Il Suono Dell'Ultimo Saluto

Il paesaggio sonoro che avvolge il momento dell'ultimo saluto ad un proprio caro, ciò che in altro modo viene definito “rito del commiato", rappresenta un tema di ricerca storico-antropologico di grande suggestione per tutti coloro che si occupano della relazione uomo-suono. Prima di cominciare la nostra riflessione, è bene provvedere, sin da subito, ad alcuni utili distinguo, sia per non incorrere in equivoci di interpretazione sia per restringere la presente indagine (che, come vedremo, è decisamente localizzata sia nel tempo che nello spazio) e dichiarare nettamente ciò di cui questo scritto non si occuperà. A questo proposito, ben altro tempo e approfondimento meriterebbe il nostro intento se comprendessimo anche quei particolari riti funebri inerenti a popolazioni appartenenti a società di piccole dimensioni e a culture diverse dall'Occidente. Rimanendo sull'asse delle coordinate geografiche europee, una distinzione importante invece va subito fatta tra cerimonie assolte con rito religioso (cattolico, ebraico, islamico o protestante) - rituali funebri ben codificati, legittimati da una lunga tradizione e tramandati da un potere forte e duraturo - e cerimonie invece a carattere prettamente laico. In quest'ultimo caso, l'epoca contemporanea ha già fatto registrare numerosi esperimenti rituali di commiato, sorti in più parti d’Europa e che utilizzano, per celebrare la vita di un defunto, elementi ed azioni che appartengono nel loro complesso più all'area artistica che non a quello della liturgia, come musica (classica e meno classica), poesia e letteratura, semplici ricordi e pensieri, aneddoti, gesti e oggetti investiti di specifico valore simbolico. Ma anche su questa ampia e spinosa tematica - tra riti inscritti nella tradizione e riti che affiorano nella contemporaneità - non ci attarderemo oltre. È utile, a questo punto, segnalare che con "paesaggio sonoro" intendiamo un concetto molto vicino al cosiddetto "soundscape", espressione coniata dal compositore canadese Raymond Murray Schafer e che prendiamo, con qualche licenza, a prestito per il nostro scritto. Circoscriveremo infatti il nostro focus all'ambiente più intimo, ovvero al recinto degli affetti limitato ai congiunti ed alle persone più vicine al defunto. 
Ci rivolgiamo dunque ad un ben definito territorio dell’esperienza sonoro-musicale abitato da tutti coloro che a questa esperienza concedono la presenza espressiva e totale del proprio corpo, vivendo l’evento rappresentato con la partecipazione fisica e la memoria delle proprie membra. Questa precisazione elimina dal nostro ragionamento un altrettanto interessante orizzonte d'indagine, e cioè una ricognizione sul versante più allargato del cerimoniale funebre, quello che esprime, in evidente opposizione alla scala domestica, una dimensione pubblica del commiato. Su questo particolare tema, a puro titolo d'esempio, è forse interessante ricordare un aspetto che è proprio della contemporaneità (verrebbe da dire dell'era della televisione) e che è divenuto ormai consuetudine, uso comune, anche se non da tutti approvato. Ci riferiamo all’introduzione dell’applauso durante le cerimonie funebri – sia laiche che religiose -, uno sciame sonoro (poiché molto spesso al gesto del battere le mani si associa la voce, in tutte le sue immense sfaccettature sonore) che irrompendo nella vita sociale ha fortemente alterato uno dei momenti dell'intimità più legati al raccoglimento e al silenzio. "Il battimano - cito un pensiero di Maria Angela Gelati, attenta ricercatrice che ha approfondito gli aspetti antropologico culturali e le mutazioni dei riti dell’addio - nacque per evidenziare approvazione e consenso mentre oggi, nell’ambito dei funerali, sembra manifestarsi per riempire i silenzi e, in qualche modo, per allontanare il dolore o per rimuoverne il “contagio” (“Nuovi paesaggi sonori”, in “Oltre Magazine”, n. 6, 2011). Il concetto della Gelati, colto nella sua dimensione storico-sociale, aprirebbe enormi falle nel ben più ristretto ragionamento che ci siamo prefissi, si pensi, ad esempio, al tema della "rimozione della morte nella società contemporanea". Non ci perderemo nel labirinto offerto dal tema della rappresentazione della morte e della sua rimozione, che peraltro varia ampiamente nelle diverse epoche e nei diversi sistemi sociali, ma la suggestione della parola "silenzio", citata poc'anzi, inserita nella dicotomia silenzio-suono, rappresenta un ghiotto invito ad entrare nel cuore della nostra riflessione sul "paesaggio sonoro dell'ultimo saluto". 

