Capitan Capitone e i Fratelli della Costa (FullHeads/Audioglobe, 2016)

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Lo avevamo lasciato in veste di didatta a svelare il jazz a suon di sassofono e di parole semplici in “A Note Spiegate”, dove si metteva l’accento sulle storie dei suonatori e dei compositori, sull’emotività dell’animo umano e della naturalezza della musica, piuttosto che esaltare l’esoterismo di chi guarda alla musica di origine afro-americana come un qualcosa comprensibile da pochi eletti radical chic. Da ineffabile magister, lo troviamo nei panni di filibustiere. Dovendo scegliersi un alter-ego, non poteva trovare di meglio il compositore e trickster napoletano, abile nel mettere in moto imprevedibili cambiamenti nelle sue storie musicali. Daniele Sepe è diventato Capitan Capitone, bucaniere che si aggira al largo di Procida più che della Tortuga, sfoderando il suo sax. In copertina è raffigurato accanto ad una botte piena di rhum (una volta): non è quello di Caracas ma del bar di Peppe, naturalmente, mentre un capitone si allunga, magari un po’ impaurito dal ghigno del comandante e l’immancabile pappagallo verde è adagiato sulla spalla sinistra. Insomma, un cocktail iconografico rigorosamente alcolico, che fa reagire il baffo spiovente del salgariano Janez e il filibustiere Black Sam e il pirata Rock Brasiliano, mentre il nume tutelare Frank Zappa dà la sua benedizione. O, ancora, è un Long John Silver (ma con tutte e due le gambe e il fiato da fiatista e polemista inesauribile), ma si alimenta pure dello spirito di Ulisse, che superate le colonne d’Ercole si ritrova immerso nelle cadenze delle musiche del mondo, però viste da una prospettiva ancorata nel Golfo, all’ombra del Vesuvio. 
Come da tradizione della filibusta, il capitano è eletto dalla ciurma, che qui è costituita – più o meno – da sessanta canaglie, scelte tra la meglio gioventù (ma ci sono anche i veterani), musicalmente meticcia, che si aggira da Bagnoli alla Sanità, da Scampia ai Quartieri Spagnoli, passando per ‘ncoppa ‘o Vomero. Ecco l’elenco, quasi completo, dei famigerati complici di quest’operazione: Foja, La Maschera, ‘O Rom, Tartaglia Aneuro, Aldolà Chivalà, Mario Insenga & Hadacol Special, La Contrabbanda di Luciano Russo, Claudio Gnut, Maurizio Capone, Alessio Sollo, Nero Nelson, Sara Sossia Squeglia, Flo, Auli Kokko, Piermacchiè, Gino Fastidio e altri accoliti: un’onda ‘anomala’ di artisti, pronti ad afferrare gli strumenti per assaltare i galeoni dei luoghi comuni musicali, con irriverenza e goliardia, resistenza che non rinuncia alla tenerezza, facendo uso spudorato di canzoni e di melodie ora dolci ora imprevedibili, di certo mai accomodanti. Se in altre operazioni – pensiamo alle gesta della Brigata Internazionale – Sepe sembrava tenere saldamente il timone musicale, e la sua impronta di direttore era bella in evidenza, qui la temeraria avventura si è realizzata tutta come operazione collettiva di musicisti autoconvocati, tra studio e gommone con tanto di Jolly Roger (‘o Capitone, per l’appunto), tra Miseno e il centro storico di Napoli, dove in una jam democratica hanno perso forma storie, personaggi, melodie, svolazzi, riff e comparsate (le interiezioni di Gragnaniello in presa diretta). Così è nato Capitan Capitone e i Fratelli della Costa, su etichetta FullHeads, distribuito da Audioglobe, sovvenzionato con il crowfunding (scegliendo tra le varie opzioni: un libretto con foto e testi, la t-shirt o altri gadget rigorosamente balneari, ça va sans dire. Siamo andati a trovare il capitano nel suo covo urbano, tra Port’Alba e Spaccanapoli, seduti a un tavolo di un bar, ci siamo fatti narrare le gesta di questi masnadieri delle sette note ai tempi di Spotify da uno che da sempre è attento a ciò che gira intorno.

Te sì fatt ‘a barca?
So’ diéce anne ‘ca teng… (ride).

