Pippo Pollina - L’Appartenenza

Cantautore siciliano dal songwriting colto e raffinato, Pippo Pollina ha trascorso metà del suo percorso artistico all’estero, raccogliendo grandi successi ed apprezzamenti tanto con i suoi dischi, quanto con i tanti concerti che lo hanno visto attraversare in lungo ed in largo l’Europa. Il legame con la sua terra, la Sicilia, però non si è mai interrotto, e sebbene da lontano ha continuato ad amarla, e così a cinquant’anni compiuti ha dato alle stampe uno dei suoi album più personali “L’Appartenenza”, disco in cui racconta a cuore aperto che senso ha essere parte di una nazione, di una regione, di una famiglia, di una scena cantautorale penalizzata dalle scelte commerciali. Abbiamo intervistato il cantautore siciliano per approfondire insieme a lui la genesi e le tematiche di questo disco, senza trascurare alcuni focus sulle sue produzioni precedenti. 

Come nasce il tuo nuovo album e quali sono le ispirazioni? 
Lo scorso anno ho compiuto cinquant’anni, e in quel momento ho capito che dovevo fare il punto della mia vita. Per chi, come me, è nato e vissuto in un luogo, e poi se n’è andato ad una certa età, prima in giro per il mondo, poi trovando casa da un'altra parte, e ha dovuto assistere a profonde trasformazioni nella nostra società, era necessario mettere un punto. Ho sentito così l’esigenza di fare questo disco, che avesse come filo conduttore che unisce tutte le tracce, l’argomento dell’appartenenza, intesa come tutte quelle cose importanti per la nostra vita, a cui ci siamo legati, a cui abbiamo legato il nostro nome e la nostra firma, non nel senso artistico, ma piuttosto in quello umano, quali valori sono stati importanti e quali continuano ad esserlo. In questo disco metto le carte in tavola, mi scopro, e dico: “io sono stato questo, e nella mia vita, e queste sono state le cose importanti”. Nella musica ho fatto una scelta ben precisa, non ho voluto suonare musica popolare, non ho voluto fare musica jazz o classica, ma canzone d’autore e quindi la canzone “Cantautori” è un omaggio ai grandi spiriti della canzone d’autore italiana, a cui quelli della mia generazione hanno fatto riferimento. Nella canzone “Dove Crescevano I Melograni” racconto in sostanza per quale motivo ho deciso di andare via da questo paese, che non è stata una scelta migratoria ma una sorta di esilio, ovvero ho capito che per salvare la mia identità dovevo cambiare cultura, dovevo per forza di cose andarmene. 

Come mai la scelta di cambiare cultura per salvare l’identità? 
Perché nel nostro paese in quel tempo, stava prendendo campo in maniera significativa, una sorta di aggressione alle nostre radici culturali. Nella direzione che la nostra intellighenzia aveva preso negli anni sessanta e settanta, c’era l’intenzione di abbassare il livello intellettuale di un popolo, per poi poterlo manipolare, e farne una massa non pensante, e consumatrice. Il significato della cultura nel nostro paese diventava cosmetica, non era più sostanza come era stato dalla Seconda Guerra Mondiale in poi, e questo l’ho intuito mentre suonavo negli Agricantus, e mi rendevo conto di cosa stesse succedendo nella società italiana, ed effettivamente poi tutto questo è successo davvero. 

Si può appartenere ad una cultura, pur guardandola dall’esterno, o forse è il fatto di stare all’esterno che ci consente di preservare quel senso di appartenenza cui fa riferimento il disco?
Ci si può sentire appartenenti ad una cultura sia vivendo in Italia, sia avendo deciso di lasciare il nostro paese. E’ chiaro che io non posso più incidere come se vivessi qua, perché non vi abito più, e anche dal punto di vista finanziario, io le tasse le pago fuori, però il contributo che posso dare dal punto di vista culturale è sostanziale, perché oggi grazie alla mobilità e grazie ad internet non esistono più frontiere precise. Oggi esiste il mondo delle culture, esiste la capacità di comunicare attraverso i mezzi più disparati. Io mi sento molto partecipe delle vicende di questo paese, pur avendolo lasciato. 

