Carlo Muratori – Sale (Le Fate Editore, 2016)

Precipitato di canzoni impregnate di memorie salmastre e sapienza poetica siciliana, è il nuovo CD-book del cantautore siracusano

La storia artistica di Carlo Muratori passa per la fase revivalistica con i Cilliri, a metà degli anni Settanta, tracciata nel segno di Antonino Uccello e di Nino Trommino, ma anche di quanto era accaduto anni prima a Napoli sotto l’egida di Roberto De Simone. Lavoro di ricerca, ma anche di riscrittura musicale creativa. Di quel periodo qui ricordiamo Turì nun parrò”, la splendida riflessione di ispirazione sciasciana, “Lasciatasi alle spalle l’esperienza per una certa misura affine a quella seminale dei conterranei Taberna Mylaensis, Muratori sceglie di percorrere la trama autorale che lo conduce a una personale reinvenzione della canzone popolare, subito battezzata in “Afrodite” (1987). In quella direzione vanno “Canti e incanti” (1994), “Stella Maris” (1996) e “Plica polonica” (2001), splendidi affreschi di Sicilia che non hanno avuto la fortuna della deandreana “Creuza de mä”, pur possedendo altrettanta forza narrativa e musicale. Con “Stidda di l'Orienti” (1997) e “Pesah” (1999) Muratori lavora in equilibrio tra omaggio e riscrittura della grande tradizione rituale, rispettivamente il Natale e il Venerdì Santo, mentre lo ‘specchio delle meraviglie’ mediterraneo è l’orizzonte artistico e sonoro della collaborazione con Riccardo Tesi in “Thapsos” (1997), straordinario disco del toscano. In veste di ideatore e direttore artistico ha portato avanti nel suo territorio il festival Lithos, per lungo tempo uno dei significativi appuntamenti cultural-musicali isolani. In seguito, Muratori rilegge con successo pagine ‘inaudite’ di canzone siciliana d’autore, ‘canzuneddi’ semi-colte, denigrate e vituperate; se ne assume il rischio, si diverte pacificandosi l’anima, e ne offre versioni cantautorali morbide e convincenti per sei corde e voce in “Sicily” (2005). Con la sua profondità poetica e musicale, “La padrona del giardino (2008), caposaldo della nuova canzone popolare, si afferma al Premio Nazionale Città di Loano per la Musica Tradizionale Italiana nel 2009. 
A distanza di sette anni, ora è la volta di “Sale”, poesia e musica assieme: scrittura potente di chi, come appunto Muratori, è capace – scrive Maurizio Agamennone  nel volumetto “Sale. Carlo Muratori: intervista esclusiva” (Le Fate editore), che contiene contributi di Michele Burgio, Roberto Sacchi e Gianluca Grossi), uscito in contemporanea con il CD-book – di «un’impresa […] davvero ardimentosa: l’uso del dialetto o vernacolo per comporre canzoni intese come testi (versi e musica) pienamente espressivi e autonomi, che non siamo tributari di altri riferimenti esterni o “nobilitanti”: storie cantate, di sé, dell’oggi, in un teatro degli affetti personale o in un paesaggio sociale appena più esteso, intonate nella “lingua materna”». “Sale” è un «esercizio di sinestesia», scrive oltre Gianluca Grossi, «si ascolta qualcosa, ma allo stesso tempo si vede, si assapora, si respira; la terra di Sicilia, le piante di limone, gli scritti di Verga, i cartaginesi, i greci, i fenici». “Sale” contiene pagine emozionanti di Storia e di storie, è racconto di una Sicilia che è metafora di una complessiva condizione esistenziale; disco di memorie plurali, di un Mediterraneo inteso come cultura della diversità e d’intrecci, ma è disco che non abusa degli stereotipi sonori etnici né si prefigge una lettura della tradizione di segno passatista. Piuttosto, “Sale” è una partitura in quindici canzoni dalla poetica profonda, che mescolano con ricercatezza italiano e dialetto, esprimono un’orchestrazione non riducibile all’etnico, sono raffinate e dinamiche. Non da ultimo, sono canzoni suonate in compagnia di amici fidati: tutti grandi musicisti, strumentisti di composita provenienza; un lavoro che è anche un pugno di immagini e di scritti di Muratori (“Prologo” e “Pizzichi di sale”), oltre ad una bustina di «sale e la sapienza di Sicilia», che si aggiungono ai testi, ne rivelano genesi ed intenti. L’autore siracusano ci parla di “Sale”.

