Acclamato dalla critica internazionale come uno tra i più importanti e influenti “blues troubadour”, Eric Bibb approda allo Scala Theatre di Stoccolma con una scorta di canzoni praticamente illimitata. Da un lato perché la sua carriera copre, ormai, un cinquantennio: il primo album “Seans the best” risale, infatti, al 1972. Dall’altro perché Bibb - newyorchese classe 1951 - ha incamerato tutto il blues del secolo scorso - e forse anche qualcosa di più. D’altronde, come raccontano puntualmente le cronache, oltre ad aver collaborato con grandi artisti (come Taj Mahal, Odetta, Charlie Musselwhite, Guy Davis e Bukka White), Eric Bibb ha potuto assorbire a pieno la cultura folk del Greenwich Village. Sembra infatti che, grazie a suo padre Leon - attore, attivista e folk Singer - Dylan, Beaz e Seeger capitassero spesso a casa sua. Nulla di più naturale, allora, che caricare sulla sua chitarra - precisa e piena di aria fresca - una manciata di canzoni del suo canzoniere e di quello tradizionale, e cantarlo dal vivo. Nulla di meglio che selezionare dieci brani e pubblicarli in un album: un live alla scala di Stoccolma (città dove Bibb attualmente vive), bello e delicato, calibrato alla perfezione, attraversato da tutta la grazia di una sessione magica, allineata al millimetro. Se nel panorama internazionale del blues può essere intercettato un “fattore Bibb”, lo si può riconoscere proprio nella centralità degli elementi basilari: la voce, mai troppo piena ma regolata e armoniosa, la chitarra acustica, sfiorata dentro quella distanza essenziale che trattiene ogni sfumatura e ogni timbro, la cadenza della band, che si articola in un fluido sonoro morbido e caldo: mai sopra le righe. Mai oltre la regola Bibb: piano ma deciso, forte ma morbido, delicato, deformabile fino al soffio più lieve e al tocco più leggero. Un album così, in cui confluiscono tutti i fonemi del linguaggio blues, diviene la trasfigurazione di un racconto, di un romanzo breve ma denso ed equilibratissimo, che si rinnova dentro ogni parola. E, con la perizia di un esperto, dentro ogni respiro. Vale a dire una storia mai complicata e sempre chiara, nella quale i pieni e i vuoti, le pause, i silenzi e i suoni hanno lo stesso peso. Non si ha quella sensazione del parlare cantando che spesso i bluesman trasmettono (senza ridurre mai, ma al contrario reiterando l’intonazione e il ritmo del discorso). Si percepisce, piuttosto, l’attenzione alla completezza del racconto che, perfettamente modellato sulle e tra le parole, risuona di ogni singolo elemento. Su questo flusso narrativo si innestano - grazie alla sua ordinata morbidezza - fonemi a volte inaspettati, che creano e, allo stesso tempo, bilanciano un suono sempre originale. Attenzione, l’originalità del suono va ricercata, in questi casi, nella sua consistenza e nella relazione entro cui si costruisce, entro cui si forma. E Bibb, che sembra voglia trasmetterci proprio questa essenza di base, elabora un metodo, definendone processo e struttura. Pienamente pervaso dal canzoniere (la grammatica blues afroamericana) e ben piantato sugli elementi che ha incorporato, alleggerisce il peso. Non sfoltisce agendo solo sulla quantità (a ben vedere gli strumenti cardine, gli agenti del blues tradizionale, ci sono tutti), ma disciplina agendo sulla qualità. La quale viene articolata in una miscela ricalibrata, in cui gli agenti operano con una nuova visione, entro spazi e attraverso ruoli nuovi. Non stupisce, allora, che la steel guitar (di Johan Lindström) proceda per brevi ma fondamentali incursioni, evitando di rendere troppo scivolosa la superficie dei brani e consentendone la piena comprensione, anche attraverso le asprezze (come sappiamo, spesso accade in nome di una specie di legacy identitaria, di carattere, erroneamente percepita come necessaria e probativa). Non stupisce, continuando in questo solco, che compaiano strumenti “originali”, come arpa (Greg Andersson), violini (Hanna Helgergren e Sarah Cross), viola e violoncello (Christopher Öhman e Josef Ahlin), e che la kora di Lamine Cissokho intervenga nel ruolo di ponte, organizzando una punteggiatura che allaccia il blues di Bibb con la sponda orientale dell’Atlantico. Tutto questo flusso si muove tra le mani sapienti di Glen Scott, raffinatissimo produttore, qui anche al basso, tastiere e batteria (con cui Bibb ha realizzato “Ridin’”, l’album che nel 2021 è stato nominato ai Grammy nella categoria “Best Traditional Blues”).
Daniele Cestellini
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