Uno dei brani più personali del disco è “Sono Chi Sei Sono Chissà”... 
Tutte le canzoni del disco sono molto personali, e questo brano è un modo per dire che sono esattamente come sei tu, però allo stesso tempo mi chiedo chi sono io, chi sei tu, chi siamo tutti noi. Al di là della comunanza o viceversa della lontananza dal punto di vista geografico, siamo nati e cresciuti nello stesso posto, o in posti diversi, in realtà le cose che ci accomunano e che ci fanno diventare ciò che siamo, sono i valori e le idee della società che vorremmo mettere in piedi, sono i desideri, i sogni che abbiamo e vorremmo realizzare… 

A chi è dedicata “Anniventi”? 
E’ dedicata a mio figlio, che ha compiuto vent’anni. E’ un tratto comune della cultura mittleuropea che i ragazzi a diciotto, vent’anni se ne vanno, non rimangono più a casa come nella cultura meridionale, come la nostra. Dopo aver accompagnato per una vita una persona, questa persona poi mette le ali, e vola via dal nido. E’ un modo per incoraggiarlo, e per avviarlo alla vita, che è un gran teatro, dove noi genitori dobbiamo imparare a lasciar andare i figli. Questa è una cosa molto importante, secondo me, tanto per noi quanto per loro. 

“Helvetia” è invece dedicata alla Svizzera, la terra che ti ha accolto… 
Ascoltando la canzone si potrebbe pensare che sia dedicato ad una persona, invece poi il titolo già rivela la dedica esplicita, al mio paese di adozione, che è la Svizzera, il paese che mi ha accolto nel modo in cui io descrivo nella canzone. Tutti quei riferimenti, che sono metafore, “mi hanno detto che non hai marito, che preferisci altri progetti”, fanno riferimento al fatto che la Svizzera non fa parte della comunità Europea, non vuole legarsi a progetti di comunità o di appartenenza specifica, e tutto quello che metaforicamente viene detto e cantato è una metafora di un paese a cui mi sono legato e nel quale ho deciso di rimanere. 

C’è un brano in siciliano “Ti Vogghiu Beni”. Qual è il tuo rapporto con la musica tradizionale della tua terra d’origine? 
Ho iniziato facendo musica popolare in Sicilia, tra la fine degli anni Settanta e i primi degli anni Ottanta, quando ancora erano vivi i padri del folklore siciliano da Rosa Balistreri a Ciccio Busacca, passando per Ignazio Buttitta ed erano attivi tutti quei gruppi che facevano ricerca nella musica popolare. Io ho cominciato a fare questo con gli Agricantus in sei anni di concerti, e quindi questa matrice popolare, unita ai miei studi di musica classica, è stata la base della mia formazione musicale. L’uso del dialetto siciliano però è stata per me una esperienza saltuaria, perché ritengo che per scrivere bisogna essere in possesso di un grande vocabolario, cioè bisogna avere tante frecce nel proprio arco, per poter scegliere sempre quelle migliori rispetto all’argomento da trattare. Non vivendo più in Sicilia, a Palermo, e pur avendo un ottimo rapporto con la lingua siciliana, non mi sentivo più di usare solo questo linguaggio. Io non sarei capace di fare un disco con sole canzoni in siciliano, perché bisogna secondo me avere un vocabolario molto più vasto. Una canzone di tanto in tanto è una cosa giusta. “Ti Vogghiu Beni” è una canzone dedicata alla Sicilia, questa madre che ha troppi figli, è distratta ed ogni tanto perde qualche colpo, e non è un caso che abbia scelto di cantarla con Etta Scollo, che secondo me è una delle più grandi cantanti siciliane. C’è però un altro motivo che mi ha spinto a scegliere lei, ed è il fatto che come me, anche lei vive all’estero, a Berlino da molti anni. Molti artisti siciliani, per trovare una collocazione, per posizionarsi dal punto di vista artistico, sono dovuti andare in luoghi, dove l’arte in generale conta di più che nel nostro paese, dove non conta per niente. Questa è una cosa molto umiliante, soprattutto per una cultura come la nostra che ha fatto dell’arte il suo segno distintivo nei secoli dei secoli. 