Il block notes di de Martino 
Basilicata e Salento - negli anni Cinquanta del secolo scorso - questi sono i nostri riferimenti geografico-temporali, mentre Ernesto de Martino, il noto etnologo e storico delle religioni, e Cecilia Mangini - anch'ella famosa documentarista - i nostri Virgilio, attraverso note di viaggio e filmati, ai quali, sin d'ora, dichiariamo di attingere. Tra il 1953 e il 1956, de Martino si recò in Basilicata per una serie di esplorazioni etnografiche, diverse delle quali orientate ad analizzare in modo particolare il lamento funebre. Con lui, in un itinerario che toccò molte cittadine della regione, tra le quali Grottole, Ferrandina e Pisticci, una equipe composta, oltre che dalla compagna Vittoria De Palma, dall'etnomusicologo Diego Carpitella, dall'etnologo Vittorio Lanternari e dal fotografo-documentarista Michele Gandin. Il "lamento funebre", cantato, o almeno recitato, con un ritmo e una cadenza che lo distinguono dal comune parlare, è un comportamento antichissimo che può essere definito come una "determinata tecnica del piangere". Occorre dire che i modi della crisi del cordoglio nel mondo contadino lucano, ambito in cui appariva soprattutto diffuso, fino a circa cinquanta/sessanta anni fa si avvicinavano sensibilmente ai modi spettacolari della crisi del cordoglio nel mondo antico, serbandone con assoluta fedeltà alcuni tratti. Fu anche possibile osservare, quando de Martino sviluppò la sua ricerca (che vide poi la luce nel noto testo "Morte e pianto rituale", Einaudi, 1958), come in Lucania ogni villaggio avesse il suo modo tradizionale di lamentare il morto e la melopea era, in ogni sito, variamente caratterizzata, con differenze prontamente percepite dalle lamentatrici che ne facevano spesso oggetto di polemica campanilistica. In tutta l’area, comunque, il lamento funebre femminile costituiva la regola, quello maschile l’eccezione. In generale, nel periodo a noi più vicino, il "lamento" era agito dalle parenti del defunto, le amiche e le comari, senza più ricorrere a lamentatrici professioniste. La figura della lamentatrice professionale rimane comunque carica di fascino umano. Si tratta di donne che coglievano l’occasione di un lutto per rinnovare il lamento per qualche proprio morto: soprattutto madri che avevano perso un figlio giovane o in guerra e, soprattutto, le vedove. Erano donne, insomma, che sapevano “piangere bene” per sciagure patite e per personale abilità tecnica. “La struttura del lamento funebre lucano - cito direttamente de Martino in un suo rapporto etnografico apparso originariamente in “Società”, X, 1954, n. 4 e, successivamente nel testo “Mondo popolare e magia in Lucania” (a cura di Rocco Brienza, Basilicata editrice, Roma-Matera, 1975) - si articola in 3 momenti distinti: la scarica di impulsi con accentuata tendenza autolesionistica, le stereotipie verbali mimiche e melodiche e la singolarizzazione del dolore mercé la variazione, o l'adattamento al caso concreto, delle stereotipie e dei moduli.” (Ivi, p. 135). A proposito del contenuto di questi moduli verbali, occorre rilevare come il lamento funebre lucano presentasse “scarse influenze cristiano-cattoliche. Non vi appaiono né i santi, né le Madonne, né la rassegnazione al dolore terreno, né la speranza in un mondo ultraterreno...La ribellione e la protesta, che vi hanno un posto importante, non recedono davanti a nessuna autorità, neanche a quella di Cristo, che in un modulo ricorrente, è anche accusato esplicitamente di tradimento...” (Ivi, p. 141). Questa sorta di carattere pagano del lamento lucano è inquadrabile in un fenomeno generale che appartiene alla storia della Chiesa Cattolica nel suo complesso, la quale pur rinunciando a scendere a compromessi col lamento funebre come tale, cercando anzi di modificarlo e riplasmarlo entro il suo proprio rituale religioso, si rassegnò a tollerare il fatto di costume solo lì dove non era riuscita a sopprimerlo, senza comunque ammorbidire la sua intransigenza su un punto così vitale come era l’ideologia della morte. Prendendo in esame il rito vero e proprio, immediatamente dopo il sopraggiungere della morte, si determinava il momento più parossistico, anche se non del tutto incontrollato, in modo insomma da non farsi troppo male: le lamentatrici, con le chiome sciolte, si gettavano a terra, dando testate nel muro, saltavano, si graffiavano il viso a sangue, si strappavano i capelli e si stracciavano le vesti, gridando cupamente in un pianto disordinato. Ad un certo punto la tensione si placava e subentravano le stereotipie. Il