“A pari livello di dignità letteraria, la forma italiana e quella veneziana”. Così una nota di redazione apriva “Venezia e una fisarmonica”, l’autobiografia pubblicata nel 2014 in cui Gualtiero Bertelli aveva intrecciato in quasi cinquanta brevi istantanee il suo sguardo, ancorato alla Giudecca, accompagnato dalla fisarmonica, regalo dei genitori ai tempi della prima elementare; finita la scuola, per andare dal maestro Grossato a studiare lo strumento, “mia madre mi imbarcava alle Zitelle, con la fisarmonica Galanti a 24 bassi in spalla, mi affidava a qualche passeggero che conosceva e così arrivavo a destinazione”; approdi musicali che passo dopo passo l’hanno portato ad attraversare il resto di Venezia, del Veneto, dell’Italia e il capitalismo senza bussola della seconda metà del Novecento. Un capitalismo monotono: nel 1965 la sua prima registrazione per I Dischi del Sole fu “Sta bruta guera che no xe finia”; sessant’anni dopo, la macchina bellica strazia e minaccia più di prima, ed ecco nel nuovo album “Ninna nanna del fabbricante d’armi”, (testo di Michele Serra) rispondendo all’urgenza di confrontarsi con la “tradizione” come con una clessidra (come ben sintetizza Edoardo Pittalis), imparando a capovolgerla, farla risuonare, rimetterla in gioco “in un tempo nuovo”, chiamando ad incidere anche strumenti elettrici e batteria, precedentemente coinvolta solo una ventina d’anni fa nello spettacolo “Il maestro magro” dedicato da Gian Antonio Stella all’emigrazione interna italiana degli anni Cinquanta. Abbiamo chiesto a Gualtiero Bertelli di raccontarci il suo mondo musicale, i contesti in cui nasce e come è riuscito a tradurli in parole e musiche.
I tuoi lavori discografici abbracciano 60 anni: quali sono stati i principali cambiamenti che hai osservato nel “fare” un album lungo quest’arco di tempo?
“In giorni come questi” è uscito così perché ho ripreso a fare canzoni. Ne avevo alcune in “saccoccia” da tempo che, a mio avviso, meritavano di essere in qualche modo pubblicate. Mi ha fatto tardare un po’ l’arrivo della pandemia, quando si girava davvero poco, come, del resto, anche ora. Conoscendo la mia scarsa capacità di vendita e che, qui a Venezia non c’è più un negozio che vende dischi, questo mi ha fatto ritardare. Poi mi sono messo al lavoro e mi sembra sia venuta fuori una cosa interessante, perché in me c’è stato un cambiamento che si è riflesso nelle canzoni, con alcune sorprendenti per chi ricorda solo “Nina ti te ricordi”. C’è anche il fatto che mi sono proprio divertito a lavorare con i musicisti e fare una cosa musicalmente più ricca di spunti. Le nostre canzoni degli anni d’oro erano per chitarra, voce e fisarmonica, o chitarra e contrabbasso. In questo nuovo disco c’è un fiorire di interventi sonori diversi, anche suoni contemporanei con l’uso del sintetizzatore e delle chitarre elettriche. Certo, ho cercato di non fare improvvisamente il beat di mestiere, ma di usare queste sonorità per rappresentare un rinforzo del messaggio della canzone.
Nel testo che accompagna il CD, Edoardo Pittalis dice che sei “la canzone veneziana” e un “cantastorie di oggi” che “denuncia e spiega”. Quali canzoni esemplificano meglio queste definizioni? Che rapporto hai oggi con Venezia e il territorio veneziano?
Cantastorie non è solo un modo di fare canzoni. Il cantastorie è colui che tendenzialmente nei testi delle sue canzoni racconta soprattutto delle storie e questa è una mia caratteristica da “Vedrai com’è bello” a “Nina ti te ricordi”, passando per “Stucky” sono delle storie. In questo disco ci sono delle storie come “È un amore impossibile” il cui testo non è mio, ma del poeta romano Sesto Aurelio Properzio che lo scrisse venti o trent’anni prima di Cristo e io l’ho messo in musica. “Posso esserle utile?” racconta di un ragazzo che va a lavorare in call center. Insomma, nel disco sono presenti diversi brani che hanno alla base delle storie vere, pezzi di storia.