Com’è nata l’idea di realizzare il progetto “Capitan Capitone e i Fratelli della Costa”?
Daniele Sepe - Il disco è nato in modo casuale perché ho cominciato a frequentare un locale qui a Napoli, il Cabaret Port’Alba, dove spesso suonavano Gnut e Dario Sansone che proponevano un progetto che si chiama “Tirabusciò”. Essendo questo posto non molto distante da casa mia, spesso mi capitava di andarci dopo aver mangiato, e piano piano ho cominciato ad apprezzare quella scena cantautorale nuova che ha preso vita qui a Napoli. Si tratta di giovani che sono cresciuti con le canzoni di Pino Daniele, ma non sono suoi coetanei, quindi a differenza di artisti della mia generazione non ne hanno subito la diretta influenza come me o Gragnaniello.  Ho cominciato ad ascoltare cose interessanti, ma al di là della musica è nata una bella amicizia. Poco tempo dopo Mimmo Mignano mi ha chiamato per fare un concerto a sostegno della Cassa di Resistenza e a quel punto ho lanciato un appello su Facebook al quale mi hanno risposto loro, questi ragazzi come Tartaglia, Dario Sansone, Gnut, mentre tutti quelli che erano i dinosauri della mia età o tutti quelli dell’ambiente jazz o para jazz non se ne sono fregati un cazzo. Questo vuol dire che non è si è connessi con quello che succede nel territorio, non si è connessi a quello che succede nella nostra città, e ciò è un fatto da biasimare assolutamente. Gli unici sono stati gli Slivovitz, ma anche in quel caso perché alla base c’è un rapporto personale molto forte. Da lì all’idea di realizzare un disco insieme il passaggio è stato molto breve, proprio perché non c’è stata solo una affinità di tipo musicale. Tutto questo è tremila volte meglio di quando si fanno i dischi mettendo gli ospiti per cercare di vendere qualche copia in più. Questa è una cosa molto jazzistica, e per renderlo appetibile al pubblico chiami Flavio Boltro alla tromba. In ambito world questa cosa è diventata ridicola. Mi ha sempre intristito vedere che in un disco bisogna infilarci un ospite a tutti i costi. 

Un’ispirazione importante è arrivata dal mare…
Daniele Sepe - Il mare è il filo conduttore del disco, perché è lì che è nato. Spesso ci capitava di trascorrere intere giornate sul gommone tutti insieme, qualcuno portava l’ukulele, qualcun’altro la chitarra, suonavamo e cantavamo di tutto, perfino le canzoni di Gigi D’Alessio. Stavamo là semplicemente a divertirci, a sbarià, e sono venute fuori delle belle idee. Mentre stavamo sul gommone, chiamavamo Dario Sansone, che lavora per la società di Luciano Stella che produce cartoni animati come “L’arte della Felicità”, per fargli sentire qualche cosa che veniva fuori, poi scrivevo qualcosa o gli dicevo pensa ad un brano su questa o quella storia, e lui cantava l’inizio di una strofa in modo molto casuale. Per esempio un brano come “Spritz e Rivoluzione” è nato dalla mia idea di descrivere quello che succede ogni sera fuori al bar di Peppe, volevo descrivere la tipologia di maschi che frequentano questi posti. Ci siamo messi là, e sul momento è nata la musica insieme alle parole in modo molto cantautorale. Ognuno metteva una strofa. C’eravamo io, Tartaglia, Nelson, Sara “Sossia” Squeglia, Alessio Sollo, ognuno dava il suo contributo al testo. L’unione fa la forza, del resto la musica popolare è proprio questo. Un canto nasce da un singolo che inventa una strofa, un ritornello, una tammurriata, una serenata che poi di generazione in generazione si limano, si affinano con il contributo di ognuno, e ne giro di cento anni viene fuori un gioiello. Certo non è più il prodotto di una singola persona, ma il prodotto di una conoscenza poetica collettiva. Se si studiano bene le canzoni di Ernesto Murolo o E.A. Mario si trovano riferimenti popolari di cento, duecento anni prima, che hanno una forza enorme, perché sono il frutto di un lavoro collettivo. Alla fine ho detto ai ragazzi: “dopo l’estate, appena metto in rimessaggio il gommone, registriamo il disco”. Infatti poi ho preso la sala per dieci giorni, ma senza avere nulla di pronto, abbiamo lavorato là in dieci, venti, non so quanti…

Come avete approcciato il lavoro di arrangiamento dei vari brani?
Daniele Sepe – Gli arrangiamenti in larga parte riflettono il contenuto del testo, cioè la parte musicale segue quello che succede nel testo. Prendiamo per esempio “Penelope”, quando parla di Ulisse evoca l’atmosfera di un brano della tradizione greca, ma poi diventa un calipso per portarci in Giamaica. Se ascolti “Spriz e rivoluzione” è ovvio che doveva avere quella leggerezza del funky ballabile di una volta. Il disco si è messo in piedi da solo come accade nei miracoli. Non siamo stati là a programmare ora facciamo questo, ora facciamo quello. Del resto doveva essere così, perché con un lavoro collettivo non si può avere una direzione precisa, perché un altro con una idea migliore della tua e si cambia.