Sono passati sette anni da “La padrona del giardino”, come nasce un disco come “Sale”, che presenta una notevole diversità nell’ambientazione sonora?
È stato un progetto su cui ho lavorato per diversi anni e che si è insaporito e ‘insapidito’ strada facendo. Ho iniziato a scriverlo nel 2011, quando per i centocinquant’anni dell’Unità, mi sono dedicato a una ricerca sul Risorgimento al Sud e in Sicilia: le speranze, le illusioni, le menzogne e le sopraffazioni di una annessione che non ha nulla  a che vedere con la mitica storia  d’Italia che ci raccontano a scuola. Alla fine avevo già pronti una decina di brani, si poteva pubblicare un bel progettino. Ma non ero convinto di uscire con quel lavoro e quel tema; c’era troppo affollamento di proposte artistiche e musicali in quel periodo: aggiungere pure la mia voce mi sembrava ridondante. Mi serviva qualcos’altro, un tratto metaforico e metafisico, uno scatto in più (o in meno?) che mi garantisse il necessario distacco dall'evento politico e sociale su cui mi ero centrato. In pratica avevo bisogno ancora di tempo per un volo di ricognizione più globale, uno sguardo a un tempo più lucido, laico e spirituale. Ho coinvolto Stefano Melone, con cui abbiamo cominciato a riflettere sui brani; mi ha fornito l’apporto cameristico che stavo cercando, con una scrittura agile ed evocativa del quartetto d’archi, ma anche una certa spinta sulla sezione ritmica che, guidata al solito dalle mie chitarre, riuscisse ad incastrarsi bene con le soluzioni armoniche e melodiche dei brani. È stato così che pian pianino abbiamo cominciato a capire che disco volevamo. Rispetto a “La padrona” questo è un disco più complesso pur rimanendo ‘piano’, senza eccessivi spigoli, ricco di più livelli di ascolto.

Scrivi che “Sale” contiene: «canzoni che si muovono su due piani di diversa granulometria: sale fino e sale grosso».  Vuoi approfondire questa simbologia? 
Come dicevo, in ogni brano credo ci sia la possibilità di arrivare a diversi livelli di lettura: una fatta di istinto, materia, rabbia, un’altra più sottile, che tende verso l’alto, verso una ricerca del sacro. C’è la storia che incombe politicamente e socialmente sul destino degli uomini e il loro futuro. La quotidianità spesso pesante e grossolana, preda di istinti irrazionali, timori, rabbie e violenze. C'è poi il sentimento alto e raffinato, gli amori, la preghiera. Il cloruro contenuto dentro le lacrime di gioia o di dolore, raffinato dal tempo con la sua sacralità e suoi misteri. La classe popolare ha avuto dimestichezza con questa sapienza arcaica, l’ha praticata e custodita per secoli. Ha stabilito un rapporto con il tempo e la natura, fatto di attese, di rispetto, di essenza, di amore e di pazienza. Il collegamento col sale arriva a partire dal senso esoterico e apotropaico di questo elemento. Il sale è ciò che rimane del flutto marino, è la sua anima invisibile eppure così pregnante. Ma è anche ciò che troviamo centinaia di metri sotto le nostre case, come si può vedere nelle tante miniere di salgemma di cui è piena l'Isola. Il video di “D'amor e di pazienza” è stato girato proprio nella miniera di Realmonte (AG) a 200 metri di profondità. Mi è sembrata la giusta metafora per rappresentare l’essenziale del pensiero umano. I greci chiamavano il mare con quattro termini differenti, in relazione ai vari concetti legati alle distanze e alle profondità. Ma se dovevano rappresentare il mare nella sua essenza materiale lo chiamavano ἅλς che vuol dire sale, per l’appunto.