Che rapporto hai con Venezia e con il territorio veneziano?
Il territorio è dove vivo perché Mira è sul Brenta che è il fiume dove in Laguna è nato il Canal Grande. Sono a venti chilometri da Venezia, da Piazzale Roma. Ci vado spesso, ho contatti con persone ed enti che operano in questa città e ogni tanto mi coinvolgono in cose belle. La mia presenza in città non è proprio costantissima come una volta, ma quando mi cercano io vado. Nel disco dico cosa penso della città: che rappresenta sé stessa con una faccia immutabile da secoli, ma in realtà si sta consumando come una candela. Oggi il centro storico ha quarantamila abitanti, che sono gli stessi di Mira, mentre quando ero io ragazzo c’erano cinquecentomila persone. C’è stato un depauperamento enorme perché il lavoro si è trasferito a Marghera e i turisti sono un cataclisma quando arrivano a valanghe, in estate. Se si lavora d’estate si fa più fatica in inverno, quando tante attività si fermano, come le gondole, anche se ho visto qualcuno farci dei giri in cappotto. Venezia è sostenuta dal turismo che è la prima industria, e forse l’unica, della città, ma, se i veneziani potessero, metterebbero i turisti fuori perché per chi la abita in estate praticamente è una follia; ma senza di loro non vivono.
Che ruolo ha avuto nella tua formazione musicale, culturale e politica il lavoro di ricerca sul campo, per esempio con i canti di Anguillara Veneta, alle foci dell’Adige?
È stata una ricerca piuttosto interessante perché era costruita bene. Siamo stati vari giorni lì, abbiamo conosciuto delle persone, abbiamo vissuto il paese dove c’erano mondine e abbiamo trovato tante storie come quelle dei lavoratori, o degli ambulanti che vanno ai mercati a vendere le tazzine, i bicchieri… Siamo stati accolti molto bene e abbiamo potuto parlare con un sacco di gente. La cosa più interessante è stato il trascorrere una giornata fuori nei campi con una quarantina di ex mondine, tutte di Anguillara Veneta, che non facevano più questo lavoro perché sono state sostituite, in buona parte, dalle macchine. Ci hanno raccontato che con la capa andavano a lavorare prima in Piemonte e poi si erano spostate in provincia di Modena. Alle cinque e mezza del mattino ci siamo spostati con loro in pullman e con loro
abbiamo vissuto una giornata intera. Abbiamo mangiato un panino e siamo tornati verso le sette o le otto di sera. Abbiamo parlato, abbiamo registrato e abbiamo raccolto un sacco di materiali perché hanno incominciato a cantare mentre lavoravano, esattamente come quando erano mondine, hanno fatto il loro repertorio, anche se stavano raccogliendo i pomodori. Il disco raccoglie una piccola parte del lavoro che abbiamo fatto e di quello che abbiamo raccolto. Quella è stata un’esperienza intensa, la prima, poi abbiamo fatto anche altre registrazioni, ma sempre cose di mezza giornata, di un ora o due.
Che rapporto hai oggi con gli strumenti che suoni e dove nascono le tue musiche, dalle tastiere o dalle corde?