“Capitan Capitone e i Fratelli della Costa” arriva ventitré anni dopo “Vite Perdite” e certamente è un disco diverso. Quali sono le affinità e le differenze tra questi due album nati, per altro, in due momenti storici differenti…
Daniele Sepe – Sono due dischi giustamente diversi perché è cambiata la società, è cambiata Napoli. “Vite Perdite” è stato registrato nel 1990, anche se è uscito nel 1991, e chiudeva la fase dell’onda lunga che arrivava dagli anni Sessanta, dal Settanta. Era un disco militante come si poteva esserlo nel 1990, era l’ultimo rigurgito di quel modo di fare musica in maniera politica, di quell’idea di fare world music, termine che ho sempre schifato ma inteso come musica “terrestre”. Dal 1990 ad oggi abbiamo vissuto solo la merda, perché abbiamo completamente rimosso tutta quella che è stata l’esperienza degli anni Settanta, e la militanza vista in una certa maniera. Gli anni Novanta sono stati gli anni dei Centri Sociali, c’era il Leoncavallo che era l’ultimo baluardo di quella che era stata l’esperienza del 1968 e del 1977, e pensare che oggi fa musica tecno, e tecno house. “Capitan Capitone e i Fratelli della Costa” fotografa, al contrario, l’inizio di una fase in cui la politica comincia ad essere fatta in maniera diversa.
Per me la politica vuol dire andare all’OPG e vedere come lavorano i ragazzi che hanno una visione diversa e con cui sono in contrasto, ma con cui bisogna confrontarsi. E’ una fase musicalmente nuova, perché c’è una generazione nuova che comincia a fare musica che appunto è post-beat e che vive una città completamente diversa da quella di Pino Daniele negl’anni Settanta. E’ vero che io sono ormai anziano, ma anche i 99 Posse sono anziani, così come gli Almamegretta, siamo un’altra generazione. Questo disco fotografa quello che potrebbe essere, tra qualche anno, un nuovo movimento artistico napoletano.

La goliardia in “Capitan Capitone” ha preso il posto della militanza, o è semplicemente vestita di panni diversi…
Daniele Sepe – Anche “Suonarne Uno per Educarne Cento” era un disco politico ma aveva un taglio goliardico. Ricordate “o’ megl attore chi è? E’ Gian Maria Volontè”. Io ed Andrea abbiamo certamente una visione politica differente, perché il mondo di vedere la militanza delle nuove generazioni è diverso da quello che avevo io. Lui non ha letto il “Compendio del Capitale” di Marx, non è un marxista, ma per lui conta ad esempio l’aspetto ecologico. So benissimo che se loro avessero bisogno di un aiuto in questo senso, io dovrei andare là ed insegnarglielo proprio come ho fatto con qualche accordo di settima + in questo disco. 

Uno dei successi immediati del disco è stata “Le Range Fellon”…
Daniele Sepe – E’ un brano del repertorio di Andrea Tartaglia, e spesso quando suonavamo insieme, anche in contesti jazz, ci capitava di suonarlo, spesso con un testo improvvisato e quasi rap, al quale a parte l’inciso si può adattare qualsiasi contesto musicale. Per la versione in studio l’idea di partenza era quella di “Bongo Bong” di Manu Chao, un brano costruito su due accordi, e così abbiamo cercato di mantenere quella leggerezza con l’uso di strumenti come il flauto dolce, l’ukulele, che riportano alla musica fatta per i bambini. Ci sono tantissime persone che mi scrivono e.mail da quando faccio dischi, per dirmi che i loro bambini impazziscono per i miei brani. Non so quanti genitori mi hanno detto che “Peixinhos do mar” piaceva tantissimo ai loro figli. “Le Range Fellon” l’ho sempre vista come una canzone per bambini più che per adulti, volevo che si divertissero nell’ascoltarla. Sapere che c’è un bambino di cinque o sei anni che apprezza un brano mio mi dà molta più soddisfazione di ricevere i complimenti di un professore di conservatorio che ha trovato una interessante citazione di Stravinsky in un pezzo mio con Shaone.

L’inciso rimanda a certe ballate piratesche…
Daniele Sepe – Il disco è tutto piratesco, perché ogni volta che abbiamo fatto i cori eravamo in venti a cantare e non come succede di solito che vengono costruiti con le voci doppiate. C’era questa atmosfere molto goliardica. Siamo ottanta in questo disco ed è ovvio che viene fuori quella potenza. Anche in “Penelope” e nella “Ballata del Capitone” siamo almeno una decina a cantare…

“Le Range Fellon” affronta temi diversi dall’ecologia al concetto di fratellanza, fino alla sete di denaro…
Daniele Sepe – Spesso mi trovo a confrontarmi con i ragazzi su questi temi. E’ successo che anche in spiaggia si aprisse una discussione di questo tipo. C’è uno scambio continuo con loro, anch’io ho capito questioni più etiche e spirituali che sono importanti per loro, ma per me erano fatti che andavano lette dopo aver analizzato le cose dal punto di vista economico, politico. Ad esempio loro hanno il retaggio di venticinque anni in cui la violenza è stata ascritta come un tabù, mentre io mi sono trovato a spiegargli che esiste a prescindere, come esiste nel mondo animale. In alcuni casi violenza è servita a far cambiare le cose in meglio. Se i miei nonni fossero andati a fare volantinaggio o i girotondi invece di prendere i fucili contro i fascisti, Mussolini sarebbe ancora qua. 