Cosa ti ha ispirato invece la title-track? 
“L’Appartenenza” è un brano nato quasi per caso, ed a posteriori ho deciso poi di dare questo titolo anche al disco. E’ una canzone molto intima, una canzone d’amore, e come tale ha quella giusta dimensione, che bisogna dare quando si sta parlando di una persona precisa e non solo del sentimento in generale, ed astratta. 

In “Mare Mare Mare” duetti con Giorgio Conte, com’è nata questa collaborazione? 
Con Giorgio Conte ci conosciamo da vent’anni, ci stimiamo, ci apprezziamo e ci frequentiamo laddove possibile. C’era sempre il desiderio di fare qualcosa insieme, ed ultimamente abbiamo avuto modo di rivederci, poi ho scritto questa canzone, che ho trovato perfetta per lui, gliel’ho proposta e lui è stato ben felice di cantarla. Il nostro paese ha questa grande fortuna di essere circondato dal mare, che è fonte di energia straordinaria, riesce a pareggiare i conti tante di quelle volte, riesce a farci rimettere in carreggiata quando abbiamo delle difficoltà, e laddove la vita quotidiana con i suoi problemi ci opprime, invece poi andiamo al mare, anche d’inverno e ci sentiamo rigenerati. Questa è la grande forza. 

Come hai lavorato sugli arrangiamenti del disco? Come si è evoluto il tuo suono negli ultimi anni? 
Ho prodotto questo disco insieme a Martin Kälberer, un musicista tedesco in cui sono stato in tour l’anno scorso, avevamo avuto modo di fare già un disco insieme, e poi io lo apprezzo molto sia come musicista che come produttore. Abbiamo lavorato nel suo studio in Germania prendendoci il tempo giusto, sapendo di non avere tantissimo tempo a disposizione ma neanche di voler fare una cosa in pochi giorni. Da una lato avevamo la giusta attenzione e concentrazione, dall’altra avevamo la consapevolezza che potevamo avere altre chance, qualora ci fosse stato qualcosa che non ci piaceva. Abbiamo lavorato con lui in maniera intensa, abbiamo fatto gli strumenti base insieme, poi abbiamo scelto una serie di musicisti che hanno dato il loro contributo, come Roberto Petroli ai fiati, Stefania Verità al violoncello, quindi sia strumenti della tradizione, sia strumenti classici come il clarinetto, ed anche elementi di musica rock come le tastiere, le chitarre elettriche, l’organo hammond. 

Facendo un passo indietro, ci puoi parlare de “L’Ulimo Volo”, disco dedicata alla strage di Ustica… 
Questo disco nasce su proposta della Regione Emilia-Romagna e dell’Associazione dei Parenti Delle Vittime della Strage di Ustica nel 2006, ed è stato portato in scena al Teatro Manzoni di Bologna nel 2007, in occasione dell’apertura del Museo Della Memoria dove sono assemblati i resti del DC-9 abbattuto nel 1980. E’ un modo per sublimare questa vicenda, una delle tante vicende emblematiche di questo paese in quegli anni, ed evidenzia come i poteri forti abbiano cercato di imbrogliare le carte, tenendo all’oscuro ottantuno famiglie e un intera nazione proprio per la necessità di preservare la cultura del potere. Quella cultura di potere che ad un certo punto non ha voluto si sapesse che le istituzioni ero state disposte a fare un imbroglio pur di nascondere quello che era accaduto. Quello non era un incidente qualsiasi, ma un atto di guerra nei cieli italiani in tempo di pace. Era una cosa gravissima, che coinvolgeva civili che sono morti tutti. Quando si scopre che le istituzioni si rendono protagoniste di un atti così vili queste perdono credibilità, e la cultura del potere subisce degli scossoni. Si fa di tutto per evitare che questo accada. Questo è stato il motivo che ha animato la scrittura di questo disco. 

