Ciatuzza – Vurria Vulari (Radici Music Records/Goodfellas, 2016)

L’immenso patrimonio della tradizione musicale siciliana conserva ancora un corpus di canti del tutto inesplorato, e rappresentato dalle sillogi che ne raccolgono i testi, pubblicate nell’Ottocento, da diversi etnografi come Lionardo Vigo, Serafino Amabile Guastella, Salvatore Salomone Marino, e Corrado Avolio, a cui si aggiunge l’opera di Alberto Favara pubblicata postuma nel 1957 e che ne riporta anche le melodie. Alla riscoperta ed alla divulgazione di questo prezioso repertorio si è dedicata da diversi anni Giada Salerno, in arte Ciatuzza, la quale ha dato vita ad un rigoroso percorso di ricerca volto a dare nuova vita a questi canti popolari, focalizzando la sua attenzione a quelli legati all’universo femminile. Sebbene il lavoro si sia svolto su un numero limitato di fonti, particolarmente nutrita è stata la quantità di canti raccolti, di cui sono autrici proprio le donne che erano solite eseguirli durante il lavoro al telaio, ai lavatoi o nei campi, senza dimenticare la forte presenza di canti d’amore e ninnenanne. Si tratta di un repertorio destinato all’oblio e che Ciatuzza ha riportato in vita, curando con grande perizia compositiva la riscritture delle melodie laddove mancante. Dopo aver debuttato nel 2012 con il pregevole “Tant’amuri r’unni veni. Canti d’amore, di dolore e di speranza del popolo in Sicilia”, che raccoglieva i primi frutti della sua attività di ricerca, Ciatuzza ha dato di recente alle stampe il suo secondo album “Vurria Vulari”, nel quale ha raccolto diciannove brani in larga parte tradizionali con l’aggiunta di tre composizioni a firma di Francesco Giuffrida, già al suo fianco nel doppio successo al Premio Giovanna Daffini nel 2013 con “L’Amanti miu” e nel 2014 nella sezione cantastorie con “Unni si’”. Laddove l’attenzione è focalizzata ancora al repertorio di canti al femminile, rispetto all’esordio, questo nuovo album presenta un sound più elegante e forse meno aspro che esalta l’intensa poesia di cui sono pervasi i testi scelti, ed in questo senso fondamentale appare il lavoro di Denis Stern (chitarra) che ha curato gli arrangiamenti, così come quello di Giorgio Maltese al tamburello, castagnette, marranzano, mandolino, azzarinu, e Fulvio Farkas al darbuka nel costruire le trame ritmiche. Dividendosi tra la sua chitarra ed il canto, Ciatuzza ci porta indietro nel tempo svelandoci le diverse stratificazioni della memoria collettiva che pervadono il canto popolare siciliano, sospeso tra il dolore e la speranza in un futuro migliore. Desiderio, nostalgia, rabbia, rimpianto, sono questi i sentimenti che pervadono questi canti le cui voci che li interpretavano aspiravano ad una condizione diversa da quella vissuta ogni giorno. E’ il caso, ad esempio, dell’iniziale “Oh Diu! Ca fussi ocieddu ca vulassi” in cui una giovane donna vorrebbe trasformarsi in un uccello per volare nei campi ad aiutare il suo amato, o della seguente “E chi spartenza amara” in cui un emigrante desidera avere le ali per poter tornare dalla sua amaata”, o ancora della struggente “Vurria Vulari” in cui una donna vorrebbe sfuggire al marito desiderosa di vita e di amore. Durante l’ascolto non mancano canti d’amore come la splendida “L’amante miu” che in parallelo racconta delle dure condizioni di lavoro delle miniere di Zolfo in Sicilia, canti di protesta come “Sti cappidduzza nun pozzu suffriri”, in cui vengono denunciate le molestie ai danni delle giovani contadine da parte dei padroni, o spaccati di denuncia contro la mafia come nel caso di “Petri”, ispirato a un racconto di Danilo Dolci e dedicata al sindacalista Placido Rizzotto e “Unni Sì”, in cui voce narrante è Felicia Bartolotta, madre di Peppino Impastato, entrambe su testo di Francesco Giuffrida. A firma di quest’ultimo è poi anche il vertice del disco “Pane Crisci” che raccoglie le formule di invocazione ai santi necessarie a far lievitare e cuocere bene il pane, ancora in uso in Sicilia fino a qualche decennio fa. “Vurria Vulari” è, dunque, un lavoro pregevole tanto dal punto di vista artistico quando da quello prettamente etnomusicale, salvando dall’oblio un repertorio di rara intensità poetica. 


Salvatore Esposito

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