Sale come simbolo del Mediterraneo… ‘specchio di meraviglie’, di connessioni e intrecci antichi di terre e uomini. Mare di speranze di vita protese verso la terra, ma anche acqua… che accoglie la morte.  
Il Mediterraneo è un territorio di acqua e terra, gente e culture che da circa seimila anni affronta dinamicamente, quotidianamente, sempre le stesse problematiche esistenziali ed umane; cerniera di razze, tradizioni e costumi fra i più contrastanti, eppure così simili, questo bacino non sta mai fermo. È un luogo forse unico sul pianeta, dove lo stesso concetto di transito e di contaminazione, di scambio e di inclusione, di mutazione nella tradizione ha valore concreto e tangibile. E questo vale in buona parte per la Sicilia, ma non in quanto e non solo perché isola, ma in quanto centrale in questo Mare. La Gran Bretagna dimostra proprio in questi giorni che, pur essendo un’isola ricca, si è fatta schiacciare inesorabilmente da un sentimento di chiusura, di paura e claustrofilia. Il nostro è un territorio invece claustrofobico, che teme il chiuso, come il buio, come il lutto. Noi lasciamo sempre uno spiraglio aperto, adattandoci e ri-adattandoci. “Caliti juncu ca passa la china” (“Piegati giunco finché passi la piena”), ma anche “Cu havi chiù sali conza ‘a minestra” chi ha più sale si adoperi anche per aiutare l’altro, per offrire una minestra all’altro. Basta pensare a Lampedusa o a Pozzallo o a Siracusa. Ed è paradossale che questa enorme generosità appartenga ad un popolo che ha avuto più sale ma meno minestre, più saperi ma meno poteri, più speranze ma meno certezze. Ieri come sempre.

La tua vocalità fa a meno di eccessive marche ‘etniche’, ma non è ridotta la tua insularità. Che dici di questa scelta estetica?  
Non amo rappresentare ciò che non sono. Non appartengo alla tradizione canora dei carrettieri o dei mietitori. Mi appassiona tantissimo la loro cultura e il loro sapere; ho imparato tantissimo dalla tradizione popolare e politicamente sono sul loro versante; ma sono figlio di Brassens e di De André, di Tenco e di Bindi. Ho studiato musica classica e amo Sor e Villa Lobos. Non riesco a pensarmi urlante. Porto la voce pensando più alla corte di Federico II e la Scuola poetica siciliana, che all’aia o a un campo di grano.

