Convegno Internazionale di Studi “Le musiche tradizionali in Conservatorio. Problematiche e prospettive”, Museo Marca, Catanzaro, 24 - 25 Gennaio 2025

Nella mentalità classica serpeggiano continuamente le antinomie eccellenze/competenze così come quella tra lo studio della storia della musica come arte, intesa come canone, o come pratica, intesa come concetti e comportamenti verso da definizione di cosa la musica realmente sia. L’intervento squisitamente didattico di Serena Facci dell’Università di Tor Vergata di Roma ha puntualizzato come nella scuola di base l’obiettivo sia quello di formare non alla musica ma con la musica. Per attuarla sono necessari dei processi che tengano conto della didattica ma anche della autodidattica e della trasmissione formalizzata nell’interazione tra maestri, procedure e percorsi che evitino di congelare la tradizione, ovvero una didattica che necessita di esigenze conservative o viceversa e di un’apertura indotta dalle esigenze, dei rapporti tra città e campagna e ponendo l’accento sui contenuti della formalizzazione didattica come i rapporti tra oralità e scrittura e la pratica dell’ascolto. Dal dibattito sono emerse delle interessanti riflessioni come quella di affiancare allo studio del paesaggio sonoro, che contribuisce all’esercizio aurale, in un auspicabile accostamento dell’etnomusicologia alla ecomusicologia nell’ottica indicata da Steven Feld. “Il musicista tradizionale nell’Era contemporanea: dalla formazione alla performance” è stato il tema del musicista pugliese Massimiliano Morabito che si è soffermato su alcuni aspetti fondanti delle figure degli insegnanti e degli allievi dei corsi di musica tradizionale, quali il problema del reclutamento, in particolare dell’esigenza di uniformare la valutazione dei titoli in entrata per i docenti e della necessità di
una standardizzazione dei programmi proponendo una parte istituzionale omogenea accanto ad una parte monografica flessibile. Inoltre ha posto l’accento sulla difficoltà di accesso e consultazione degli archivi per via dell’alto tariffario e ha suggerito di adottare qualche forma di abbonamento. Per quanto riguarda il passaggio dal rito alla performance ha individuato due tipi di repertorio, l’uno tipico di un luogo, ovvero una fonte primaria e che non segua schemi fissi, passando flessibilmente dalle radici in continuità all’innovazione in discontinuità. Il direttore d’orchestra, compositore e direttore d’orchestra algerino ed esperto culturale UNESCO Salim Dada, nella sua relazione “Oralità e Scrittura: la mia storia tra due universi” ha raccontato la sua personale esperienza di musicista arabo che si è trovato ad operare in occidente presentando tre suoi lavori musicali in cui ha creato un ponte tra passato e presente, tra oriente e occidente, utilizzando l’oralità come memoria e la scrittura come cristallizzazione. Alla ripresa pomeridiana l’antropologo dell’Università di Siena Fabio Mugnani ha parlato di “Tradizione e patrimonio: traduzione o tradimento” scandagliando ognuno di questi termini soprattutto nell’ottica critica con cui l’UNESCO seleziona le candidature che faranno parte del patrimonio comune, inteso anche come immateriale e giuridico che deve essere detenuto da un potestà gestionale ed avere un titolare, un àmbito e delle funzioni scritte. La tradizione diventa patrimonio, ma passando da un codice all’altro mediante la trascrizione si perde però la fenomenologia espressiva del corpo (gesto, sguardi ecc.), così come il contesto, ovvero l’interazione del pubblico, il senso, le funzioni e le finalità, rischiando di far diventare la tradizione un tradimento. Molte tradizioni sono etnocentriche e autoreferenziale e si evince un netto contrasto tra quelli che sono i presupposti e le realizzazioni. In altre parole bisognerebbe pensare come e cosa può essere patrimonio comune. L’antropologo Paolo Apolito dell’Università di Roma 3 nel suo intervento “Feste, ricerca sul campo, trasmissione culturale e musicale” ha portato la metafora della mamma che interagisce con il bambino per spiegare come i continui incroci sincronici ed empatici determinino il dialogo intimizzante che è alla base della festa intesa come primo