Fondamentalmente compongo con fisarmonica, chitarra e tastiera, a seconda di cosa devo fare. Il rapporto che ho con questi strumenti è buono e questo disco ne è la testimonianza. Trovo molto interessante usare gli strumenti per le loro caratteristiche specifiche, che sono timbro e dinamica, cioè che volumi riesci a tenere fuori, e ovviamente la scala. Mi sembra la tastiera ha questo tipo di dinamica e di apertura. Negli anni Sessanta in America, ma poi arrivò anche da noi, ci fu un grande dibattito su come eseguire la musica popolare. Il sound del contadino, del venditore ambulante o di un minatore, come lo rendi? Il modo di cantare? Se io canto una canzone popolare con la chitarra elettrica da rockettaro la impoverisco, la annullo. In quel periodo nacquero anche cantautori che venivano dal mondo popolare come Bob Dylan e molti altri. C’erano i cantanti folk che puntavano ad eseguire questa musica con strumenti acustici, chi veniva invece dalle città spingeva per suonarla come gli pareva con i suoni che voleva. Questo problema
si è posto anche per noi, con il Nuovo Canzoniere Italiano, e fu Roberto Leydi con Giovanna Marini a porlo. Noi rimanemmo interdetti, ma eravamo interessati a questo tipo di ragionamento; tanto è vero che i primi dischi erano poverissimi dal punto di vista musicale e si puntava tutto sul testo con arrangiamenti più semplici ed immediati possibile. Piano piano, poi, le cose sono cambiate, è arrivato Paolo Ciarchi, che ha dato un contributo notevole. Giovanna Marini ha introdotto, invece, modalità classiche all’interno del suo repertorio esecutivo. Io stesso ho cominciato a favorire e a desiderare questo tipo di suoni più moderni e ho aggiunto strumenti, mi sono informato, ho studiato e ragionato sull’uso dei timbri e cosa potevo utilizzare. Può sembrare poco, ma usando un sintetizzatore con venti tipi diversi si suoni è possibile avere una grande varietà di colori. “In giorni come questi” è un punto di arrivo in questo senso. Quando ho fatto i concerti in cui l’ho presentato eravamo in otto a suonare.
Come hai selezionato, per questo album, le canzoni già incise in precedenza e come avete cucito loro questi vestiti (musicali) nuovi?
Sono pochi quelli che ho reinciso e l’ho fatto per due motivi. Un po’ perché mi interessava riproporre il tema, ma specialmente perché erano stati prodotti in dischi poco distribuiti. Come potevo fare un disco sulla città e non metterci “De ‘sta cità” dove canto dei veneziani che vivono altrove. Come facevo a non inserire “’Sta vita”? Le ho arrangiate in coerenza con le altre. Ci sono cose pazzesche dentro. Qualcuno potrebbe dire: “È impazzito, questo!”. La novità assoluta è la batteria che non avevo mai usato. Avevo
usato le percussioni in passato ma non la batteria. Tra l’altro, il batterista è molto bravo e ha fatto un bel lavoro. Poi c’è l’uso degli strumenti elettrici, come la chitarra che forse ho usato qualche altra volta, ma molto raramente; ed ancora il sintetizzatore, le tastiere. Ho usato questi strumenti in maniera radicale per dare timbriche diverse. Se tu ascolti, fin dalla canzone “Tutto come se…” in cui canto della Venezia che sta sparendo, questi suoni sono fortemente rappresentativi perché sono dilatati.
Certo, è molto cinematografica come canzone…
Sì, questo è il mio scopo, raccontare cosa sarà.
Come hai scelto i musicisti, ben dodici, coinvolti nelle incisioni? Quali sono i loro apporti che senti come più significativi e con quali continuerai a collaborare nei concerti?
Nel primo concerto di presentazione del disco che ho fatto a Mira eravamo in otto sul palco e sono quelli con i quali suonerò anche successivamente, ogni volta che sarà possibile, perché ci sono dei costi. C’è il pianista che suona da sempre con me, il contrabbassista e il chitarrista pure, così come il sassofonista che ha lavorato molto con me. Gli altri musicisti me li sono fatti presentare, li ho incontrati e li ho chiamati a registrare. Registravo una canzone per chitarra e voce o poco più, dopo ogni strumento dava il suo contributo in base alle necessità per dare un colore o un’atmosfera particolare. Davo delle piccole indicazioni su come intervenire e poi loro aggiungevano lo strumento. Se c’era da aggiungere il violino era più semplice; era più complesso, invece, quando dovevamo usare un sintetizzatore e per quello c’era da ragionare di più, ma abbiamo fatto tutto in maniera assolutamente simmetrica e senza nessun problema di rapporto. Io sono andato lì con delle idee generali per ogni canzone, poi ognuno ha dato il contributo che riteneva di dare.