Le lezioni di Antonino Uccello e Ignazio Buttitta. Cosa lasciano oggi all’arte della Sicilia? 
Sono stati i miei punti di riferimento. Gli incontri che hanno orientato la mia vita e le mie scelte artistiche. Così diversi, così fondamentali. Uccello, professore di periferia, innamorato della sua terra, che, trasferitosi in provincia di Milano negli anni sessanta, inizia a confrontarsi con la ricerca della musica e delle tradizioni popolari. Lo fa già con i canti popolari  brianzoli, ma poi, a quella distanza dalla Sicilia, o forse proprio per questo, comincia a pensare al suo ritorno nell’Isola e una sua Casa Museo, dove poter tutelare le vestigia di una tradizione secolare di oggetti, manufatti e beni immateriali del popolo che altrimenti avrebbero rischiato l’oblio. Lo incontro a metà degli anni Settanta con il mio primo gruppo di canto popolare I Cìlliri, e quasi litighiamo immediatamente. Cerca di farmi capire con la sua eleganza ma fermezza, che non si può ri-elaborare in chiave moderna, e a fini di divulgazione commerciale, un repertorio che nasce proprio per motivi opposti alla mercificazione. Non si può ricercare a tutti i costi il gradimento di un pubblico, che cerca il suo vano trastullo domenicale, ignorando i fondamentali di certa musica, la sua vocalità, l’assenza di certa strumentazione, certa lentezza e certi intervalli complessi. Fu allora che capii come la mia urgenza di compositore e di cantautore dovevano liberarsi dalle marche etniche – come le hai definite – per trovare una strada originale e personale. I documenti della tradizione sono un’altra cosa e vanno trattati con massimo rispetto e responsabilità. Buttitta l’ho conosciuto fine anni Ottanta. Ho scritto le musiche (e fui pure il protagonista per qualche anno) della sua opera teatrale “Colapesce”. Siamo stati molto vicini per qualche mese. Festeggiamo il compleanno lo stesso giorno e questo ci fece legare e ridere a crepapelle. La sua poesia è ciò che stavo cercando. Potermi esprimere dentro il mio tempo, poter raccontare il mio vivere contemporaneo, usando un lessico che trasudasse storia e civiltà antica e letteraria. Ignazio ha creato il suo dialetto siciliano, i suoi neologismi improntati a uno stile unico e quasi tattile (li mangiapicca, i mangia poco…li dorminterra, quelli che dormono a terra….li facci a tridenti, le facce come un tridente)

Ci sono personaggi ancora da scoprire nelle pieghe della storia di Sicilia?  
Sto già lavorando al seguito di “Sale”, che immagino come una trilogia. Non posso dirvi il titolo, ma posso solo rivelare come, ogni giorno, mi stia imbattendo in storie veramente pazzesche. C’è una coltre di polvere sopra tanti fatti e misfatti che meritano una luce e un racconto adeguato. C’è un’antica modestia, un senso di nobile umiltà, nelle classi di origine popolare. Loro non credono, spesso non hanno coscienza, del valore umano, letterario, poetico e civile di ciò che è loro successo o di cui sono venuti a conoscenza. Alcune cose te le raccontano quasi sbadatamente, e bisogna fare molta attenzione a soffermarsi su autentiche perle di storia popolare. Mi auguro solo di possedere la giusta penna per raccontarle.

Mi piace soffermarmi sulla magnifica figura di proto-femminista che è stata Mariannina Coffa, autrice sconosciuto al grande pubblico, di cui riprendi uno scritto in “Ombra Adorata”.
Ho musicato un sonetto di questa poetessa netina, donna siciliana vissuta nella seconda metà dell’Ottocento. Tra un canto e una storia del Risorgimento in Sicilia ho appreso del suo impegno sociale e politico per un’Italia libera e unita, ma mi sono anche commosso per le sue sofferenze d’amore: lei sposa di un uomo che non amava e che le ostacolava il suo bisogno di cultura. Ha sfidato la famiglia, la società e le convenzioni sociali con tutta l’energia della sua gracile e sofferente persona per far valere il suo diritto all’amore e alla conoscenza. Abbandonato il marito, Nina ritorna vivere a Noto, ignorata e ripudiata dalla sua stessa famiglia. Non ha mai rivisto il suo vero amore, cui ha dedicato tutti i suoi componimenti. Nina è una luminosa rappresentazione di femminilità mediterranea, lontana anni luce da stereotipi e pregiudizi.