gridato, in forma anche di ululato, veniva articolato in ritornelli emotivi periodicamente itineranti in modo che fra ritornello e ritornello fosse dato spazio al discorso individuale. Anche quest'ultimo non era libero ma vincolato, occorrendo l’obbligo di impiegare moduli verbali definiti, cantati secondo una melodia tradizionale: i moduli rispondevano all'esigenza di riappropriarsi di ciò che del morto effettivamente era permanente e non poteva morire, la sua opera di buon marito o di buona moglie, o di buon padre o sorella o figlio, tanto che le buone opere che venivano elencate non sempre rispondevano all’effettiva realtà della vita del morto. Ad esempio, il modulo usatissimo: “Eri così buono, mi andavi levando le pietre da mezzo la via” alludeva alla gentilezza del marito di far salire la moglie sull’asinello durante gli spostamenti togliendo le pietre dal sentiero per evitare i sobbalzi, anche se la realtà effettiva delle cose era ben diversa. Ma la lamentazione è tradizionale non solo per il ricorso a versetti recitati secondo modelli stereotipi tramandati ma anche per l'uso di una mimica d’obbligo nell’esecuzione: il busto dondola a destra e a sinistra, con particolari movimenti delle mani come agitare il fazzoletto sul cadavere per poi portarlo al naso; il periodo mimico è scandito sul ritmo della linea melodica e proprio il tema melodico è il terzo elemento della tradizione della lamentazione, cioè la linea melodica con cui ciascun versetto è cantilenato, generalmente su una scala pentatonica di carattere discendente. De Martino ci ricorda ancora che il “...lamento poteva essere cantato a una sola voce o a più voci, assumendo in quest'ultimo caso una sorta di andamento responsoriale in cui le voci si inseguono e si sovrappongono...”(Ivi, p. 138). 

Filmare il pianto 
Si è già fatto cenno alla presenza di Michele Gandin nell'equipe demartiniana. Gandin è stato autore del prezioso documentario "Lamento funebre", girato tra il 7 e il 9 aprile 1954 e conservato presso l'Archivio audiovisivo del Museo Nazionale delle Arti e delle Tradizioni Popolari di Roma, tra i più rari documenti visivi, inerenti questo tema, disponibili al pubblico. La forte suggestione delle ricerche demartiniane ispirò peraltro, a partire dalla seconda metà degli anni ’50, il lavoro di numerosi professionisti dell'audiovisivo, dando in qualche modo avvio al cinema etnografico italiano post-bellico. Si pensi, a puro titolo d'esempio, ad opere divenute poi veri e proprio classici dell’antropologia visuale: oltre al citato "Lamento funebre" di Gandin, "Magia Lucana" di Luigi Di Gianni del 1958, e, in area salentina, "La taranta" di Gianfranco Mingozzi del 1961 e "Le rondini del Salento" di Corrado Sofia (1963), in verità, quest'ultimo, singolo episodio di un documentario molto più ampio, intitolato "Puglia magica". Il brevissimo frammento delle Teche Rai che qui proponiamo, riprende il coro in griko di un gruppo di prefiche salentine, le cosiddette "chiangimorti". L'incedere dei versetti recitati dalle prefiche, sotto forma di incessante filastrocca, ben riproduce, mediante un segmento della scena del commiato, l'atmosfera parossistica annotata da de Martino nel suo taccuino lucano. Significativo in questo senso è il filmato tratto dall'Archivio Sonoro della Puglia, progetto promosso dall’associazione Altrosud d’intesa con il Ministero dei Beni Culturali e l’Assessorato alle Attività Culturali della Regione Puglia. Ma il web ci mette a disposizione un prezioso documento filmico, questa volta in versione di cortometraggio integrale, un video di grande impatto visivo ed emotivo, nonostante che, a distanza di oltre cinqant’anni dalla sua realizzazione, quel mondo che racconta sia ormai completamente scomparso. Si tratta di "Stendalì" (Suonano ancora), girato nel 1959 da Cecilia Mangini a Martano, nella Grecìa salentina, film peraltro disponibile in allegato al volume “Stendalì, canti e immagini della morte nella Grecìa Salentina”, a cura di Mirko Grasso e con prefazione di Goffredo Fofi, pubblicato da Kurumuny edizioni nel 2005. Con i testi di Pier Paolo Pasolini, la fotografia di Giuseppe De Mitri, il commento musicale a cura di Egisto Macchi, la voce narrante di Lilla Brignone, il documentario, chiaramente ispirato a “Morte e pianto rituale”, ricostruisce, attraverso un sapiente uso delle tecniche cinematografiche, la struttura di parte della lamentazione funebre, così come era stata codificata in Basilicata da de Martino ma qui narrata da Cecilia Mangini in una versione girata nella Grecìa salentina. 