Altro disco molto bello degli anni recenti è “Caffè Caflish”. Quanto è attuale questo disco? 
E’ un disco che vuole prendere in esame l’argomento della migrazione, tutta l’emigrazione. Abbiamo preso a prestito la vicenda dei Caflish che hanno avuto grande successo in tutto il Sud Italia, dove erano un istituzione, come lo erano a Palermo. Questo vuol dire che ciascun popolo che migra porta con se un bagaglio culturale, e questo può anche fare storia nei luoghi dove approda. Questa gente, questi svizzeri che erano poveri in canna, a quel tempo non erano soltanto delle persone che disturbavano, ma avevano anche un bagaglio culturale e gastronomico di un certo significato, hanno interagito con il nostro territorio e hanno fatto storia. Questo voleva essere un esempio per descrivere che la realtà migratoria nei secoli è stata una realtà continua e costante. Oggi i flussi migratori portano le persone in altre nazioni rispetto al passato, ma il concetto non cambia. Noi siamo stati il popolo migrante per antonomasia e siamo tornati all’esserlo, perché i dati sono significativi in questo senso. L’Italia è tornata ad essere una esportatrice di forza lavoro all’estero. 

Da giovanissimo hai avuto anche un esperienza come cronista per I Siciliani di Giuseppe Fava. Quanto è stata importante questa esperienza per il tuo songwriting? 
Mi è servita nella misura in cui la scrittura di un articolo di inchiesta presupponeva la necessità di una ricerca e quando bisogna confrontarsi con un certo argomento, prima di cominciare era necessario essere ben informati, se no si incorreva in una gaffe. Nel momento in cui mi sono cimentato a scrivere un opera come “Ultimo Volo” piuttosto che “Caffè Caflish” la prima cosa che ho fatto è stata quella documentarmi, come un giornalista. Cerco di mettere da parte quante più notizie, documenti e fonti da cui attingere documenti e fonti che poi mi serviranno per sublimare con le canzoni. Questo c’è un po’ di mestiere legato al giornalismo, quantunque ero un ragazzo, avevo ventidue anni, studiavo legge e facevo l’apprendistato ai Siciliani, non ero un giornalista scafato, ero un picciuddieddhu come si dice da noi. Eravamo tutti ragazzi, a parte Giuseppe Fava che era il grande padre. 

Ci puoi parlare del tuo processo creativo? 
Dipende dall’umore dei giorni, o mi seggo al pianoforte, o imbraccio la chitarra. Dipende da come sto. Sono due strumenti che hanno dei punti in comune, ma che hanno uno spirito molto diverso, e mi permettono di creare un canzoniere di spirito diverso, con il pianoforte compongo un certo tipo di canzoni, con il pianoforte compongo altre cose. Il fatto di suonare entrambi gli strumenti è per me estremamente vantaggioso. E’ il mood della giornata che influenza il mio processo creativo. 

Quali sono invece le tue ispirazioni? 
Sento di avere una sorta di antenna interiore, che ogni qualvolta è più sensibile, esce fuori di me e comincia a captare, sensazioni di un certo tipo. Poi in maniera del tutto irrazionale mi seggo, prendo la penna e comincio a scrivere, oppure mi seggo al pianoforte e prendo a suonare una melodia, la quale poi richiama un certo tipo di testo, che detterà successivamente l’armonia della canzone. Una cosa tira l’altra, è un processo molto istintivo, l’elemento razionale ed intellettuale del mio lavoro è una cosa successiva, arriva quando devi scegliere un aggettivo piuttosto che un altro, un sostantivo piuttosto che un altro, o vuoi chiosare con un certo accordo. La lavorazione con lo scalpellino avviene quando la forma è già data e quello è un processo meno razionale, ma più legato al momento.  

Il nuovo disco lo porterai in tour con l'immancabile Palermo Acostic Quartet… 
Gireremo l’Europa con questo nuovo spettacolo e avremo una scaletta quasi sempre uguale, una sorta di Best of delle mie produzioni precedenti, più otto o nove brani del nuovo disco. 