“Spriz e Rivoluzione”, come dicevi prima, è il ritratto di certi maschi che vivono ancora a casa con mammà…
Daniele Sepe – L’idea era quella di fare un pezzo sullo stile di Ria Rosa che nelle sue canzoni criticava il comportamento degli uomini, li smerdava proprio. Mi sono detto perché non immaginiamo cosa penserebbe dei ragazzi di oggi, ma è ovvio che la cosa su cui smerdarli non era la guapparia, ma il fatto che a quarant’anni vivono ancora a casa con la mamma. Il brano è sostanzialmente nato mentre eravamo in macchina, e volevo che lo cantasse Flo, ma poi non ha voluto perché non si ritrovava con questo tipo di cosa, e secondo me è stato un peccato.
Casualmente con noi c’era anche Sara Squeglia, la ragazza di Andrea Tartaglia, ed io non sapevo nemmeno che cantasse, così ho provato a farle interpretare il pezzo. Abbiamo costruito la melodia su di lei, è venuto fuori un gran brano, tanto è vero che in molti pensano che a cantare sia Flo. Nella seconda strofa ho pensato di aggiungere le voci di tutti, e ad un certo punto è arrivato in studio anche Peppe insieme ad Enzo Gragnaniello che era venuto a mangiare al ristorante Sorriso Integrale. Sono scesi in studio tutti e due, e ho detto ad Enzo di dire qualcosa al microfono e ha detto semplicemente “bell”, poi gli ho detto ancora dici un’altra cosa e lui ha detto “Azz”. Non poteva mancare anche Peppe al quale ho cheisto di dire quello che solitamente dice al bar: “Ciao Caro gradisci uno Spritz”. Anche in “Suonarne Uno per Educarne Cento” chiunque scendeva in sala, si ritrovava poi a cantare. 

Come è nato il “La Valse du Capiton”?
Daniele Sepe – “La Valse du Capiton” è nato qui al Bar dell’Antichità. C’era Roberto Colella che mi chiedeva delle cose di armonia, e gli ho detto che poteva prendere una melodia diatonica semplicissima e poi armonizzarla in modo anarmonico. L’orecchio se ne va pe’ viche e non riesci più a capire addò stà. Ho scritto questa melodia che fondamentalmente è una stronzata tutta sul do maggiore, ma cambia così velocemente l’armonia che ne va lontanissima tanto da sembrare una cosa straniante e lunatica. Poi c’è Pietro Festa che suona la sega musicale e che ho conosciuto mentre suonava per strada, così ho pensato di inserire anche lui in questo brano perché la melodia poteva essere bellissima con la sega.

Le atmosfere morriconiane de “La Chiamavano Sanità” invece da dove arrivano?
Daniele Sepe – Questo brano è un esempio di come si è lavorato in studio, io a volte mi sedevo al pianoforte, senza alcuna idea di partenza. In questo caso è venuto Roberto Colella semplicemente con una strofa, l’inciso non lo avevamo e non riuscivamo a trovarlo. Avevamo solo la parte musicale che poi abbiamo fatto cantare a Sara con quell’atmosfera che rimanda alle colonne sonore di Morricone. Poi mentre stavo sistemando il suo microfono, mi è venuta quella storia un po’ alla Squallor. 

Il tradizionale “Jovano” ci porta dritto nei Balcani. Come avete scelto di inserire questo brano?
Daniele Sepe – L’amicizia con Carmine Guarracino nasce dai tempi in cui Adnan è venuto qua a Napoli. Sono stato il primo musicista napoletano che gli presentarono perché da sempre ero visto in Italia come quello che avesse più conoscenze della musica balcanica e mediorientale. A volte a ragione, a volte no. Quando Ozpetek venne in Italia per girare “Bagno Turco” gli fecero il mio nome, poi dopo ci siamo appiccicati immediatamente, ma a Roma gli dissero che l’unico in Italia che ne sapeva qualcosa di musica turca ero io. Adnan diede vita a questo gruppo straordinaio che era Balkania con Lello Di Fenza e Carmine Guarracino i quali hanno imparato moltissimo da lui. Dopo la morte di Adnan loro hanno fondato ‘O Rom con Costel “Costantinu” Lautaru, che viene da una famiglia di musicisti straordinari. Quest’anno mi hanno chiamato a suonare con loro e visto che questo era un disco in cui ho messo i miei amici, loro non potevano mancare. “Capitan Capitone e i Fratelli della Costa” non vuole essere una fotografia del meglio a Napoli, perché ci sono tantissime cose ottime qua, ma non sono amici miei, non ci esco a cena, non vengono al mare con me. 