Hai lavorato a lungo nel mondo dell’educazione: quali di queste canzoni ti auguri possa farsi strada anche in quell’ambito e come pensi potrebbe trasformarsi l’educazione musicale nella scuola italiana?
È una bella domanda. Dal mondo della scuola mi sono distaccato da parecchi anni. Insegnavo in una scuola elementare e penso che, così come sono, nessuna di queste canzoni possa essere cantata da un bambino, a meno che qualcuno non trovi qualche pezzo come quelli dedicati a Venezia che possa essere adattato. Con il mio chitarrista e il giornalista Edoardo Pittalis, spesso ci chiamano nelle scuole per cantare canti storici legati, per esempio, alla Seconda Guerra Mondiale o all’Italia che rinasce dopo la guerra, oppure il problema dell’infanzia o dell’immigrazione su cui abbiamo lavorato parecchio. Lì eseguo canzoni che fanno riferimento a quel tema, proiettiamo delle immagini e racconta queste storie. In questi incontri di tipo didatti, pedagogico e culturale se c’è qualche canzone mia che possa essere funzionale la canto. Certo se dovessi raccontare lo sviluppo industriale di Porto Marghera e della sua fine, ce la metterei di sicuro perché.
Come pensi potrebbe trasformarsi l'educazione musicale nella scuola italiana?
Bella domanda anche questa! Per trasformarsi oltre alla semplice educazione, servirebbe un’educazione al suono. Bisognerebbe avere chiari gli obiettivi, capire cosa ci si aspetta da una classe di terza elementare in questo senso. Sono pochi gli insegnanti che lavorano su questo piano perché magari sono musicisti, ma ci dovrebbe essere un’indicazione precisa. Ci sono esercizi, esperienze ma non esiste un modo per aiutare un insegnante a fare un programma preciso per una quarta, una quinta, una prima o una seconda. Ho scritto più di qualcosa quando mi occupavo di scuola. La riflessione da fare è che spesso l’eduzione musica o non si fa, come non si fa educazione civica oppure la si fa cantando una canzoncina insieme come quelle di
Rodari, sempre se il maestro o la maestra sono intonati e riescono a suonare in modo accettabile. I bambini cantano queste canzoni, che è una cosa deliziosa, l’ho fatto anch’io cantare con i miei ragazzi. Ho scritto delle canzoni per loro, o scritte con loro. L’altro aspetto da tenere in conto è che viviamo in un mondo circondati da suoni che hanno delle caratteristiche particolari per la nostra vita. Se senti un rumore, mentre aspetti l’autobus selezioni tra i vari suoni di macchine… Bisogna fare in modo che i ragazzi sappiano decifrare e descrivere i suoni. Fare una mappa dei suoni non è una cosa che ho inventato io, ma c’è uno studio di tanti anni fa della scuola francese. È necessario che i ragazzi riescano a distinguere i suoni che scandiscono la giornata, quello che ti danno delle emozioni. Ascoltando il paesaggio sonoro lo riconosci e lo ridescrivi, questo è l’approccio: l’educazione al suono è questo. La musica si collega a questo. Cosa è che fa musica? Sono suoni particolari. Questo è un lavoro interessante e l’ho fatto per un paio d’anni quando avevo il tempo pieno con gruppi di quindici ragazzi e ho avuto immediatamente dei risultati interessanti. Mi ricordo che mi dicevano: “Ascolta che bella musica sta facendo questa moto”. Il suono cambia, cresce, cala… è importante capire anche la trasformazione di un suono meccanico. Nella vita quotidiana ci sono dei suoni che sono delle tracce permanenti come il suono delle fabbriche o le campane della chiesa sono suoni con una traccia culturale, storica o di memoria come durante un funerale. Quelle campane raccontano una storia all’intera comunità e la coinvolgono. Il suono organizza la vita sociale perché scandisce il tempo. È importante, insomma, che sin da bambini ci si renda conto che, nella vita quotidiana, il suono ha una presenza fortissima che raramente viene avvertita.
Quali nuove attività hai in cantiere?
