Tradizione e oltre. Intervista al maestro delle launeddas Luigi Lai

Leggenda vivente della musica sarda, Luigi Lai è il più anziano depositario del repertorio tradizionale delle launeddas, appreso sin dall’età di sette anni sotto la guida di grandi maestri come Efisio Melis e Antonio Lara di Villaputzu. Se da un lato, Lai è l’unico suonatore di launeddas vivente ad aver vissuto, da giovane, l’epoca della centralità dei balli domenicali e dei contratti annuali stipulati con i suonatori. Dall’altro è colui che ha esplorato l’impiego dello strumento fuori dai confini della musica tradizionale,  portandolo anche nel contesto della world music. Dopo gli studi di sassofono e pianoforte presso l’Accademia Musicale di Zurigo, quando era emigrato in Svizzera, ha intrapreso un’intensa attività artistica che lo ha portato negl’anni a collaborare con numerosi interpreti della musica tradizionale sarda, tra cui la leggendaria Maria Carta, i Tenores “Remunnu e Locu” di Bitti, i Tenores di Neoneli, Elena Ledda e Mauro Palmas, nonché a confrontarsi con diverse espressioni musicali dalla musica pop al jazz, al fianco di artisti come Angelo Branduardi, Paolo Fresu, Enrico Rava, Enzo Avitabile e tanti altri. Numerose le sue registrazioni, oltre a quelle storiche di matrice etnomusicologica, ricordiamo  i CD “Canne In Armonia” del 2000 (Nota Records) e il più recente “S’Arreppiccu” del 2003, autoprodotto. Animato da una grande passione, instancabile impegno e curiosità verso le esplorazioni sonore, Luigi Lai ha acquisito uno straordinario livello tecnico che, unito ad una forte sensibilità artistica, gli ha consentito di esplorare nuove sonorità spaziando dall’elaborazione elettronica delle launeddas alla musica da camera fino a toccare composizioni di estrazione classica. Parallelamente alla sua intensa attività artistica, ricca di concerti in Italia come all’estero, il musicista sardo è costantemente impegnato nella preziosa opera di insegnamento dell’arte delle launeddas a tantissimi appassionati. In occasione dell’undicesima edizione del Premio Nazionale Città di Loano per la Musica Tradizionale Italiana, gli verrà consegnato il prestigioso Premio Alla Carriera. Per celebrare questo ennesimo riconoscimento, abbiamo intervistato il maestro Lai per approfondire con lui la sua attività didattica, soffermandoci sui metodi di insegnamento, le criticità incontrate negli anni e l’importanza di trasmettere l’arte delle launeddas alle nuove generazioni.

Maestro, trasmettere alle nuove generazioni uno strumento come le launeddas, è una sfida importante anche per far conoscere il patrimonio culturale della Sardegna… 
In Sardegna ci è rimasta solo la cultura, che è la migliore cosa che ci è rimasta. A noi spetta non solo curare e preservare la nostra tradizione, ma anche continuare a crearla, per trasmetterla a chi è interessato. Ci sono tanti giovani che sono incuriositi dalla nostra tradizione musicale, e credo sia necessario recuperare la nostra identità. Chi viene in Sardegna deve avere il meglio, solo così possiamo crescere.

Quanto è importante un maestro per un giovane che vuole apprendere uno strumento tradizionale come le launeddas?
C’è un errore che stanno commettendo i nostri rappresentanti politici, i quali mirano alla quantità piuttosto che alla qualità. Se succede tutto questo siamo fritti in padella, e la cultura è destinata solo a morire. È necessario cercare i veri maestri finché ci sono ancora. Personalmente ho avuto la fortuna di conoscere e studiare insieme ai grandi maestri delle launeddas, ho dedicato tutta la mia vita alla musica e sto cercando di diffondere la cultura sarda in tutto il mondo. Penso che ci siano dei ragazzi molto bravi, alcuni hanno studiato anche dodici anni alla Scuola Civica di Cagliari, e non so perché non emergano. Non so spiegarmi perché c’è gente che va avanti senza meritarlo, o meglio che è mandata avanti, perché magari loro nemmeno lo cercano. Anche alcuni che hanno studiato alla Scuola Civica di Cagliari, dopo pochi anni si sono sentiti già maestri, mentre io continuo a studiare ogni giorno. Spesso, quando esterno queste riflessioni mi dicono che sono polemico o cattivo, ma quello che vorrei è semplicemente continuare a preservare l’arte delle launeddas che il mondo ci invidia, mentre spesso noi facciamo finta di niente.

