Gianni Lamagna – Neapolitan Shakespeare (Europhone Records/Veloce Entertainment, 2015)

Will sotto il Vesuvio: in “Neapolitan Shakespeare”, Gianni Lamagna traduce in napoletano e musica diciassette sonetti del drammaturgo e poeta inglese.

La produzione poetica di William Shakespeare, pubblicata in-quarto nel 1609, comprende 154 sonetti. Per alcuni i sonetti rappresentano una testimonianza tangibile di carattere autobiografico, altri affermano che si tratta di un compiuto esercizio letterario su topoi della tradizione lirica. In realtà, siamo di fronte a un’opera in cui la vita vissuta e i fatti concreti diventano il punto di partenza per prodursi in una profonda meditazione sull’esistenza; versi in cui il privato si sublima in una visione dominata dal pensiero del ‘famelico’ tempo, della morte, della caducità delle illusioni e delle cose terrente, ma anche dalla memoria indelebile della poesia. Sono versi perfino misteriosi, che conservano un fascino inalterato a distanza di quattrocento anni. Il ciclo di sonetti shakespeariani è costruito quasi nella totalità su una versificazione in pentametri giambici, la misura è formata da tre strofe parallele a rime alternate, seguite da un distico finale a rima baciata. Seguono l’andamento di una riflessione tripartita che trova compimento nella conclusione epigrammatica. Intrecciando convenzioni retoriche, digressioni filosofiche e sentimenti, concetti classici e rinascimentali e immediatezza, Shakespeare ci lascia liriche di immensa grandezza, di sublime bellezza, di vocazione universalistica. A far parlare il bardo di Stratford-upon-Avon in napoletano, ci era cimentato Eduardo De Filippo nell’eccellente riadattamento de “La Tempesta” (1983). 
Oggi il compositore e cantante Gianni Lamagna ha affrontato un progetto ambizioso, e per niente facile, lavorando intensamente con Paolo Raffone (uno degli storici artefici del Neapolitan sound, qui in veste di autore, arrangiatore e concertatore), Giosi Cincotti, Piera Lombardi e Nico Arcieri per elaborare un programma di diciassette sonetti, con la supervisione per la lingua scritta di Raffaele Bracale.  Lamagna ha scelto i temi dell’amore (e dell’odio), dell’arte e dell’amicizia, cesellando i componimenti con un idioma che è quello di Basile e Di Giacomo, di Viviani e di Daniele, il registro poetico della canzone classica e la lingua della quotidianità contemporanea. Parte dell’avanguardia teatrale napoletana, a lungo con la compagnia di Roberto De Simone, già collaboratore del compositore e chitarrista Antonello Paliotti, oltre a portare avanti svariati progetti musicali e teatrali (pensiamo all’Ottocento canoro dei Cottrau o i repertori dei rituali natalizi e pasquali che porta in scena annualmente), Lamagna è oggi la principale voce maschile della Nuova Compagnia di Canto Popolare. In “Neapolitan Shakespeare” emerge una molteplice inflessione linguistica, la sonettistica shakespeariana indossa una composita veste musicale, in cui Lamagna trasferisce il proprio portato artistico e i propri gusti, passando dal Settecento napoletano alla musica tradizionale, dal country alla tradizione bandistica, dalla musica popolare brasiliana agli umori beatlesiani, da Pergolesi al prog.  L’album è prodotto dall'associazione "di musica in musica", fondata dallo stesso Lamagna, che oltre a valorizzare il patrimonio sonoro napoletano, vuole ricercare nuovi talenti, soprattutto nelle aree del disagio minorile. Con lo stesso Gianni Lamagna entriamo nel mondo di “Neapolitan Shakespeare”.