“Bambolina” è invece una versione in chiave moderna di “Bammenella e copp’e quartiere” di Raffaele Viviani…
Daniele Sepe – Chiesi a Nelson di scegliere un brano da fare insieme e lui mi parlò del fatto che gli piaceva molto la mia versone di “Bammenella”, così abbiamo pensato di riattualizzare questo brano al giorno d’oggi perché la prostituita non è più quella di una volta, oggi si chiama escort. E’ nato così questo testo bellissimo in cui si immagina di un ragazzo che si innamora di una escort, la quale guadagna un sacco di soldi andando con avvocati, notai, ma lui sa bene che non potrà offrirle tutto questo. E’ la storia di tante ragazze che conosciamo bene di origine proletaria, popolare. La questione non è semplicemente vendere il corpo per fare i soldi, ma vendere la propria identità di classe per essere qualcos’altro. Nelson è sempre estremo, ma l’idea era quella di descrivere tutte quelle ragazze che dimenticano che il padre fa il carrozziere, o lavora in un azienda come operaio e il sabato sera cercano di apparire qualcos’altro perché vestono bene e vanno a ballare come deficienti in discoteca, dove trovano il figlio del notaio o dell’avvocato.
Quando arrivano al Vomero o a Via dei Mille fanno finta di avere un’altra storia alle spalle. Negl’anni Settanta i nostri genitori ci insegnavano ad essere orgogliosi delle nostre origini, e anzi quando trovavamo uno più ricco dovevamo farlo sentire una chiavica. All’epoca anche quelli che erano figli di miliardari andavano vestiti male, e dicevamo che il padre faceva l’operaio anche se era il proprietario dell’azienda. C’è una corsa ad essere quello che non si è. Come la maggior parte dei brani l’arrangiamento è nato in studio, Nelson è venuto con la melodia fatta su due accordi La minore e Re minore, ma non potevamo farla così perché sembrava Fabrizio De Andrè. 

“C’amma ritruvà” cambia la prospettiva, l’atmosfera aprendo uno spaccato sul tema della guerra…
Andrea Tartaglia – Daniele ha chiesto di scrivere un brano nel quale tutta la gente che la sera sta fuori al Bar di Peppe viva improvvisamente catapultata in mezzo alla guerra. Io ho immaginato questa storia come se fossimo noi gli emigrati in Africa in mezzo ad uno dei tanti conflitti che la dilaniano. In studio abbiamo coinvolto Laye Ba, un ragazzo senegalese, al quale Daniele ha chiesto di dire semplicemente qualcosa al microfono. 

Andrea dalla tua prospettiva, come hai vissuto questa esperienza al fianco di Daniele. Quanto è stato importante questo incontro per te?
Andrea Tartaglia – Il gommone è il gommone, ed io amo il mare. Direi che è stata un’esperienza didattica fondamentale ma questa parola non piace a Daniele. E’ stata un’esperienza molto formativa. L’ho vissuta come un enorme workshop, in cui ogni giorno andare in studio significava imparare tanto. Per me che ho fatto un primo disco senza esperienza, vederlo lavorare, avere la possibilità di partecipare a questo progetto, mi ha dato importanti conoscenze per il futuro. Ho capito come si registra un disco, le varie sfumature che lo caratterizzano perché ogni album ha strade musicali diverse. E’ stata un esperienza bellissima…

Al disco ha partecipato anche Gino Fastidio, comico ben noto per la sua partecipazione alla trasmissione “Made in Sud”…
Daniele Sepe – Gino è molto amico di Gnut e ci venne a trovare mentre stavo mixando il disco, e subito mi chiese se poteva fare qualcosa anche lui. Ci siamo messi a scavare in quello che è il mio cestino del computer, dove ci sono tutti brani per i film che non sono andati in porto, di dischi abortiti, e abbiamo scelto due pezzi strumentali, quelli della serie della “Coffa”, in origine nati per un film di Davide Ferrario su Garibaldi. Uno di questi avrebbe dovuto accompagnare i titoli di coda con il testo di Shaone, ma poiché lui è uno sciagurato, alla fine il film è uscito senza il nostro brano. Poi abbiamo pescato anche un altro brano che avevo inciso per un film di Pannone sulla centrale atomica di Latina nel quale compare come strumentale, ed appena lo ha sentito ha detto subito che aveva già capito cosa fare. Dopo una settimana mi ha chiamato per registrare, e quando mi ha fatto sentire il pezzo, mi stavo facendo la pipì a dosso dalle risate. Per altro, quella è la storia di tutti, ed anche la mia. 