Quando ha cominciato ad apprendere l’arte delle launeddas, questo strumento era praticamente scomparso in Sardegna…
Una volta credo che fossero diffuse in tutta la Sardegna, ma alla fine sono rimaste nel Campidano di Cagliari, forse per un fatto di carattere perché qui sono più calmi rispetto ai sassaresi. Io andavo in bicicletta a Villaputzu per imparare dai miei maestri, e come loro facevo il calzolaio. Anche i miei maestri si muovevano in bicicletta o a cavallo, non era come oggi che puoi suonare a Berlino e domani sei già a casa. Prima se si andava a suonare a trenta chilometri, si restava a dormire la perché non c’erano mezzi. Dopo i ventidue anni, mi sono dedicato alla musica studiando la fisarmonica e il sassofono, e ho fatto il musicista di professione. Nel 1970 erano del tutto scomparse, non c’era quasi più nessuno a suonarle. Quando ero in Svizzera, mi videro suonare le launeddas, e mi invitarono alla festa di Sant’Efisio, dicendomi che erano disperati perché non trovavano più suonatori, anche perché lo statuto delle celebrazioni del santo imponeva che il suono delle launeddas accompagnasse ogni spostamento dei confratelli, e c’era solo un vecchietto di Villaputzu, Zio Felice Pile. Poi incontrarono me, che all’epoca ero giovane e sapevo suonare. Ormai sono quarant’anni che suono in quella festa. Ritengo di aver salvato dall’oblio le launeddas, e per fortuna ho anche un attestato che lo dimostra.

Parallelamente alla sua formazione, ha avuto modo di suonare in pubblico sin da giovanissimo.
Quand’ero ragazzino io, e parliamo di mezzo secolo fa, si suonava per stare con le ragazze. Diversamente non c’era modo perché nemmeno ti rispondevano. C’era una severità, un distacco terribile tra uomo e donna. Quando si suonava in piazza, ci scappava sempre il ballo, quello era l’unico modo per poter dare la mano ad una ragazza. Bisognava saper ballare, diversamente (ride, ndr) dovevi scrivere una lettera raccomandata ai genitori per la mano della figlia. Il suonatore era più fortunato, perché suonando aveva anche la possibilità di ballare quando a suonare c’era qualche altro. C’era il desiderio del ballo: ecco perché nel repertorio è andato perso qualcosa di più lento. 

Qual è il segreto della sua didattica?
Non c’è un segreto, ma una logica. La prima cosa è però rivolgersi a un maestro e avere pazienza di imparare. Io ho sempre seguito gli insegnamenti dei miei maestri, e se non fossero morti, sarei rimasto sempre con loro. Il maestro, se ti vuol bene, è indispensabile sempre. Se chi apprende è umile e si comporta bene, chi insegna gli darà tutto. Senza questa logica non si va da nessuna parte. La prima cosa che faccio quando incontro i ragazzi che vogliono imparare l’arte delle launeddas, è toccargli la mano, cerco di insegnargli le posizioni corrette con cui suonare. Spesso è accaduto che venissero dei ragazzi che avevano un approccio completamente sbagliato allo strumento perché non sapevano quali fossero le posizioni delle mani, e loro mi hanno detto che nessuno si era mai preoccupato di insegnarglielo. Chi fa lezioni di pianoforte sa che la prima cosa che un maestro insegna è come impostare le mani. Ci sono tanti giovani che quando suonano le launeddas sembra che si spacchino i nervi, ma poi l’abitudine di stringere lo strumento è tale che si fa anche fatica a cambiare. Tutto questo però non lo dice nessuno perché di maestri veri non ce ne sono, ma in giro ci sono solo soffiatori. Ai ragazzi bisogna spiegare perché non si suona in quel modo, bisogna essere capaci di insegnare. Alla Scuola Civica di Cagliari ci sono stati ragazzi che hanno studiato con me per otto, dieci anni, però in giro c’è tanta altra gente che non sa suonare, e che non andrà da nessuna parte. Suonare male uno strumento significa farlo morire. Lo strumento vive se lo si sa suonare. Facciamo l’esempio del violino o del pianoforte, entrambi vivono perché sono studiati ad altissimo livello. A uno strumento bisogna dedicare la vita. Quando ero alla Scuola Civica di Cagliari ho detto che c’erano alcuni che non sapevano suonare, ma mi hanno risposto che non erano così. Ci vuole coraggio nel prendere una posizione forte in questo senso, e anche la Regione, o i comuni che pagano tre o quattro mila euro per una stagione, non dovrebbe aiutare chi non insegna nulla. 

