con me, e quello di fare delle cosse tenendo presente che siamo tutti esseri umani, e non ci sono esseri umani di serie a e di serie b,  fare delle cose etiche, che abbiano una sostenibilità, che no vedano la finanza al primo posto ma l’economia, che è un’altra cosa, fare delle cose di cui restare fieri, e non solamente più ricchi nel conto corrente. Questo è costato e costa tutt’ora molta fatica, soprattutto in un mondo che è molto omologato, e dominato da delle multinazionali che hanno pericolosamente mangiato troppe fette di tutta la filiera della musica, e andrebbero contrastate con discorsi e atteggiamenti ben diversi.

Stai presentando il libro con un lungo tour nelle librerie, e ad ogni appuntamento hai degli ospiti particolari  
Si, ho cercato di creare dei piccoli happenings. In ogni appuntamento c’è sempre un attore che recita dei brani del libro, un conduttore che interagisce e intervista sia me che gli ospiti, un artista locale giovane che suona dal vivo, e incerti casi anche altri ospiti. La logica è creare non solamente una semplice presentazione del libro, ma una piccola testimonianza di come attorno ad un libro si possa parlare, divertirsi, scherzare e ascoltare musica.



Claudio Trotta, No Pasta No Show. I miei 40 anni di musica dal vivo in Italia, Electa Mondadori, Milano 2017, pp. 204, Euro 19,90
Claudio Trotta è senza dubbio uno dei promoter e produttori italiani di spettacoli dal vivo tra i più importanti, e uno dei pochi che, rimanendo indipendente, è riuscito a inseguire il sogno di poter creare eventi, grandi o piccoli che fossero, tenendo sempre presente la qualità e l’innovatività della proposta, a costo a volte di rimetterci di tasca propria. In questa auto biografia Trotta ripercorre quarant’anni di lavoro, di concerti, di eventi organizzati da lui, dagli inizi a Canale 96 alla nascita di Barley Arts, la sua creatura, che ancora oggi dirige. Non è questa un’agiografia, l’autore non cade nel tranello di elencare gli eventi di successo o le amicizie personali con le grandi star. E’ invece un racconto fatto per immagini, per flashback che si susseguono, e costellato di incontri con persone, più che con personaggi. Nelle parole di Trotta, quello che emerge è sempre l’aspetto umano dell’artista, e non quello della star sul palco. Uno per tutti, lo Springsteen che dopo una cena sui navigli a Milano, sfugge alla vista dei commensali per girare da solo nella Milano notturna. Trotta non dimentica di citare uno ad uno gli amici con cui ha iniziato, chi lo ha introdotto nel mondo della musica, i suoi collaboratori, i colleghi, anche quelli con cui ci sono stati screzi, perché ognuno di loro ha contribuito a suo modo alla sua crescita umana e professionale, dallo spazzino con cui ha lavorato da ragazzo alle più grandi star internazionali.  Una carriera fatta non solo di successi economici, ma sempre con lo scopo primario di proporre eventi di qualità, molto spesso innovativi per il panorama live italiano. Dagli inizi con il festival folk alla Fortezza di Siena al Milano Blues festival, da Sonoria, primo tentativo di costruire in Italia un rock festival all’inglese, al Monsters of Rock, primo festival metal italiano. Senza dimenticare anche i tantissimi concerti di piccole e medie dimensioni, per portare in giro per l’Italia la musica di grandi artisti, a volte senza il giusto riscontro del pubblico. Percorrendo queste duecento pagine ci immergiamo in una storia avvincente, e nei suoi racconti si riconosceranno senz’altro i tanti lettori che in questi quarant’anni si sono trovati spesso sotto il palco di quegli stessi concerti che Trotta descrive dalla sua prospettiva.  Quella che emerge dalla lettura del libro, non è solo la storia di un ragazzino che ha realizzato il suo sogno, ma di un uomo che è riuscito a bilanciare passione e business, mantenendo sempre al primo posto la prima ma non dimenticando l’importanza del secondo, e questo libro si configura come una vera e propria dichiarazione d’amore per la musica, che Trotta spesso identifica con la parola Bellezza, descrivendo infine la sua vita con queste parole: “quarant’anni vissuti nella musica sono stati quarant’anni immersi nella bellezza”.        

Giorgio Zito
In collaborazione con RadioGold

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