Salvatore Morra, Mālūf. Suoni dal Mediterraneo arabo, Edizioni Museo Pasqualino 2023, pp. 176, euro 19,00

Nel catalogo delle edizioni Museo Pasqualino, dirette da Rosario Perricone, rifulge la bella collana Suoni&Culture diretta da Sergio Bonanzinga che è interamente dedicata a pubblicazioni di carattere etnomusicologico e che si è da poco arricchita di un nuovo lavoro, il dodicesimo, dedicato questa volta al mālūf. L’autore, Salvatore Morra, musicologo e suonatore di liuto ‘ūd, definisce il mālūf come: “(…) il genere musicale più complesso in Tunisia.” Una simile complessità deriva, secondo Morra, dalla capacità che il mālūf ha di saper accogliere “molteplici forme musicali presenti nell’area (nūba, qasīda, shgul, bashraf, istikhbār, zendelī, mūwashshahāt e zajal)” oltre che dalla sua “mancanza di connessione a specifici contesti religiosi, rituali o cerimoniali” che lo rendono il genere preferito per lo svago, la festa e, forse per questo, come accade altrove sul pianeta, lo lasciano aperto a influenze stilistiche diverse che, nel caso specifico, provengono dal mondo africano, egiziano e turco-ottomano. Definire il mālūf è, insomma, un compito complesso anche perché in Tunisia esso muta secondo il momento storico, l’area geografica, la classe sociale e il contesto di esecuzione. Esso viene considerato da Ruth Davis “musica d’arte tunisina”; da Mahmud Guettat, emerito autore della prefazione, viene messo in relazione con la suite detta nūba, ma, secondo Morra, tutte queste definizioni dipendono soprattutto dal loro contesto e in questo lavoro l’autore sceglie di usare il termine mālūf come definizione ampia della musica tunisina tout court. Dopo queste considerazioni iniziali, il primo capitolo introduce il lettore alle principali caratteristiche musicali del mālūf: per far questo, Morra accenna innanzitutto al vasto sistema musicale modale del maqām declinato nel vasto mondo islamico in varie accezioni locali (makam turco, mugam azero, maqom centroasiatico, muqam uiguro, radīf persiano) e in questo mare distingue la specificità tunisina ponendo l’accento su due altri termini che vengono impiegati correntemente nell’area, che sono: nagham (“melodia, motivo”) nel Levante arabo e tb‘ (plurale, tūbū‘: “natura, temperamento”) nel Nord Africa. Da questa premessa l’autore passa a prendere in esame gli “utensili”, ossia la grammatica del tb‘ tunisino, le frasi musicali comuni, i percorsi di modulazione, i cicli ritmici, le norme di abbellimento, le convenzioni estetiche, le forme e gli strumenti musicali, gli ensemble (dal takht al jawk) e la loro evoluzione, temi dai quali traspare la sensibilità del musicista. Il secondo capitolo affronta il complesso nodo dei rapporti tra il mālūf e la tradizione arabo-andalusa censendo gli studi che hanno “utilizzato il mito delle origini andaluse per conferire autorità alle trascrizioni musicali dopo l’indipendenza” e ponendoli a confronto con gli studi composti più di recente. Va notato come il tema delle origini mitiche e mitizzate di una data tradizione musicale sia ricorrente anche altrove: si pensi al musicista, cantore, compositore e musicologo ‘abd al-Qādir Marāghī (?