Cosa significa per te ‘parlare e sentire in dialetto’?  
C’è una lingua della festa e una per tutti i giorni. Una lingua formale, da giacca e cravatta, e poi c’è jeans e maglietta, c’è la gente, la libertà d’esprimersi come meglio si crede. Bufalino sosteneva che l’arzigogolare tipico dell’intellettuale del Sud Italia è la conseguenza del suo dover tradurre il proprio pensiero dialettale in una lingua che non conosce, che non padroneggia e che quindi elabora in forme desuete e spesso esagerate, troppo letterarie. So benissimo quel che voleva dire perché è quello che sta avvenendo a me in questo momento. Al Sud, almeno fino alla mia generazione, non usiamo un italiano di fluente conversazione. Quando dobbiamo passare in modalità nazionale cambiamo tono ed espressione, diventiamo bilingue. La forma dialettale ci salva spesso dall’impasse o dal blocco espressivo. Detto ciò, però, va da sé che per alcuni brani preferisco usare l’italiano. Il disco è quasi al cinquanta per cento fra i brani in dialetto e quelli in lingua. La lingua siciliana la uso se ho bisogno di sintesi, della parola sonora, che da sola acchiappa un intero concetto, un’espressione.

Nella tua versificazione, che posto occupa la phonè?  
È un aspetto a cui cerco di dedicare molto tempo e molta attenzione. La parola cantata è necessariamente vincolata al suo suono. Ma c’è di più. Spesso mi lascio guidare proprio dalla phonè per comporre una melodia. Mi muovo a piccoli passi scrivendo solo due misure melodiche su cui scrivo un paio di versi; le parole che vengono fuori mi suggeriscono altre due misure e così via. Raramente scrivo tutto un brano musicale e poi il testo, o viceversa. Procedo quasi simmetricamente, al punto anche da rinunciare alla quadratura musicale. Se lo richiede la parola, pur avendo qualche sillaba fuori posto, non rinuncio a quella sillaba; creo piuttosto delle misure multimetriche, esco fuori tempo, per capirci. Quando si ascolta una registrazione sul campo di un antico canto popolare e si tenta di rifarlo, spesso si è tentati di quadrarlo, di riportarlo al tempo principale che percepiamo, in due o in tre. Ho imparato proprio da questi ascolti come è molto più divertente lasciare i tempi eccedenti o mancanti, creando strutture metriche originalissime.

Rileggi “Povira patria” di Battiato...
Il brano dava il titolo al concerto che preparai nel 2011 per la ricorrenza dell’Unità. Avevo chiesto a Franco la possibilità di tradurre ed eseguire in lingua siciliana il suo testo. Lui al solito fu molto disponibile e contento, oltre che curioso di ascoltarne l’esito. In quello spettacolo, oltre a raccontare la Sicilia pre-risorgimentale, le sommosse antiborboniche del 1848, lo sbarco dei Mille, i fatti di Bronte e tutto ciò che ne seguì, mi spingevo fino quasi ai giorni nostri, all’eccidio di Capaci, alla strage Falcone e Borsellino, quasi a voler rappresentare l’alfa e l’omega di uno stato che nasceva male per ridursi ancora peggio, soprattutto per ciò che riguardava l’annosa questione meridionale. Ricordavo che Franco proprio qualche anno prima di Capaci aveva scritto quel brano fantastico e che poi, dopo la barbarie mafiosa, lo aveva dedicato ideologicamente a quegli avvenimenti. Mi sembrava il canto dolente per eccellenza per chiudere il mio racconto. Battiato fu molto contento della traduzione, al punto di promettermi che qualora l’avessi mai incisa avrebbe voluto partecipare alla registrazione. Battiato oltre ad essere un grande artista è uomo di parola! E così è stato. E non solo: qualche mese fa mi ha invitato ad aprire i suoi concerti con Alice davanti a teatri completamente sold out.