La “Ballata del Capitone” è invece nata in modo del tutto inaspettato…
Daniele Sepe – Mentre stavo registrando “Bambolina” e non ricordo quale altro brano, loro stavano nell’altra saletta dello studio e si divertivano chi a cantare, chi a fumare, chi a provare. Non so nemmeno com’è successo, ma mentre strimpellavano con la chitarra… è nato il brano. Mi hanno detto: “amm fatt stu piezz ngopp o’ Capitone”… e mi è piaciuto subito moltissimo e lo abbiamo registrato.
Andrea Tartaglia – Discutevamo sul fatto che nel disco mancasse un brano con il coro dei pirati, e Daniele Sansone ha cominciato a strimpellare. Piano piano casualmente è arrivato anche il testo

Il disco si chiude con “Puselleco Addiruso” di Ernesto Murolo e Salvatore Gambardella, nella versione già nota dal disco “Il Giudizio Universale” di Contrabbanda di Luciano Russo…
Il disco si chiudeva con questa sonata in re minore di Scarlatti eseguita al mandolino, però mancava una chiosa e così è nato quel dialogo surreale che è “L’epilogo – L’isola del Capitone”, ma finiva in modo troppo triste. La musica più allega del mondo ha tonalità maggiori e la si trova nei paesi più disagiati, la musica africana, quella brasiliana hanno una vitalità e una forza incredibili. Più i popoli hanno subito vessazioni più si sono liberati con la musica. Se tu già stai male, hai lavorato per undici ore nella terra e non ti hanno pagato, è difficile che torni a casa e ti lamenti, ti vuoi liberare, la tua droga è questa. Ci voleva una un brano che riportasse in alto il buonumore, e “Puselleco Addiruso” era perfetta. Mi faceva piacere anche inserire Auli Kokko che non canta più, così come dare visibilità al disco di Contrabbanda che era una autoproduzione e non ha avuto una grande diffusione, e  quindi ho chiesto a Luciano Russo se potessi utilizzarlo. Questo brano mi piace così tanto che lo utilizzo addirittura come suoneria del mio telefonino. 
Andrea Tartaglia – Quando stavamo al mare, sentivamo questa canzone che partiva dal cellulare perché lo stavano chiamando… non poteva mancare questo brano.

Quali sono i galeoni da assaltare per Capitan Capitone e i Fratelli della Costa?
Sono moltissimi ma siamo molto deboli, possiamo assaltare giusto quelli del nostro futuro, sperando che questo disco serva a cementare un gruppo. Ogni volta che uno di noi va a suonare, non c’è nemmeno bisogno di dirlo ed arrivano almeno altri due o tre per suonare insieme a lui, perché ognuno conosce i brani del repertorio dell’altro. Personalmente il repertorio dei Foja, di Gnut e di Tartaglia li conosco meglio del mio. Sono un vecchio scemo della generazione di Pino Daniele, convinto che la musica debba essere interessante anche dal punto di vista armonico.
Anche lui scriveva pezzi per nulla facili da questo punto di vista, ascoltavamo le stesse cose, da Steve Wonder agli Steely Dan, e piano piano tutto questo sta arrivano anche ai giovani. Sinceramente non ho mai pensato di cambiare il mondo con le canzoni o con i dischi. Non penso di aver mai convito con un mio disco un militante di Forza Nuova a diventare marxista, o il proprietario di un’azienda di alzare lo stipendio e ridurre l’orario di lavoro, dopo aver ascoltato “Lavorare Stanca”. La musica in questo senso non serve ad un beneamato cazzo.  Serve come il caffè ed il thè. A limite può servire a rafforzare le proprie convinzioni per chi ha già una coscienza ed un etica, oppure a dare qualche informazione in più. Qualcuno con “Spiritus Mundi” dove c’era “Padrone mio” ha scoperto Matteo Salvatore, qualcun altro Enzo Del Re in “Lavorare Stanca”, come Vinicio Capossela che mi ha detto grazie per questo. Ancora, qualche tempo fa mi chiesero se volevo fare una serata al Tirabusciò dove invitano ogni settimana un ospite, ed io ho proposto alcuni brani di Atahualpa Yupanqui. Ho cinquantacinque anni ed ho ascoltato non so quante migliaia di ore di musica, ma anche loro ascoltano musica, come i Calle 13 che hanno fatto album con Omar Rodriguez.