-1435), che da Herat avrebbe inviato nel 1422 il suo trattato Maqāsid al-Alhān (“i significati delle melodie”) al sultano Murad II con una carovana che raggiunse Bursa, allora sede della corte ottomana, e come questo omaggio venga considerato l’inizio simbolico della musica d’arte ottomana; si pensi alla formazione del muqam uiguro e al ruolo mitico che vi avrebbe avuto l’opera della regina Āmānnisā Khān Nāfisi (1526-1560), oppure si pensi alla figura del poeta e musicista Amir Khusrau (1253-1325) per la tradizione del qawwālī indo-pakistano e afghano. Ma si pensi soprattutto alle operazioni attuate in seguito, dai rispettivi ministeri della cultura, turco, uiguro, cinese e indiano/pakistano, intorno a questi autori. Nel caso specifico della tradizione arabo-andalusa, la figura mitica di riferimento è quella del poliedrico Ziryāb (789-857), virtuoso di liuto a manico corto ‘ūd, cantore e compositore, che lasciò Baghdad e la splendida corte del califfo abbaside Hārūn al-Rashīd, per giungere, verso l’822 d.C., alla corte di ‘abd-al Rahmān II a Cordova dove avrebbe creato d’un tratto il corpus delle ventiquattro (!) suite della nūba arabo andalusa. Nel capitolo aleggia la figura del barone Rodolphe d’Erlanger (1872-1932), appassionato musicista e musicofilo che coordinò i lavori del gruppo di studio che tradusse i grandi testi della “musica araba” e che fortemente volle quel titanico e famoso Congrès du Caire del 1932 che mise a confronto i maggiori musicisti e studiosi delle musiche d’arte del mondo islamico. E va notato en passant come ancor oggi la villa d’Erlanger a Sidi Bou Said, da lui stesso battezzata Ennejma Ezzahra, sia un centro musicale importante nell’attuale Tunisia. Complessivamente, la mitizzazione del mālūf “lo pone in una situazione cruciale rispetto al discorso postcoloniale, riflettendo la politica del governo, influenzando l’insegnamento musicale” soprattutto dell’Ente deputato alla musica tradizionale: la Rashīdīa, punto di snodo tra la tradizione orale/aurale e la trasmissione scritta. Nel terzo capitolo l’autore mette in atto un approccio etnografico e affronta il mālūf per come è vissuto e suonato oggi nei locali, nelle scuole, nei caffè pubblici, mettendone in luce il suo rapporto con la società contemporanea. Per far ciò Morra analizza soprattutto le celebrazioni per gli ottant’anni dell’Istituto Rashīdīa, riflettendo così sul ruolo storico di quest’istituzione e sui suoi orientamenti moderni. Nel quarto e ultimo capitolo, l’autore si focalizza sui musicisti di liuto a manico corto ‘ūd e della sua variante forse meno nota, ma assolutamente centrale in Tunisia, che è l’ ‘ūd ‘arbī. Attraverso lo strumento, le sue risonanze, i suoi effetti timbrici, l’autore propone una sorta di mappatura di stili che connotano maestri e località diverse che escono dai moderni confini nazionali della Tunisia e creano un’altra geografia che è tutta sonora. Morra riflette poi sui processi di trasmissione del mālūf e dell’ ‘ūd ‘arbī entrambi imperniati sulla figura centrale dello sheykh (“maestro”), arrivando a toccare i motivi dell’isolamento dell’ ‘ūd ‘arbī che si è avuto nelle istituzioni pubbliche. Anche il momento di passaggio tra l’insegnamento tradizionale orale/aurale, da maestro ad allievo, e la nascita di istituzioni pubbliche, nate sul modello dei Conservatori occidentali dove l’insegnamento avveniva “in classe” e molto spesso su supporti scritti, è comune tra le musiche d’arte del vasto mondo islamico e il lavoro di Morra ha il pregio di fare luce sullo specifico caso tunisino. Il capitolo termina prendendo in esame le attività dei musicisti contemporanei in più località e regioni, “siti per la creazione di intimità culturale”. Il lavoro si avvale di un ampio apparato iconografico, di trascrizioni musicali e propone al lettore una scelta di brani e filmati accessibili tramite QR code e shortlink. In sintesi: un lavoro prezioso che illumina un’area poco nota e conferma la sempre maggiore internazionalità degli studi etnomusicologici pubblicati in Italia e l’eccellenza dei loro autori.

Giovanni De Zorzi

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