Il rito, l'ultimo saluto ad un giovane sedicenne, si svolge in una cupa atmosfera secondo un’accurata e meticolosa gestualità. Dal filmato risulta chiaro come l'istituto culturale del piangere i morti sia prerogativa delle sole donne, mentre le brevi sequenze finali documentano il ruolo degli uomini, nel lento accompagnamento processionale della bara verso il cimitero. La tensione interna che guida il rito sviluppa, a partire dall'incipit cantilenato di una delle prefiche, una tormentata progressione: si sommano sia le voci sia i gravosi movimenti del capo, delle mani delle altre donne che agitano fazzoletti bianchi, mentre sono i corpi nella loro totalità a partecipare al commiato nel momento in cui saltano pesantemente sincronizzati sul pavimento di legno. L'acme, il punto di massima esasperazione sonora corrisponde all'arrivo del sacerdote, sopraggiunto in casa per benedire il defunto e condurlo nel luogo del seppellimento. Immediatamente dopo quest'azione, corrispondente all'allontanamento del defunto dal luogo in cui era sempre vissuto, sopraggiungeva il silenzio. Assoluto. Ed anche lo spazio si asciugava, in quanto gran parte delle donne, a questo punto, ripiegava nelle proprie case per riprendere la vita di sempre. 

Miseria e nobiltà 
In una premessa generale alla sua indagine etnografica sul mondo popolare e la magia, de Martino denuncia come le ricerche folkloriche del suo tempo, svolte nelle aree depresse del Mezzogiorno, avessero totalmente trascurato lo studio di determinate forme di dissociazione o di disgregazione della personalità presenti tra quelle popolazioni che, secondo il Nostro comprovavano l'esistenza di un sorta di “miseria psicologica”, a sua volta strettamente collegata all'arretratezza economico-sociale. “Ancor meno - continua de Martino - è stata data importanza ai rapporti fra queste forme di dissociazione e la «miseria culturale», cioè le forme ideologiche arretrate e gli istituti arcaici, come il malocchio e la fattura, la credenza negli spiriti e l'esercizio della magia, il lamento funebre e simili...” (Ivi, p. 103). Il riferimento al lamento funebre si fa, nel ragionamento demartiniano, sempre più stringente, in quanto, a suo giudizio, esso “rappresenta una eccellente occasione per lo studio della miseria psicologica e culturale. Si è così osservato che lo stato psichico della lamentatrice in azione non è “normale” e che le stereotipie letterarie melodiche e mimiche dei lamenti assolvono il compito di combattere e di attenuare i fatti dissociativi che, particolarmente nelle donne, rischiano di verificarsi in occasione del momento critico della morte di un congiunto.” (Ivi, p. 104). Quest'ultima osservazione di de Martino si rivela, a nostro giudizio, illuminante: all'interno della reale dimensione di superstizione e arretratezza (ma non possiamo dimenticare che il Sud viveva in quel tempo un momento di grande trasformazione economico-sociale, iniziato con le grandi lotte agrarie), il rituale esercitava un'azione preventivo-benefica, nella quale l'espressione sonora e teatrale assolveva ad un compito fondamentale di tenuta della comunità. La forte teatralità insita nell'azione rituale del lamento funebre soddisfaceva un duplice bisogno della comunità, intesa nella sua dimensione più domestica: tenere alto il prestigio sociale della famiglia al cospetto dei vivi e, nel contempo, ostentare nei confronti del morto esasperate forme di disperazione e affetto da parte dei suoi cari. Di qui il racconto delle virtù del morto quando era in vita e la determinazione praticata nel fare tutto il possibile per salvarlo dalla morte. Un modulo conclusivo, riscontrato in alcuni villaggi, consisteva infatti in una richiesta esplicita rivolta al defunto, se cioè egli fosse contento dell’omaggio che gli era stato fatto mediante le dimostrazioni di cordoglio e la pompa del funerale: “Non ho più nulla da dirti, non ho più nulla da farti, statti bene e vienimi in sogno a dirmi se sei contento di tutto quello che ti abbiamo fatto”. Un modo insomma che, testimoniando comunque un inespugnabile arcaico terrore al cospetto di un cadavere, aveva la funzione di interrompere i potenziali rapporti rischiosi fra morto e viventi e di istituirne altri di alleanza e protezione, per assicurarsi la pace del defunto affinché egli non tornasse a contaminare il mondo dei vivi. Il rituale diventava così, in soldoni, l’espressione di una soluzione culturale, rivolta anche a contrastare la precarietà dell’esistenza delle fasce più deboli della popolazione. 

Michele Santoro
Nuova Vecchia