Quali sono i primi passi da compiere per chi vuole cominciare a scoprire le launeddas?
Per questo strumento bisogna avere molta calma, molta pazienza. È uno strumento che ti ruba la vita, e bisogna studiarlo bene! Bisogna dedicarci la vita come ho fatto io. La prima cosa da fare è imparare a dosare il fiato. Ci sono alcuni che imparano in dieci minuti, altri impiegano settimane. Piano piano poi si passa a come prendere lo strumento, anche qui ci vogliono almeno due o tre mesi per acquisire una certa sicurezza. Come dicevo, prendere male lo strumento significa partire malissimo. Molti che hanno imparato da altri a prenderlo in modo sbagliato ci mettono ancora di più. Poi si passa alle cose basilari, per lezioni e lezioni si fanno sempre le stesse cose, perché questo è il pilastro che ti aiuta a sostenere tutto. Io faccio sempre l’esempio del muratore che sta per costruire una casa. Se si vuole che la costruzione sia resistente, devono esserci fondamenta salde, un po’ come accade anche con le barche, che devono avere una struttura solida. Prima di ogni cosa bisogna, quindi, avere solide basi: è una lunga salita a cui seguirà poi la discesa. Se non si è preparati la salita non finirà mai, al contrario avere una formazione solida successivamente ci permette di trovare pianure, e anche discese. C’è un mio allievo, un ragazzo di Villasalto, che studia Agraria, il quale in un anno e mezzo ha imparato tutto il fiorassiu a regola d’arte, così come il Punt'e organu. Lui sarà il futuro delle launeddas, perché non si è mai improvvisato come fanno tanti altri.

Quanto è importante imparare anche a costruire le launeddas?
Mentre parliamo, in questo momento, sto aggiustando delle luneddas. Non si tratta solo di accordarle ma a volta anche di ricostruirle. Ai giovani cerco di insegnare anche questo, ma anche qui bisogna avere pazienza. Io ne butto a centinaia finché non trovo quella giusta, è tutto fatto in maniera empirica, ma bisogna essere in grado di capirlo. Se il risultato non è quello che ci si aspetta, bisogna tornare sui propri passi e ricominciare. Se è lungo, è necessario farlo più corto. Io questo l’ho imparato dai miei maestri. È necessario fare con calma, è per questo che in molti poi si stancano e vanno via.

Quali sono le difficoltà che ha incontrato nella sua attività didattica?
Io avevo proposto alla Scuola Civica di Cagliari di estendere questo corso anche in altri paesi. Mi sarei preso io la responsabilità come supervisore perché capisco chi è in grado di insegnare tra i miei allievi. Sarebbe stata una cosa a catena. Poi sono nate le varie associazioni, e anch’io ne ho creata una, ma non sono capace a mendicare. Grazie a Dio mi sono sempre mantenuto senza mendicare, ma lavorando e studiando. Credo che la cosa più dannosa sia la banalizzazione della tradizione. Qualche tempo fa ho visto in televisione un’intervista ad un suonatore anziano e malandato: è una vergogna che si dipinga questo strumento in questo modo miserabile, quando in realtà c’è un grande suonatore vivo e qualche bravo giovane. Preferisco non interessarmi a queste cose, ma piuttosto dedicare il mio tempo a prepararmi, a studiare e a fare concerti. Però, negli ultimi tempi, mi ha fatto molto piacere vedere che c’è gente interessata veramente. È accaduto con gli allievi dell’ultima edizione di “Mare e Miniere”, che mi hanno dato grandi soddisfazioni, tanto è vero che gli ho detto di organizzarsi per venire in Sardegna almeno una volta al mese, in modo da poterli aiutare veramente. Io faccio quello che posso per non lasciare morire questo strumento. La cosa importante è però imparare le launeddas a regola d’arte, ma in molti preferiscono le cose facili: due note e sono già a suonare con la processione.

So che dedica molte ore della sua giornata a studiare…
Trascorro le mie giornate immerso nella musica. Durante il giorno suono sempre. Oltre alle launeddas, mi piace suonare la fisarmonica che ho studiato per tanti anni e ho fatto anche diverse serate di liscio a Calasetta o il sassofono che ho ripreso a studiare come un pazzo dopo tanti anni perché mi piace troppo. 

La sua attività concertistica, l’ha portata a suonare spesso fuori dall’Italia. Qual è la percezione delle launeddas all’estero?
Con Mauro Palmas facciamo molti concerti all’estero, e ogni volta mi chiedono come faccia ad avere fiato. Il pubblico resta sempre affascinato perché nelle launeddas c’è una ricchezza impressionante di ritmi, di motivi incredibili del tutto sconosciuti per loro. Ultimamente ho realizzato un documentario con uno studioso scozzese Barnaby Brown, e non mi sorprende tutto questo loro interesse.

Nelle sue esplorazioni sonore spesso ha incrociato la strada con la musica colta…
Io ai musicisti di musica colta gli dico sempre di avvicinarsi a questo strumento, ma mi sento rispondere che preferiscono Bach o Mozart. Questi musicisti hanno molta presunzione, ma sinceramente nessuno mi impedisce di suonare qualsiasi cosa. Infatt,i sono anche molto appassionato di jazz. Quando è suonato bene anche un barattolo è bello, se la musica è suonata male diventa folklore. 



Salvatore Esposito
Le immmagini sono fotogrammi tratti dal documentario di Carlo D'Alessandro e Barnaby Brown

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