Speciale Dodicilune: Sergio Armaroli Axis Quartet, Antonella Chionna, Sospensiva, Forthyto, Mux

Sergio Armaroli Axis Quartet - Vacancy in the Park (Dodicilune/I.R.D., 2015)
“Vacancy in the Park” è un’onda fluida che scorre lungo tutte le dieci tracce di cui è composto l’album. L’atmosfera è pacatamente limpida, anche se il tratto più riconoscibile è probabilmente la varietà, che si configura attraverso passaggi multiformi che riconducono l’album a una scrittura comprensibile, leggibile, e allo stesso tempo straniante. Sul piano timbrico la formazione definisce uno spazio tutto palpabile, grazie innanzitutto al vibrafono di Armaroli (l’autore di tutti i brani tranne “Looking across Jeu De Robin” di Francesca Gemmo), che accentua e enfatizza tutti gli altri strumenti (i sax di Claudio Guida, il contrabbasso di Marcello Testa e la batteria di Nicola Stranieri), a volte ampliandone lo spettro armonico, altre quello ritmico. Un buon esempio è “Buffons”, tra i brani più interessanti in scaletta. Si tratta di una specie di apparizione che rimbalza tra suoni nascosti e battiti sovrapposti, denotando forse un paradigma: l’attenzione certosina - per quanto “naturale”, cioè priva di formalismi, strascichi superflui, riluttanze - al dialogo e, in generale, allo sviluppo di frasi melodiche e ritmiche composte, complesse ma “esatte”. In alcuni passaggi e dopo un prologo in cui vibrafono e sax si chiamano a vicenda, si configura il profilo della frase in unisono, fino a una stupenda sospensione. Nella quale i due strumenti si incardinano l’uno a l’altro in poche note sincopate, lasciando a contrabbasso e batteria di scorrere in un sottofondo più libero e veloce. L’inclusione di sax e vibrafono dentro lo stesso quadro melodico è adottata anche in altri brani e sopratutto nella title track, che fin dal prologo annuncia una linea melodica più aperta e brillante. Oltre a quelli citati, tra i brani più interessanti sono da segnalare “Prelude to”, “Ze-zazou” e “Fiocco di neve”.

Antonella Chionna with Andrea Musci - Halfway to Dawn (Sing A Song Of Strayhorn) (Dodicilune/I.R.D., 2015)
Album dalla doppia valenza artistica e documentaria (se così si può dire). Artistica perché le tredici tracce di cui è composto “Halfway to Dawn” sono strizzate in una sintesi audace e del tutto convincente: voce (“voci” sarebbe più appropriato: voci cantate, suonate, percosse, accennate, sovrapposte) e chitarra (anch’essa stirata in tutte le direzioni: nel ritmo, nel timbro, nelle costruzioni melodiche), che si avvolgono dentro una gamma sonora avvincente, che non lascia desiderare altro. La valenza documentaria va ovviamente legata alla figura di Billy Strayhorn, compositore, musicista e arrangiatore a lungo legato a Duke Ellington e alla sua orchestra, di cui è stato il direttore. Del repertorio di Strayhorn il duo - che prende forma nelle aule del Conservatorio di Musica "Nino Rota" di Monopoli, come ci ricorda la stessa Chionna dal suo sito nelle note che presentano l’album - interpreta alcune delle articolazioni più interessanti: dalla profondità alla varietà, dal lirismo fino anche alla cantabilità (“Duke Ellington’s Sund of Love” e sopratutto brani più descrittivi e allo stesso tempo “aperti”, elastici, come “Satin Doll/Take the ‘A’ Train”). D’altronde, come prevede una specie di protocollo implicito, la riduzione a due strumenti porta con sé - oltre alla competenza tecnica e al coraggio di sperimentare - una visione coerente e, allo tesso tempo, una capacità di lavorare al contrario. Che in questo caso significa partire da una forma data e tradizionale per arrivare a costituirne un’altra, più espansa e meno “esemplare”, pur legata ai riflessi (più o meno visibili) dell’originale. Gli elementi esecutivi ci sono tutti, per quanto si riscontrano solo a un ascolto attento. E possiamo ricondurli - nel breve spazio che qui abbiamo - all’attenzione che gli autori hanno riposto nella scomposizione e nella narrativa. Cioè nel racconto che si sviluppa da ogni brano e dalle immagini a cui rimanda, nella sovrapposizione tra l’interpretazione e la matrice. Tra i brani più rappresentativi di questo processo vi sono senza dubbio “Could Blood/Blood Count”, “A flore is a Lovesome Thing” e “Chelsea Bridge”.