Concludendo, vorrei che sfatassimo insieme il mito del tuo maggior successo all’estero, piuttosto che in Italia.. 
Io appartengo ad una generazione di cantautori che ha subito questa aggressione culturale. Vivi o non vivi in Italia, è un dato di fatto che ci sono almeno quindici, venti autori di canzoni di un certo livello dai quarantacinque ai cinquant’anni che sono di assoluta nicchia, autori che nessuno conosce. Per quanto mi riguarda c’è questa grande discrepanza, all’estero suono in grandi teatri, mentre in Italia in piccole realtà. Qui ci sono tanti colleghi come Max Manfredi, che sono altrettanto di nicchia, perché la nostra generazione è incappata in un momento storico in cui si è deciso che la cultura italiana andava ridimensionata sotto il profilo artistico. Se fosse nato un De André nella mia generazione, nessuno lo avrebbe mai conosciuto, ma sarebbe rimasto in una nicchia di appassionati. La canzone d’autore è finita, nel momento in cui hanno deciso che sarebbe dovuta finire, ma non perché si è chiuso un ciclo. Il ciclo non si è affatto chiuso, ma hanno deciso che andava ridimensionata, perché si opponeva alla cultura del potere, così non passava più in radio, in televisioni. Questo è il mito da sfatare. Io ho capito questo e me ne sono andato. 



Pippo Pollina – L’Appartenenza (Jazzhaus Records/Artist First, 2014) 
A distanza di due anni dalla pubblicazione dello splendido “Süden”, realizzato insieme a Werner Schmidbauer e Martin Kälberer, Pippo Pollina torna con un nuovo album “L’Appartenenza”, nel quale ha raccolto tredici brani, caratterizzati da una scrittura senza filtri, e densi di riflessioni personali sulle cose veramente importanti della vita, il senso della memoria, del ricordo, il rapporto con la terra d’origine e quello con la nazione che lo ha accolto, ma anche il mestiere di cantautore, e la famiglia. Inciso in Germania presso gli studi Malawi Mystery Mix di Hemof e Under The Roof di Traunstein, il disco, oltre al già citato Martin Kälberer (canto, programming, piano acustico, tastiere, percussioni, fisarmonica), che ha curato la produzione, vede la partecipazione di gruppo di eccellenti musicisti composto da: Walter Keise (batteria), Roberto Petroli (sassofoni, clarinetto, Ewi), Stefania Verità (violoncello) e Jean Pierre Von Dach (chitarre elettriche ed acustiche), che hanno contribuito in maniera determinante alla costruzione di una cornice sonora elegante e ricercata per ogni brano. Aperto dal tenue strumentale “Preludio”, il disco ci regala subito uno dei suoi brani più belli e coinvolgenti, ovvero “Mare Mare Mare”, cantata in duetto con Giorgio Conte, a cui segue “Cantautori”, dedicata ai grandi della canzone d’autore in Italia, di cui tutti siamo un po’ orfani. Toccanti sono poi l’autobiografica “Laddove crescevano i melograni” nella quale un viaggio si trasforma nell’abbandono forzato della sua terra d’origine, e l’introspettiva “Sono Chi Sei Sono Chissà”, che aprono la strada ad “Anniventi”, dedicata al figlio. La seconda parte del disco sposta l’attenzione sul senso di appartenenza ai luoghi, evocati in “Da Terra A Terra”, “Helvetia” in cui Pollina racconta in chiave metaforica il suo rapporto con la Svizzera, dove da anni ormai vive, e quello con la sua terra d’origina la Sicilia, il cui amore è cantato in duetto con Etta Scollo nella splendida “Ti Vogghiu Beni”. Completano il disco la title track, e le poetiche "E Se Ognuno Fa Qualcosa" e "Risveglio", quest’ultima interpretata a due voci con Werner Schmidbauer. Insomma “L’Appartenenza” è quello che può essere definito un disco cruciale nel vissuto artistico di Pippo Pollina, non solo per la profondità dei temi trattati, ma anche per la sua capacità di arrivare a toccare il cuore dell’ascoltatore con la sua poesia. 


Salvatore Esposito
Nuova Vecchia