principio di trasmissione culturale. Successivamente, con “Le comunità musicali”, Giuliana Pella, coordinatrice della Scuola Popolare di Musica di Testaccio di Roma ha parlato della sua esperienza in questa ormai gloriosa struttura che quest’anno compie cinquanta anni e che attualmente ospita cento laboratori, cinquanta corsi e conta ottocento iscritti e dove divulgazione professionismo continuano ad incontrarsi, ponendo l’orizzontalità al posto della verticalità con al centro la circolarità e la ricerca-azione. Nella pausa si è avuto il primo intervento musicale di “Les Mystere du voix calabres”, un quartetto vocale formato da Alessio ed Andrea Bressi, Giuseppe Gallo e Giuseppe Muraca, che a cappella e in modo polivocale esegue canti di mietitura, d’amore ed altri momenti che segnavano la vita agropastorale, recuperati dalla tradiziona orale. A seguire, una tavola rotonda dal titolo “Esperienze fuori d’Italia a confronto”. Coordinata da Andrea Piccioni è stato un momento di polifonia esperienziale tra i più importanti del convegno, proprio perché hanno portato le loro riflessioni e ricerche, studiosi provenienti da diverse parti del mondo come Zoe Dionyssiou (Università Ionia di Corfù, Grecia), Róisín NíGhallóglaich, (Irisch World Academy of Music and Dance, University of Limerik, Irlanda), Cati Plana (ESMC , Barcelona, Spagna), Johnny McCarthy (MTU, Cork School of Music, Irlanda) Unni Lovlid (Norwegian Academy of Music, Oslo, Norvegia), Socratis Sinopoulos (Università di Macedonia, Salonicco, Grecia). La seconda giornata si è aperta all’insegna di un omaggio video da parte del conservatorio alla mai non abbastanza ringraziata Giovanna Marini, scomparsa lo scorso anno. Si è così dato avvia alla seconda sessione con la seconda tavola rotonda che aveva come tema “L’etnomusicologia, le musiche che si spostano, le tradizioni”, coordinata dall’etnomusicologo Sergio Bonanzinga dell’Università di Palermo e a cui hanno partecipato la citata Serena Facci, Guido Raschieri (Università di Trento), Fulvia Caruso (Università di Pavia), Nico Staiti (Università di Bologna). Anche da questo momento, tutto italiano, sono emerse interessanti riflessioni sulla trasversalità della musica tradizionale (Bonazinga), sul Folk revival nel Nord Italia (Raschieri), sul patrimonio dei liutai cremonesi (Caruso), sulla forma della Pagliarella (Facci),
sull’importante progetto di trascrizione tra oralità e scrittura dell’Orfeo di Monteverdi che l’etnomusicologo sta curando insieme alle maestranze del conservatorio calabrese. Un momento di acceso e inaspettato dibattito che ha coinvolto il pubblico presente in sala è stata la presentazione del progetto “La casa della Musica: un’anteprima” a cura del filmaker Nicola Carvello del Sound designer Francesco Silipo e del fotografo Angelo Maggio. Il video proiettato riguardava la ripresa filmica delle feste popolari utilizzando l’AI. L’intento programmatico del team e dei committenti è sicuramente quello di mettere a punto un modo nuovo di documentare e conservare eventi tradizionali nella prospettiva della costituzione di un archivio regionale. Inaspettatamente però la discussione è virata sull’ opportunità che, nel bene e nel male, offrono i nuovi orizzonti tecnologici che, se da una parte costituiscono una grande risorsa, dall’altra allontanano dalla percezione fisica di vivere quella esperienza fisicamente, acusticamente ed emozionalmente. Kirill Kuzmin (Egitto) ha presentato l’interessantissimo progetto “Aga Khan Music Programme-Safeguardig the Future of Musical Past” incentrato sulla salvaguardia della musica classica, sia pure contaminata, dell’Asia Centrale e che vede nel “Aga Khan Music Awards” il suo punto focale e che ha in una copiosa produzione di CD e di un prezioso volume il momento di grande diffusione. A seguire Vincenzo Gagliani, Dottore di ricerca presso il Conservatorio Tchaikovsky ha presentato “Tradizioni, tecnologie e didattica: il caso della World Music Academy” di San Vito dei Normanni, un’eccellenza musicale del Sud Italia. Gagliani ha parlato dell’incisività di questa realtà sia sul territorio locale che nazionale e delle modalità didattiche basate su improvvisazione, modularità, condivisione e dimensione circolare. Un momento di interazione tra i presenti con un taglio internazionale è stato quando l'etnomusicologo Ed Emery (SOAS, Londra GB) ha introdotto Samil Dado con il bendir in mano ed insieme hanno coinvolto i presenti nell'accompagnamento di un maqam. La relazione di Ed Emery aveva il curioso e provocatorio titolo “La maledizione della notazione e il primato dell’auralità”,