Sospensiva - L’insostenibile leggerezza dell’estasi (Dodicilune/I.R.D., 2016)
“L’insostenibile leggerezza dell’estasi” è un album raffinato e profondo, in cui la voce di Paola Arnesano traina un quartetto composto da Gabriele Mirabassi al clarinetto, Alessandro Galati al piano e rhodes, Attilo Zanchi al contrabbasso e Walter Paoli alla batteria. Siamo in un ambito jazzistico, dal quale emergono alcune tracce di estemporaneità. Ma, sopratutto in alcuni brani come “L’araba fenice” o “Jody”, sembra più evidente una forma più strutturata, legata innanzitutto al canto e alla scrittura. La differenza di impianto si può leggere in “Chorinando”, posto fra i due prima citati, come un intermezzo musicale, più breve e veloce, nel quale il clarinetto orienta la fuga di tutti gli altri strumenti e la voce ne segue alcune dinamiche. Tra questi due poli c’è un brano come “Cubicq”, il quarto in scaletta. È molto rappresentativo della varietà che contraddistingue l’album, perché lo si può considerare come una narrazione sospesa tra una canzone cantata e una canzone suonata improvvisando. Le fughe degli strumenti si asciugano nella voce che, alternativamente agli interventi solistici di piano, clarinetto e contrabbasso, riesce a ordinare il brano in una forma temporaneamente quadrata, pacata. Inutile dire che ogni contributo dei cinque musicisti coinvolti è sorprendente. Meno scontato è probabilmente il tono che non solo la splendida voce di Arnesano, ma sopratutto i contenuti (“l’estasi è insostenibile” e “è leggera, è di cera, plasma con sé dal profondo di una giusta vanità”) riescono a dare all’impianto generale dell’album. Che si arricchisce di un insieme di sfumature più profonde, che ampliano lo spettro dei riferimenti e i riflessi dei dieci brani in scaletta. In questo senso la title track è un piccolo manifesto di stile.

Forthyto - Radio Interferenze (Dodicilune/I.R.D., 2015)
Vito Quaranta (chitarre, elettronica e voce) guida un trio formato da Giorgio Vendola (contrabbasso) e Mimmo campanile (batteria), per questo album espanso ed evocativo, dal suono denso e intimo, che a partire dal titolo “Radio interferenze” ci informa su un insieme di sovrapposizioni, di incontri e scontri, di divergenze e connessioni. Al trio si aggiungono in alcuni brani Antonello Salis all’organetto, Luca Aquino al flicorno e Arup Kanti Das alle tabla, definendo un ambito sonoro e timbrico più articolato, con trame larghe e una piacevole tensione, determinata spesso dai contrappunti tra strumenti come la chitarra e i fiati. Ognuno dei dodici brani in scaletta (tutti arrangiati da Quaranta) rappresenta un passo verso una nuova collocazione di piccoli standard jazzistici. È il caso, ad esempio, di “Prism”, un brano di Keith Jarrett, riscritto da Quaranta - che ha aggiunto e cantato un testo - con l’intervento determinante di Salis. Il tono che l’organetto riesce a dare all’esecuzione è straordinario e straniante. Sopratutto perché sembra scontrarsi - anche se a ben vedere si sviluppa in un quadro coerente e comprensibile - con la linearità del canto sorretto dalla chitarra, che si apre a soluzioni più melodiche e tradizionali. Gli intermezzi di Salis strappano e sospendono il flusso, prima con una serie di frasi melodiche più pacate e cantabili, che poi saltano su un piano più surreale, trascinando contrabbasso e batteria. Chi ama i suoni della chitarra potrà apprezzare “The cure”, un breve segno in solo posto più o meno a metà dell’album. A questo segue “Lucignolo”, uno dei brani più cantabili dell’album: ha un andamento brillante, guidato dall’organetto, le cui frasi sono in molte parti sostenute in unisono dalla voce. Il brano, che si attesta su una linea coerente e piena, racchiude anche alcuni sprazzi di estemporaneità, nei quali emerge la chitarra. Il finale è una bella sorpresa e sopratutto un’ottima introduzione al brano che segue, nel quale la chitarra è più sciolta ed evocativa. Da segnalare, per la qualità delle esecuzioni, il tributo a Pat Metheny con “Last train Home”. 

Mux - Viale Redi Blues (Dodicilune/I.R.D., 2015)
La title track dell’album è posta quasi alla fine della scaletta. È un brano corrugato e disteso allo tesso tempo, cupo e brillante, nel quale - specie all’inizio - si fronteggiano una chitarra molto tagliente (vagamente tex) e un vibrafono che sembra voglia ridare aria e ampliare la prospettiva. La chitarra (suonata da Francesco Canavese) è straordinaria lungo tutto il brano: è sopratutto acida e in piena contrapposizione con il sax, che stavolta interviene ad addensare uno spettro sonoro elettrizzato e asfissiato da una tensione straordinaria. Mux è un sestetto composto da voce (Gaia Mattiuzzi), vibrafono (Pasquale Mirra), sax alto, clarinetto, flauto (Achille Succi), chitarra (Francesco Canavese), contrabbasso (Filippo Pedol) e batteria (Stefano Rapicavoli). Ed è interessante anche per questa sua narrativa divergente, per niente scontata e piena di passione anti retorica. L’album “Viale Redi Blues” è il risultato di una selezione di brani di varia natura - tra i quali compare una straordinaria e trasfigurata “Amara terra mia” di Domenico Modugno - e si configura come un racconto profondo, ricco di atmosfere cupe e fosche (piovose), dove si insiste molto sui dettagli e si sviluppa ogni piccola parte. Uno dei brani più significativi in questo senso può essere “No more my lawd”: sembra un testo scritto, o una parte di film, di cui si immaginano anche i particolari che non si raccontano o che non si vedono. Anche se l’ambito sonoro non è del tutto calzante, la visione entro cui si inquadra ricorda quella di Tom Waits in “What's He Building?”, dove più che vedere si sbircia, più che sentire si immagina. E dove la tensione implode senza soluzione di continuità, senza poter sperare di liberarcene. 



Daniele Cestellini

Posta un commento

Nuova Vecchia