Il tuo raccontare la Sicilia diventa metafora della complessiva condizione umana… 
In una profetica intervista a Marcelle Padovani del 1979 dal titolo “Sicilia come metafora” Leonardo Sciascia afferma: «La realtà tende a diventare ovunque mafiosa e la “linea della palma” risale dall’Africa verso l’Europa di 50 centimetri l’anno. Guai alle conseguenze!». Dobbiamo all’acuto pensiero dell’intellettuale di Racalmuto questa visione della Sicilia quasi come rappresentazione globale di un’epoca più che di un territorio. Molto più modestamente in questo mio disco, ma anche negli altri miei lavori per la verità, tendo a liberarmi da una sicilianità soffocante e maniacale, per cercare di raccontare il mio tempo, ritrovandolo in contesti anche extra insulari. Racconto di attese e di infinite aspettative mai pienamente soddisfatte. Basti pensare che il primo titolo che s’era pensato per il lavoro era “L’Avvento” quasi a voler rappresentare questa paralisi totale del pensiero e dell’azione che coinvolge tutti noi al momento attuale. Tutti fermi come in un presepe in attesa che brilli in cielo un segno, una stella cometa ad indicarci una nuova nascita, l’incarnazione di un futuro Bambino ancora in fasce, portatore di certezze, benessere e stabilità. Il brano “Gloria a mia” racconta proprio di questa visione. Parlo e canto di amore e di pazienza, di saline annegate nel petrolio, di lacrime e di silenzi, dell’eterna lotta per controllare la metaforica via salaria, la strada su cui si muove la ricchezza e che chiunque vuole possedere per dominare sull’altro. Parlo di migranti e di mari che si aprono al passaggio degli esseri umani. Questi temi non credo siano patrimonio esclusivo della mia terra. Interrogano ognuno di noi e quindi concordo: Sicilia come metafora.

Nel disco c’è un nutrito gruppo di collaboratori e ospiti: anche nella loro scelta si avverte il non volersi richiudere nel recinto etnico.  
Ma lo sai che ho qualche difficoltà a considerarmi un artista dell’area etnica? Certo in un’ Italietta dai facili schemi e dalle etichette da appiccicare frettolosamente su qualsiasi scatoletta musicale, capisco che quella magari è la dicitura più immediata. Ma devo confessare che il mio approccio compositivo della materia musicale e poetica (e questo è il limite ma forse anche il pregio) ha pochissimo a che vedere con la grande e illustre esperienza folk collettiva italiana. Io mi muovo, piuttosto, su una concezione creativa più individuale e fortemente controllata. La mia composizione prevede una partitura complessiva e una per ogni strumento. Ogni nota, ogni canto è già scritto su pentagramma. Ad eccezione dell’intervento di alcuni grandi solisti, come potrebbero essere Daniele Sepe e il suo sax su “Mutu”, o Mario Arcari ai fiati su “Gloria a mia”, Elisa Nocita e la sua voce su “L’esodo”, interventi eccellenti che sono lasciati alla libera interpretazione dei solisti, per il resto considero la mia un’‘opera’ musicale, come un'opera teatrale con il suo copione, in cui la pre-produzione è già il prodotto finale, dalle note, alla dinamica, alla agogica. 

Hai partecipato al disco di Peppe Voltarelli sul repertorio di Otello Profazio? Quale consapevolezza deriva dall’ascolto di questo cantore del Sud?
Peppe mi parlò tempo fa dell’idea che aveva di confrontarsi con il repertorio di Profazio. Abbiamo scambiato tante idee e suggestioni, cercando spunti e modelli ispirativi anche dal mio lavoro sui traditional siciliani che ho pubblicato nel 2003 con il titolo “Sicily”. Ci piaceva l’idea di lavorare al minimo, solo la sua voce e le corde delle mie chitarre, intessendo nuove strutture armoniche e ritmiche a dei brani che mostravano l’esigenza di un qualche trattamento “colto”. Con mia grande sorpresa mi sono ritrovato a scoprire aspetti assolutamente sorprendenti in quei brani che mostravano sì i segni del tempo, ma che esibivano anche tanta irriverenza e anticonformismo dal renderli modernissimi. Abbiamo lavorato tanto, a distanza e nel mio studio fra gli aranci e alla fine siamo molto soddisfatti. Spero che anche Otello ci perdoni.