Il disco è stato finanziato da una campagna di Crowdfunding che ha avuto risultati eccezionali…
Siamo riusciti a coprire le spese, e questo perché ho fatto io il mixaggio e la masterizzazione, diversamente sarebbe costato duemila euro in più. A questo va aggiunta la spesa di ottocento euro per i gadget, le magliette, le sacche e i teli e siamo già arrivati a seimila euro, considerando che Musicraiser trattiene il 15%. Certo è vero che su Spotify siamo stati primi nella classifica Viral per un paio di settimana, tuttavia quella è una cosa che economicamente ripaga molto poco. In generale la situazione della musica è complicata, perché il Cd come supporto è proprio obsoleto. E’ per questo che ai giornalisti non mando più il disco, ma solo i file mp3. Il problema non è quello che scegli di fare tu, attualmente se vai in uno store come Trony a comprare l’autoradio il lettore cd non c’è più, ma trovi solo la porta usb.
La stessa cosa accade se compri un MacBook, a limite trovi un lettore Blueray, ma che fai? ascolti il disco int’ ‘a television? Quindi chi compra il disco nun sape manca addò l’addà sentì, è comm se t’accattass o’ vinile e nun facesser cchiù e’ puntin. A quel punto, per assurdo, conviene fare proprio il vinile che sta vendendo molto di più del cd attualmente, è un oggetto bello. Questo è l’ultimo disco che pubblicherà su Cd. E’ probabile che la prossima volta farò una tiratura limitatissima di vinili e una pennetta usb con il booklet in pdf e i file in alta definizione. Il cd non ha lo stesso fascino, né la praticità della penna usb. Prima dischi miei come “Anime Candide” vendevano come minimo ventimila copie, ora se vendi mille copie è un successo. “Capitan Capitone e i Fratelli della Costa” è già in ristampa, ma è un caso limite. Con “Viaggi Fuori dai Paraggi” agg fatt ‘o disc d’or che voleva dire cinquantamila copie! Se pensi però che quando avevo quindici anni il disco d’oro significava aver venduto un milione di copie, ed ora diciottomila, ti viene da riflettere! Attualmente non c’è un ragazzo che produce musica e dischi che tene o’ lettor ‘a cas. C’è Andrea Tartaglia che sta per pubblicare un disco, lui non lo ha il lettore cd. Noi facciamo il mastering, produciamo il disco e poi si finisce per ascoltarlo nelle casse della Philips del pc. Chi compra oggi un impianto da ventimila euro? Un professionista con i soldi, un avvocato, un notaio. Anch’io sto cercando inutilmente di liberarmi dei ventimila dischi che ho a casa perché se vai su Spotify o su Deezer hai una discografia sterminata a portata di mano! Se devo cercare un brano io vado direttamente su queste piattaforme, non posso mica mettermi a cercare tra ventimila dischi una canzone? Non esiste proprio! Per vendere i dischi, oggi devi fare la maglietta, il libro, la sacca, diversamente non si vendono. Io sto tornando dalla Spagna e cercavo un negozio di dischi, ho dovuto fare l’ira di Dio dei giri, perché non esistono più. 

Facendo un passo indietro al disco precedente “Note Spiegate”. L’idea della didattica è una cosa che mantieni?
Quella cosa rimane sempre, non voglio fare la fine dei miei colleghi che si ritrovano un pubblico di coetanei di vecchi matusalemme con i quali io non ho più un cazzo da dirmi sinceramente, nè da insegnargli perché se vengono ai miei concerti sanno bene chi è Atahualpa Yupanqui, sanno bene chi è Matteo Salvatore perché gliel’ho insegnato trent’anni fa. Quando però vado con Tarall & Wine a fare una serata so che c’è un pubblico giovane e mi piace non cantare semplicemente una canzone ma spiegarla, come faccio con “Peixinho do mar” che è la storia delle rivolte degli schiavi sudamericani. Ogni concerto è un occasione didattica, anche se questa parola non mi piace… 

Concludendo come sarà “Capitan Capitone e i Fratelli della Costa” dal vivo?
E’ molto semplice! Quando uno di noi manca, non cambia nulla, tanto ognuno di noi conosce i brani dell’altro. L’8 aprile saremo allo Scugnizzo Liberato, il 30 al Bolivar, il 25 al Nadir Festival a Soccavo che si tiene la Centro Polifunzionale. E’ una bella rassegna che organizzano alcuni giovani, i quali si sono talmente appassionati al disco che stanno preparando un palco con la scenografia piratesca. Prima dell’uscita del disco abbiamo fatto il concerto di Capodanno a Piazza Vittorio, e mettendo insieme tutta la ciurma sul palco è molto divertente. Si va dalle atmosfere liturgico etniche di Tartaglia al punk di Alessio Sollo, fino alle canzoni un po’ west coast di Gnut. E’ un concerto che parla sempre in napoletano ma molto divertente, vario. Ci sarà spazio anche per i brani del repertorio di ognuno ma solo con il disco siamo già a settanta minuti di musica, e dal vivo durerà un bel po’.