Non è la prima volta che si traduce in napoletano Shakespeare, ma mettere mano alla poetica dei sonetti non è impresa agevole. Ci racconti le fasi di questo progetto sicuramente laborioso e impegnativo?
Lungo e affascinante, più di quattro anni. Spinto da una, chiamiamola sfida, lanciatami da Tonio Logoluso, amico attore e regista, nonché direttore del teatro Don Luigi Sturzo di Bisceglie. Ho iniziato con le traduzioni, ma non di tutti, e sono partito proprio dal sonetto 17. Contemporaneamente cercavo anche di comporre le musiche, e la cosa non è stata semplice. Troppe volte sono tornato su una parola, un’espressione, una nota, un ritornello. Alla fine, almeno per le musiche, ho dovuto chiedere aiuto.  Mi hanno soccorso Giosi Cincotti nel sonetto 64, Nico Arcieri nel 91, Piera Lombardi nel 90, che ha pure cantato. Poi c’è Paolo Raffone che ha musicato il sonetto 141. Con Raffone siamo stati più di un anno fianco a fianco. Sono suoi i bellissimi arrangiamenti di tutto l’album, suo è il merito di aver dato lustro alla parte musicale del progetto. La difficoltà di comporre 13 nuove melodie la si può immaginare: non scrivo canzoni da sempre, ho iniziato il giorno in cui compivo 50 anni, nel 2004, ma non è stata così complicata come quella delle traduzioni in napoletano. 

Come hai lavorato per quanto riguarda la misura e  lo sviluppo del componimento shakesperiano?
Quasi per tutti i sonetti sono riuscito a ‘fermarmi’ nella struttura originaria delle tre quartine col distico finale. Per molti ho fatto i salti mortali, troppo diverso il napoletano dall’inglese, due ‘lunghezze’, ma ce l’ho fatta. Mi piaceva che fossero anche visivamente inquadrati come nell’originale. Dove proprio non è stato possibile qualche quartina ha perso un rigo per strada diventando terzina, ma non potevo fare altrimenti. Dovevano essere anche canzoni, e il rispetto per le due lingue non poteva penalizzare nessuna delle due. 

Perché ne hai scelti diciassette?  Non sarà per invertire di senso la scaramanzia partenopea?
Tutta la mia vita ruota da sempre intorno a questo numero. Sono nato il 17 ottobre, e molto spesso coincidenze e fatti piacevoli hanno come protagonista questo numero. Quindi, dovendo pensare ad un numero di sonetti che fossero contenuti in un cd sono andato diretto e convinto sul 17. E non è la prima volta che un mio album contiene un numero simile di brani.

Che forma e registro del napoletano hai utilizzato? 
C’era da scegliere uno stile, una parlata, parole che avrebbero dovuto poi suonare, ho scelto di tradurre con il napoletano che parlo ed ho sempre parlato, che contempla Basile e Di Giacomo, Viviani e Bovio, De Simone e Moscato, ma soprattutto Lamagna: la mia lingua, il mio tempo, il mio vicolo, la voce di madre, quella delle zie che vivevano in provincia. 
Quella di un suono e di certe parole che sono scomparse e quella che imparo ogni giorno dalle voci delle ragazze e dei ragazzi della Napoli che frequento, e che parla per la maggior parte solo in napoletano.

Prima parlavi della musica e di chi ha curato gli arrangiamenti. Un forte impegno creativo è stato proprio il cucire la veste musicale, dove si colgono differenti riferimenti e culture musicali: qui come hai proceduto?
Le musiche sono state la mia libertà in note, potevo divertirmi a far cantare il Bardo in tanti modi, ricorrere a buona parte della musica che ho ascoltato, cantato, studiato, e così è stato. Ci sono, nei diciassette sonetti, le passioni musicali della vita, non tutte, ma buona parte, e sono tutte citate con voluta evidenza. Se il 17 suona come una country ballad, il 136 ammicca ai Beatles, se il 27 ‘cita’ Pergolesi e il suo tempo, il 111 rimanda un po’ al funky, il 76 reinventa un barocco molto napoletano, nel 3 c’è il ricordo della banda, nel 29 i suoni tipici della tradizione celtica, nel 91 il ritmo e la scansione della tarantella. In pratica, mi sono mosso nei campi che, più o meno, ho percorso nella mia carriera, e scelto un ‘sarto’ di prim’ordine come Paolo Raffone che con i suoi arrangiamenti ha collocato la mia voce in una scrittura musicale che mi ha fatto vibrare e commuovere diverse volte.