Ho ottantun anni e penso che per altri sette o otto anni potrò essere capace di fare cose sensate, se non lo sono è meglio non farle. Vorrei riprendere un po’ il materiale popolare e, dopo aver fatto un disco come “Addio Venezia Addio”, che registrai in presa diretta, pensavo di farne un altro allo stesso modo utilizzando canti popolare, trattati con la massima delicatezza e rispetto, ma anche con un’apertura. È una cosa difficile, perché rischi di fare una ripetizione pure e semplice del liscio… e qui ritorna un po’ il discorso che facevamo prima.
Alessio Surian e Salvatore Esposito
Gualtiero Bertelli – In giorni come questi (Nota, 2024)
Si rinnova la pluriennale collaborazione fra Gualtiero Bertelli e le edizioni Nota: ottavo album in cui la parte testuale rimane corposa (42 pagine) e utile a “leggere” le canzoni raccolte nel CD, con un’ampia introduzione curata da Edoardo Pittalis. C’è stato tempo per far germogliare, raccogliere e sedimentare questi brani. Il risultato è un lavoro con registri narrativi e quadri sonori diversi, legati dall’inconfondibile vocalità e umanità di Bertelli e dal dialogo con il lirismo dei compagni di viaggio, dal controcanto del flicorno di Davide Boato (“In ‘sta cità”) ai cinque toccanti interventi di Michele Gazich al violino e alla viola. Completano il gruppo il violino di Stefano Olivan (già con Bertelli in “Il custode della miniera”), le tastiere e il basso di Luca Pulignano, e musiciste e musicisti con cui la collaborazione è più che ventennale: le voci delle “Streghe” Giuseppina Casarin e Cecilia Bertelli, le percussioni di Rachele Colombo, i fiati di Maurizio Camardi così come con le chitarre di Simone Nogarin, il pianoforte di Paolo Favorido e il contrabbasso (e violoncello) di Domenico Santaniello, in sezione ritmica insieme alla batteria di Marco Carlesso. Dodici musicisti per dodici canzoni con una inedita e variabile geometria sonora (dal settetto al duo) con cui Gualtiero Bertelli precisa e amplia le coordinate della sua cartografia musicale. Il cuore è sempre a Venezia, nella lingua veneziana, nei profondi cambiamenti subiti dalla città.
A metà album, fra le pieghe finali di una canzone che prende la forma di un punto di domanda spunta un verso che si fa ago e cuce una trama ad abbracciare l’intero lavoro: “tra un mar che gera e un sielo che no xe” (tra un mare che era e un cielo che non è), la fotografia di una ricerca poetica e musicale specchio di maturità personale capace di trovare la giusta distanza senza allontanarsi, anzi, allacciando legami più stretti con i luoghi e le persone importanti. Non a caso, questa dimensione di profondità accompagna i versi che raccontano gli ultimi sguardi di un amico e la sua decisione di scegliere quando interrompere lo scorrere dei giorni, prima che quello scorrere diventi “snaturarsi”. Il rischio (o la costatazione) di perdere la propria natura offre una seconda chiave di lettura dei versi cantati, specie quando interrogano i giorni attuali, “tempo di capire che non abbiamo capito”. Questo lavoro consolida anche il rapporto con Michele Gazich: Bertelli aveva accettato l’invito a cantare “Ho incontrato Michele Straniero” nell’album realizzato da Gazich con Federico Sirianni “Domani si vive e si muore”. Ora Gazich interseca la voce del violino a quella di Bertelli già nel titolo d’apertura, “Vusto meter!”; rende palpabile, insieme al violoncello di Domenico Santaniello, il senso di “Assenza”; offre un puntuale controcanto in “Reoplani”, la necessaria tensione in “Streghe”, il giusto sostegno in “Ma chi te ga roba’” allo struggimento della voce e della fisarmonica, prima che rimanga sola e dolente a cantare la storia di “Teresina”. Chiudono l’album i versi (tradotti in italiano) scritti in latino oltre duemila anni fa da Sesto Aurelio Properzio: “Meglio felici o meglio allineati? (…) Questo amore è possibile”, con la fisarmonica a cesellare la melodia, accompagnata sommessamente dagli arpeggi della chitarra classica.
Alessio Surian