Dreadzone – Dread Times (Dubwiser Records, 2017)

Il disco scelto per voi questa settimana si colloca al côtè opposto del progetto Inna de Yard presentato nello scorso numero, incentrato com’è, quest’ultimo, solo su voce, chitarra e percussioni nyabinghi, rigorosamente registrate in acustico. “Dread Times” è infatti l’album della lunga distanza del gruppo londinese, Dreadzone, noto per l’abilità (e il gusto) di strapazzare nei meandri dell’elettronica inglese ogni influenza che partendo dal reggae/dub, lambisce i confini del drum and bass e i breakbeat dell’UK garage fino alle incursioni ardite in zone a cavallo tra urban music (urban anche inteso sociologicamente come “metropolitano”) e ambientazioni chill-out. Si diceva della lunga distanza perché “Dread Times” arriva dopo quattro anni dal precedente, “Escapades” (2013), il disco designato a celebrare il ventennale di carriera del gruppo. Già, e qui, una piccola presentazione della band, per chi non é avvezzo a un certo tipo di sonorità, é d’obbligo. Nati nel 1993 da una costola dei Big Audio Dynamite – a sua volta gruppo spin-off dei Clash, fondato dall’(ex) chitarrista e cantante (di questi ultimi) Mick Jones assieme al fido Don Letts (che dei Clash è stato amico, consigliere, e compagno di mille merende, tutte documentate nel libro, “Punk & Dread. Quando la cultura giamaicana incontrò il punk”, Shake, 2015, scritto a quattro mani con David Nobakht) –, presero il nome Dreadzone su suggerimento di Letts: il gruppo nacque dall’incontro tra colui che al tempo era il batterista dei Big Audio Dynamite, Greg “Dread” Roberts, con Tim Bran, ingegnere del suono e collaboratore di Julian Cope. Negli anni i Dreadzone si aggiudicarono la stima di John Peel che li fece conoscere al grande pubblico radiofonico della BBC britannica. Oggi i Dreadzone sono una vera e propria istituzione della fusion elettronica inglese. “Dread Times”, registrato negli studi di Mick Jones, è il loro ottavo album pubblicato sulla loro etichetta Dubwiser (che tradotto letteralmente significa “i saggi del dub”), che assieme al loro nome, Dreadzone, serve a collocarli in un terreno incontestabilmente e incontrastabilmente combattente, antagonista, anti-convezionale. Ciò sia a voler considerare l’alto valore simbolico del termine “dread” nella cultura Rastafari (che si traduce nella pratica di farsi crescere le spettacolari e vistose capigliature intrecciate di dreadlocks) inteso come estremo rifiuto del sistema di Babylon/capitalismo/Occidente/dominazione coloniale/oppressione razziale), inestricabilmente correlato a ciò che W.E.B. Du Bois ha teorizzato come doppia-coscienza (degli schiavi trasportati e trapiantati in contesti diversi da quelli luogo d’origine, l’Africa), sia l’etimologia del termine “dubwiser” (secondo una consuetudine in voga nell’ambiente reggae il dubwise é un’appendice “drum” and “bass” di un brano che solo i musicisti più autorevoli potevano richiedere, che so’ del calibro di Sly And Robbie, durante le esibizioni live: non è questa la sede adatta per discettare sull’evoluzione di pratiche, come il dub, e consuetudini, come il dubwise, dovuta allo sviluppo tecnologico, che ha dato l’impulso a una gran fetta della musica elettronica moderna). Se poi ci aggiungiamo che a collaborare alla stesura delle liriche è, manco a dirlo, l’ultra-venerato Letts, il cui tocco ha puntualmente e parallelamente aggiunto o tolto qualcosa alla materia cui si è di volta in volta dedicato (dj, regista, scrittore), i conti quadrano. Tornando a “Dread Times”, è un disco che suona come la logica evoluzione di un culto sedimentato nei bassi roboanti e panciuti della sound system culture, cresciuta e amplificatasi nel fenomeno della club culture britannica orientata verso i bass groove massicci e tuonanti (chi li sente i puristi del dub analogico!). Va detto però: i Dreadzone percorrono sentieri già battuti, ma nonostante siano alle prese con linguaggi musicali codificati (dance, dancehall, breakbeat, ragga, house, chill-out e dub) lo fanno con un’attitudine capace di suonare “sperimentale” per i numerosi colpi di coda (si ascoltino in proposito “Music Army”, “Black Deus” o la conclusiva, delicata “After The Storm”), per il dinamismo e una certa calma tensione che caratterizza tutte le tracce, dalle intuizioni spesso poste lì, all’interno di uno stesso brano, (“Music Army” é un esempio anche in questo e “Black Deus” ha lo stesso mordente di un brano in stile punky reggae dei Clash) a fare la differenza. Si fanno apprezzare anche per i testi, che cantano di ribellione, oppressione, ingiustizia, sopravvivenza, solidarietà, ispirazione, di ‘radici’ (“Rootsman”), in pieno stile roots, e che decantano l’importanza di figure rappresentative dell’orgoglio nero come Martin Luther King citato nella pluri-menzionata “Black Deus” (Sappiamo attraverso esperienze dolorose che la liberà non è mai volontariamente concessa dall’oppressore ma che deve essere richiesta dagli oppressi). Temi e circostanze che sfortunatamente non passano mai di moda. Bello anche il singolo di lancio, “Mountain”, con gli echi di dub scomposti e una melodica fantasticamente estroversa. Uno di quei dischi che fa meditare, ballando. 


Grazia Rita Di Florio

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