Nel “Sonetto 111” interviene il coro Mamme di Sisina, con cui collabori da anni e rappresentato un altro aspetto del tuo lavoro di artista che agisce sul territorio e sul disagio sociale. Ce ne vuoi parlare?
Il lavoro con le Mamme di Sisina è tra le più grandi esperienze umane che mi sia capitata. Sono ritornato a lavorare nel mio quartiere di nascita, la Sanità, avamposto di molti disagi, dal lavoro al malaffare, ma pure di tanta grande dignità, laboriosità, voglia di riscatto e cura per la parte bella delle tante cose importanti che custodisce. Ho iniziato nelle 1996 con il Coro delle bambine del Progetto Oasi, e da circa dieci anni mi dedico a buona parte delle loro mamme, con altre donne che si sono aggiunte, all’attività di coro. Un percorso molto importante per chi nell’adolescenza è stata costretta a lasciare la scuola per vari motivi, e che adesso, anche attraverso il canto, prova a recuperare quel tempo che le fu sottratto. 
Naturalmente il progetto non è finalizzato solo all’aspetto musicale e corale, ma con lo studio dei testi del repertorio che scegliamo insieme si aprono tante strade di incontro, a volte di scontro, che danno stimoli ad entrambi e opportunità di crescita in un dibattito costruttivo anche al di fuori dell’attività musicale. Tutte le volte che ho possibilità di coinvolgere le Mamme di Sisina nei miei lavori non mi lascio scappare l’opportunità, così come è accaduto anche per “Neapolitan Shakespeare”.

Il progetto ha ormai un anno di vita concertistica e discografica, come si è tradotto nella dimensione live e con quali riscontri?
Molti consensi positivi, specialmente dal mondo accademico e da quello della scuola, incontri nelle università, una menzione speciale al Premio Elsa Morante, il premio Masaniello, pochi giorni fa l’incontro con gli studenti del dipartimento di lingua e letteratura inglese dell’Università della Calabria. Ad esser sincero l’interesse ‘letterario’ che la traduzione in napoletano dei sonetti ha ricevuto è superiore a quello per il live che, come per tutte le cose non ‘commerciali’, quelle che non passano in radio e televisione, non hanno spinte giornalistiche, non sono intrise di folclore e ovvietà, trovano sempre difficoltà. 
Tra l’altro per il concerto siamo in nove in scena, più i tecnici, ed ha i suoi costi. Tutto nella norma, però, tutto in regola, era così anche al tempo di Shakespeare e nel sonetto 66, quello che chiude l’album e anche il live, è tutto scritto. Purtroppo c’è l’amarezza della constatazione che niente cambia, ma se l’ha vissuta il Bardo posso continuare a viverla io, sperando che qualcosa si metta in moto. Intanto, continuare a progettare e a creare, senza mai fermarsi, augurandosi di tradire il meno possibile gli impegni presi con se stesso.

A parte l’impegno con la NCCP dal vivo, cosa altro ha in programma Gianni Lamagna?
Continuo nella mia ricerca e nella riproposta di canzoni del repertorio napoletano dimenticate o quasi mai eseguite, lavoro a un testo teatrale che mi vedrà impegnato come attore, e a un repertorio musicale molto, ma molto ‘antico’. Una sorta di purificazione per anima e corpo.