Ciro De Rosa e Salvatore Esposito



Capitan Capitone e i Fratelli della Costa (FullHeads/Audioglobe, 2016)
Il forziere delle note che si apre all’ascoltatore è irresistibile, tra originalità, citazioni, canzoni, marce e danze, spunti demenziali e tradizione popolare, sciabolate rock e campionamenti, assoli di fiati e voci rauche, trovate timbriche e sfarfallii. Dopo il burrascoso pastiche a mo’ di prologo, dove tra lampi, scrosci di pioggia, urla e jastemmie gli artisti ribaldi, quasi sbigottiti, vedono la “terra”, ma anche trovano il Capitano con cui disperdersi nell’avventura sui mari delle note, tutta la ciurma di ‘malamenti’ che gli sta intorno, ecco che subito “Penelope” ci fa ondeggiare tra l’Egeo e Trinidad. Profuma di Caraibi anche “Amò”, a raccontare di un approccio a sfondo etilico e psicotropo a Piazza Bellini, mentre il sax affonda nelle citazioni cinematografiche.  Irresistibile la vicenda,  il motivo ‘ncopp  ‘o groove e le trovate timbriche (il soffio delle ance del birbinet) di “Le range fellon”, in un francese impossibile, racconta di una storia trascorsa tra Posillipo e l’entroterra partenopeo, «da la Gajole apres de le mirage e me ritruve dans la monnezze, vagabunde pour  la cite de Napoles et province». Il Rangio Fellone era il locale dell’isola di Ischia che ha visto le gesta di Ugo Calise nel decennio ‘50-’60. Qua è là degli intermezzi hardcore “Dalla coffa” punteggiano le vicissitudini sonore del Capitano e della sua ciurma, portando avanti la storia fino all’epilogo, quando Capitan Capitone viene abbandonato dall’ingrata banda di sodali su uno scoglio... (è un disco che potrebbe diventare un’opera-concerto o un musical, chissà?) “Spritz e rivoluzione”, affidata alla voce ‘anglofona’ di Sara Sossio Sgueglia, è un altro passaggio jazz-funky beffardo sulle creature notturne finto alternative e bamboccione, degna prole della misera borghesia napoletana (il coro canta: «Parli di indipendenza in Palestina / e po’ tien’ a mammà ca te cucina’»).“L’ammore ‘o vero”, acustica delizia con voce, cori e sax soprano, che si insinua facendo incontrare Gnut e Alessio Sollo. Ma è solo un momento più raccolto, cui fa da sponda il delizioso “La valse du Capiton”, in cui la sega musicale trova la fisarmonica del campione cilentano Francesco Citera, possibile colonna sonora di un film, prima che si faccia strada baldanzoso “La chiamavano Sanità”, ballad western morriconiana con deriva squalloriana sulle imprese di un camorrista, scritta e suonata con La Maschera. Improvvisamente, l’imbarcazione lambisce le coste adriatiche nei tempi zoppi di “Jovano” – uno dei pezzi migliori del disco – i maestri di cerimonia sono ‘O Rom, ma tra le pieghe dei territori slavi si impongono  il sax shorteriano di Sepe e la chitarra elettrica e la fisarmonica di Costel Lautaru si riempie dell’arte di Ellington (…è “Caravan”). Ritorniamo a Napoli, perché “Bambolina” aggiorna il classico vivianeo “Bammenella”. Poi è l’Africa che trova il canto di Laye Ba e di Andrea Tartaglia, appoggiate su elettronica e kalimba, per denunciare la condizione dei migranti, che fuggono il terrore portato dall’Occidente (Un “Vite Perdite” versione 2016). Ha le movenze blues-zydeco la gustosissima “Poggioreale mia”, con l’immancabile Mario Insenga. Esilaranti anche le successive “Me ne vek ben”, pubblica millantata confessione, tra fiati e ritmi in levare, del superamento di pene di amore perduto, featuring Gino Fastidio, e “La Ballata di Capiton Capitone”,  un inverosimile sea shanty, con coretto che intona: «‘O capitò, ‘o capitò», ritratto  da scompisciarsi della ciurma, più di musicanti sfigati che di masnadieri. Le corde classiche accompagnano lo sfogo del Capitano abbandonato sullo scoglio… della Gaiola. È festa! Musica, maestro! Viva la Contrabbanda di “Pusilleco Addiruso”, parole e musica di Ernesto Murolo e Salvatore Gambardella, dove salutiamo la voce ritrovata – che ci manca tanto – di Auli Kokko. Il mare è calmo, sembra che tutto sia finito, ma ecco partire “Perfect Suicide“, arrembante ghost track suonata con The Collettivo. Daniele Sepe è unico; come lui non ce ne sono in Italia: mettevi l’animo in pace! E accattateve o’ Capitone, in formato fisico o digitale.


Ciro De Rosa

1 Commenti

  1. Stupendo racconto di com'è nato e si è sviluppato il disco, che è veramente fantastico. Non sembra un raccondo di questi tempi, dove l'egoismo e l'individualità sono legge. Proprio bello, e infatti quell'atmosfera di amicizia di "chi arriva canta qualcosa", si sente lungo tutto il disco. Per me una gran bella scoperta!

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