proprio per sancire la preminenza dell'oralità sulla scrittura nei repertori tradizionali. Nella pausa c'è stata l'esibizione di alcuni allievi della classe di chitarra battente del conservatorio calabrese guidata da Francesco Loccisano, i quali si sono esibiti con brani di loro composizione, dato di rilievo se si pensa che l'invenzione musicale nei conservatori è relegata soltanto alle classi di composizione. Nada Gitto docente nello stesso Conservatorio calabrese è intervenuta con Breve storia delle musiche tradizionali nei conservatori italiani”. Dall'intervento finale degli studenti sono emerse alcune criticità dei programmi ministeriali, peraltro già evidenziate da alcuni relatori, che necessiterebbero di integrazioni e in parte di una riformulazione. Nell'ultima tavola rotonda dal titolo “Esperienze italiane a confronto”, si sono potuti interfacciare i protagonisti Francesco Magarò (Conservatorio di Campobasso), Roberto Mileddu (Conservatorio di Cagliari), Paola Barzan (Conservatorio di Castelfranco Veneto), Daniela Geria (Conservatorio di Reggio Calabria) e Maurizio Rolli (Conservatorio di Pescara) coordinati da Claudio Di Massimantonio (Direttore del Conservatorio dell’Aquila). Nel presentare i lavori quast’ultimo ha riconosciuto pari dignità ai diplomi di musica tradizionale e di conseguenza una convergenza programmatica e di una storicizzazione anche della tradizione orale, portando l'esempio della forma borderline della passacaglia. Tutto, quindi, ha girato intorno al concetto antropologico di festa, che in modo circolare, è stato presente anche nei momenti
conviviali, specialmente nelle cene serali, brulicanti di musica, sapori, sfrenate danze sulla tarantella calabrese piuttosto che di quella salentina montemaranese. Questi momenti sono stati molto apprezzati dai convegnisti poiché in fondo si ricreavano quelle situazioni emiche che durante i momenti teorici delle giornate erano l’oggetto stesso del convegno. É stato in quei momenti infatti che sono state messe in atto le competenze dei numerosi allievi che, in modo centripeto, frequentano settimanalmente il Conservatorio calabrese da Torino, da Roma e tante altre parti d’Italia, per una volta un esempio di spostamento al contrario. Sono stati proprio loro con il loro entusiasmo, le loro aspettative, i loro sguardi curiosi e vivi attraverso i loro occhialini, le curate barbette contornate da codini o da lunghi capelli sciolti, il valore aggiunto di quei momenti che hanno puntualizzato l’obiettivo finale del piano di studi del conservatorio, ovvero quello non di formare chi sa suonare ma dei suonatori (come ha sottolineato Gatto nella sua prolusione). É stato nelle due festose serate conviviali che le diverse proposte musicali etniche delle giornate hanno formato un ponte culturale tra il nord Europa e il Mediterraneo, passando dalla Grecia o dall’Algeria. L’universale ritmico del sei ottavi, base della tarantella, ha incontrato le danze irlandesi e i ritmi additivi del maqm arabo, balcanico o dei compas flamenco, compenetrandosi l’uno nell’altro senza soluzione di continuità e dimostrando che la musica è tutta sotto lo stesso cielo. I temi dell’incontro hanno ruotato intorno a dei concetti base dell’etnomusicologia come quello dei rapporti tra oralità e scrittura, i comportamenti musicale nelle varie culture, le abilità e competenza in entrata e uscita richieste a chi si approccia a questo mondo, in una parola all’umanità musicalmente organizzata. Per questo chi ha pensato l’evento ha invitato delle figure professionali specifiche come etnomusicologi, antropologi, esperti di didattica e pedagogia musicale che hanno messo sul tappeto i temi fondanti delle loro discipline che si sono incontrati nel terreno comune della musica come cultura. Un ottimo risultato per il Tchaikovski quello raggiunto con questa iniziativa, un inizio che spinge i conservatori a diventare sempre più ‘conservastorie’ e a trasformare l’oralità in ‘coralità’. Questa volta il vento di cambiamento viene dal profondo Sud e davvero non è poco. 

Francesco Stumpo

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