Gianni Lamagna – Neapolitan Shakespeare (Europhone Records/Veloce Entertainment, 2015)
#CONSIGLIATOBLOGFOOLK

Un ensemble formato dalle voci di Gianni Lamagna, Piera Lombardi, Alessio Arena e le Mamme di Sisina, e dagli strumentisti Arcangelo Michele Caso (violoncello), Alessandro de Carolis (flauti), Gianluca Falasca (violino), Giosi Cincotti (pianoforte), Michele de Martino (mandolino), Paolo Propoli (chitarre), Vincenzo Lamagna (contrabbasso), Mario Ciro Sorrentino (tromba e trombino barocco), Luigi Petronne (clarinetto) e Cira Romano (arpa) porta i meravigliosi, immortali versi del drammaturgo e poeta inglese nel golfo di Napoli. Nel declinarli in rime napoletane, Lamagna esibisce una libertà di scrittura e un’autonomia creativa, che mette in debito conto le tante musiche ascoltate, assimilate e suonate con passione. È una sostanza sonora di pregio, che rifugge la leziosità, che sfrutta pienamente le possibilità offerte da una lingua come il napoletano, che sul piano fonetico si presta benissimo all’incontro con la lingua inglese. Si apre con «Niente resiste a ‘sti rrime/ Manco ‘o marmo d’‘e statue e dd’ e palazze ‘ e prìncipe»: è “‘o cinquantacinche” – e non poteva essere altrimenti, poiché il numero corrisponde alla ‘musica’ nella Smorfia – con il suo fortunato incrocio di corde (chitarra, violino, violoncello e contrabbasso). Ci spostiamo in ambito barocco napoletano (bello l’inserimento del trombino barocco di tromba di Sorrentino) con “‘o sittantasei”, in cui si cantano amore e poesia. Nei sonetti che seguono Si parla di arti, prima la musica, nel “128”: «Oj musica, musica mia/ quanno tuocche chille taste/ Ca sonano sotto ‘e ddete toje/E liggera accarizzr chelli ccorde ca me portano luntane…»,  poi il mondo degli attori in “‘o vintitre”, dove spiccano i flauti di Alessandro de Carolis. La ricchezza di soluzioni si ritrova nell’insuperato “Sonetto 18”: «Shall I compare thee to a summer day?» diventa «T'aggi'a penzà comm' a gghiuorno d'età?». Ne “’o cientotrentasei” i passaggi melodici e armonici si infondono di umori beatlesiani creando un’atmosfera davvero incantevole. Poi si cambia registro, “’o dicessette” è una ballata impregnata di spunti country. La voce della cilentana Piera Lombardi (anche autrice delle musiche con Tonino Valletta) entra nel “Sonetto 90”. L’arpa è in primo piano in “’o vintinove”, brano che ammicca al mondo sonoro irlandese, mentre nel “91” trionfa il ritmo della tarantella per opera di Nico Arcieri. Il maestro Paolo Raffone ha composto ‘o cientoquarantuno”, contraddistinto dal timbro cristallino del mandolino suonato da Michele De Martino. Un altro celebre capolavoro shakepeariano è il Sonetto 116, che diventa “‘o cientessidice”: qui Lamagna si esibisce in un affiatato duetto con il figlio Alessio Arena. Se “’o tre” si apre alla tradizione bandistica, in “’o sissantaquattro” è il pianoforte di Giosi Cincotti (autore della musica) a dare corpo alla partitura. Invece, ritorniamo all’ ambientazione settecentesca partenopea con “’o vintisette”. Il coro della Mamme di Sisina impone la sua presenza vocale tra le aperture funky – à la Claudio Mattone – di “’o cienteùnnice” . Epilogo intriso di disillusione ne “’o sissantasei”, che rinnova i motivi espressi nel soliloquio di Amleto, e che a distanza di quattro secoli scuote ancora noi contemporanei. Qui si rivela ancora la superba traduzione di Lamagna, che riprende appieno il potere della parola del bardo: «E ll’arte affucata e ‘ncatenata ‘a ll’autorità». “Neapolitan Shakespeare” è un originale omaggio all’arte eterna, trasposta in una lingua di grande tradizione musicale e letteraria, che sa raccontare tanto il passato quanto il nostro tempo. 


Ciro De Rosa

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