Studiosa della circolazione transnazionale delle musiche, della diaspora sud-asiatica e della tradizione musicale colta indostana, Laura Leante insegna etnomusicologia presso il Dipartimento di Musica dell’Università di Durham, Regno Unito. Il volume in esame è l’undicesimo della collana Intersezioni Musicali, curata dall’Istituto Interculturale di Studi Musicali Comparati, diretto da Giovanni Giuriati e affiliato alla Fondazione Giorgio Cini di Venezia, in collaborazione con l’editore friulano Nota. Il sottotitolo, “Identità e significato nella circolazione transnazionale della musica”, rivela che la ricerca, condotta nei primi anni del nuovo millennio, è incentrata su processi in atto nel mondo globale, con particolare attenzione all’India e al Regno Unito. È importante chiarire fin dall’inizio che, parlando di musiche British-Asian, non si fa riferimento alle tradizioni musicali del subcontinente indiano, ma piuttosto a una varietà di generi diasporici nati dall’incontro tra le culture indiana e inglese. Le musiche British-Asian comprendono la produzione di musicisti di discendenza sud-asiatica, nati o residenti in Gran Bretagna. Si tratta di repertori emersi negli ultimi decenni del Novecento, che si sviluppano e circolano in una dimensione transnazionale tra il Regno Unito e l’India. Per affrontare l’oggetto di studio, Leante coniuga metodologie etnomusicologiche, che includono l’osservazione partecipante e la ricerca etnografica sul campo, specificamente multi-situata (in India e Inghilterra), e procedure di analisi dei processi di produzione discografica e di mediatizzazione, tipiche degli studi di popular music. Il volume si apre con la prefazione di Giovanni Giuriati, il quale inquadra e contestualizza lo studio, evidenziandone la rilevanza sia nei termini di approccio metodologico sia di espressioni musicali analizzate. Nella sua introduzione, Leante produce anzitutto una ricognizione critica della categoria di world music, chiarendo che uno degli obiettivi del lavoro è contribuire al dibattito sullo studio delle musiche diasporiche. In questo contesto, l’autrice adotta la posizione di Jean-Loup Amselle, che vede la musica come un “significante globale a cui vengono attribuiti significati locali, culturalmente veicolati” (p. 16). Successivamente, l’etnomusicologa presenta i due casi di studio che costituiscono il fulcro della ricerca: il bhangra, come espressione collettiva, e la produzione del musicista e produttore di Rochester Nitin Sawhney, manifestazione di un’identità artistica più individuale. La ricerca si concentra sui primi anni del millennio, nella fase di massima diffusione di queste musiche. Il volume è diviso in due parti. La prima sezione analizza i contesti esecutivi del bhangra nella sua presunta regione di origine, il Punjab, attuale area nord-orientale del Pakistan, e la pratica musicale nella diaspora britannica. Subito dopo, il focus si sposta su identità e significato nel bhangra transnazionale. Nella prima metà del Novecento, nel Punjab, era diffusa una danza rurale chiamata bhangra. Oggi, tuttavia, il termine bhangra ha assunto una pluralità di significati: può, infatti, indicare una varietà di generi di origine sud-asiatica, una danza coreografata eseguita sia nello stato indiano del Punjab sia presso le comunità della diaspora punjabi e, non da ultimo, una forma di popular music influenzata da stili anglo-americani, emersa dalla tradizione di ballo e canto folk del Punjab. Tra le generazioni più giovani, peraltro, il termine bhangra è anche utilizzato come sinonimo di Punjabi pop, includendo la produzione di musicisti, cantanti e DJ di origine punjabi. Il terzo capitolo esplora il ruolo centrale di uno strumento a percussione nei processi identitari (“La nascita di un mito: il dhol in Gran Bretagna”), illustrando il cambiamento di status del grosso tamburo, le sue modifiche organologiche e la sua diffusione. Il dhol è un tamburo a doppia testa, diffuso sia nell’India settentrionale che in Pakistan, utilizzato in contesti rurali e cerimonie. In Gran Bretagna, il dhol ha acquisito un nuovo significato, diventando un’icona della musica British-Asian e uno strumento che connette tradizione e modernità. Si tratta di un fenomeno autonomo rispetto alla tradizione punjabi, tanto che si è perfino diffuso un nuovo modello di tamburo, la cui creazione è attribuita a suonatori residenti nel Regno Unito, che sembrerebbe derivare dall’incontro con il modo di suonare la batteria. Inoltre, questa “moda” del dhol britannico ha attirato le critiche dei suonatori punjabi, i dholis. Lo strumento ha perfino varcato i confini delle comunità sud-asiatiche per influenzare anche altri generi musicali e si è diffuso diventando un emblema urbano multiculturale, riflettendo in tal senso un processo di appropriazione e di risignificazione culturale. Nella seconda parte del libro, l’attenzione si sposta sulla musica di Nitin Sawhney, musicista e produttore che rappresenta un’altra dimensione dell’identità culturale British-Asian, creatore di un crossover che attraversa generi colti e popular. Il focus privilegia “Serpents” (contenuto in “Beyond Skin” del 1999), uno dei brani centrali per interpretare semioticamente le dinamiche culturali, il significato e la ricezione da parte del pubblico della composizione e, più in generale, del repertorio di Sawhney. Il capitolo finale (“Identità, nostalgia e la rappresentazione dell’India nella musica British Asian”) propone un’analisi comparata di come il bhangra e Sawhney si relazionano con la rappresentazione di un’idealizzata patria ancestrale. Tutto si conclude con una riflessione sulla scena musicale British-Asian contemporanea, affrontata diacronicamente nella postfazione (“le musiche British Asian ieri e oggi”).
Il volume di Laura Leante appare, in definitiva, un contributo di significativa rilevanza, rappresentando una chiave di accesso a repertori musicali non tanto conosciuti e offrendo una prospettiva storico-documentaria su un aspetto di quell’insieme eterogeneo di espressioni musicali che è stato etichettato world music, termine mai amato da una parte dell’accademia e oggi caduto addirittura in disgrazia. Se per “etnografia della musica” si deve intendere la capacità di coglierne il cambiamento, comprendere il suo farsi come pratica ma anche il suo simbolizzare modi di essere, di pensare e di appartenere, dunque questo lavoro fornisce valide coordinate metodologiche per indagare manifestazioni musicali globali.
Ciro De Rosa