Carlo Muratori – Sale (Le Fate Editore, 2016)
Di Carlo Muratori e del suo elegante attraversamento della canzone d’autore e delle fonti orali, non si può che dire bene. Chi lo segue da anni, ne apprezza la coerenza di scrittura, le melodie incastonate in arrangiamenti garbati, su cui si staglia la voce del leader, che non va mai sopra le righe e sa essere intensa senza fronzoli, da porlo al riparo da manierismi folk, avvicinandolo ai grandi autori della musica popolare brasiliana. Non fanno eccezione le quindici canzoni di “Sale”, disco prodotto da Stefano Melone (già accanto a De André e Fossati), aperto dall’autoconsapevolezza cantata in “Gloria a mia”, in cui brillano l’elemento lirico e bandistico (la Banda di Melilli) giustapposti alla tessitura cantautorale e grave di Muratori e ai fiati del grande Mario Arcari. Un frammento di un motivo dei salinari fa da incipit a “Il mare sopra i tetti”, canto-incanto dalla brillante orchestrazione, segnato dai guizzi dei fiati popolari dell’ottimo Carmelo Salemi. Il messaggio di riscatto e di cambiamento custodito nella bottiglia e affidato al mare («messaggio a una donna, alla terra, al tempo e a quella frenesia che gli brucia dentro», commenta Muratori) è l’immagine tratteggiata in “D’Amor e di pazienza”, uno dei capisaldi del disco. La memoria dell’infanzia che si nutre di sensi è raccontata nell’incedere latineggiante, in cui spiccano corde chitarre cristalline, di “Jancu e finiòsa”, vale a dire «Bianco e fino», come nel richiamo cantilenante di un venditore di sale itinerante. Invece, una fisarmonica (è quella di Francesco Calì) accompagna l’andamento mutevole della splendida “Raggi d’argento”. Mentre spariscono le saline (siamo nell’estate del 1953), il sale si muta in pianto… È la storia di quanto accade in un quartiere popolare di Siracusa, presso la casa di due giovani, lui disoccupato, lei casalinga incinta. Nella loro camera da letto, un quadretto di gesso raffigurante la Madonna inizia a lacrimare. Lacrime che all’analisi scientifica pare risultino vere, umane e… salate. Lacrime che – scrive Carlo – «cadendo sulla terra ci riportano su, in un cielo gravido di mistero e luminose profezie». C’è, poi, “Povira Patria”, il grido accorato di Battiato, ripresa liberamente da Muratori in siciliano, con lo stesso compositore etneo che interviene nel brano, riletto in maniera minimale per chitarra, tastiera ed elettronica. “Ombra adorata” è il sofferto e potente sonetto della poetessa mazziniana Mariannina Coffa. Tra colori funky (è il sax affilato di Daniele Sepe) e vocalità prossima al rap si sviluppa “Mutu”, che ci riporta all’intimazione di “Turi nun parrò”: ma non è un invito all’omertà. Un’altra magnifica canzone d’autore è “Scurri Lu Tempu”. Ritorna lo sguardo sulla storia civile e politica della Sicilia con “E Sugnu ‘Talianu”, incontro canoro con il calabrese-migrante Peppe Voltarelli. “Chi dici Nico’” si apre con un estratto dal film “Bronte” di Florestano Vancini, testimonianza di un Risorgimento tradito nell’eccidio perpetrato da Nino Bixio e dai garibaldini a Bronte (CT). Nella pellicola Ivo Garrani dà voce al discorso che l’avvocato Nicolò Lombardo pronunciò prima di essere giustiziato con Nunzio Frajunco, lo scemo del paese; il cunto di Muratori ricostruisce questo eccidio dimenticato del 1860 a protezione degli accordi con gli inglesi. La baldanzosa “Vinni cu vinni” deriva da un testo tradizionale raccolto da Antonino Uccello, dove Anibardo (Garibaldi) assume le sembianze di Michele, l’arcangelo liberatore. Brillano l’arpa di Laura Vinciguerra e la voce di Elisa Nocita in “L’esodo”, il brano che chiude l’album, evocazione della tragedia dei viaggi della speranza attraverso il Mediterraneo.


Ciro De Rosa

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