Hysterrae – Hysterrae (Linfa, 2023)

Nell’intervista a Hysterrae, il producer e sound engineer Emanuele Flandoli, a una domanda sulle aspettative della band, si dispone in una sorta di attesa propiziatoria rispetto ai riscontri di pubblico e di critica. Di certo il suo schermirsi è stato di buon auspicio, dal momento che nel giro di un paio di mesi gli Hysterrae si sono ritrovati in più tornate tra gli album selezionati nella “Transglobal World Music Chart”, sono entrati nella World Music Charts Europe e hanno ricevuto una lusinghiera recensione da cinque stelle dal periodico “Songlines”, che per le musiche del mondo è inequivocabilmente un punto di riferimento.  
Parliamo di quattro donne provenienti da culture differenti, alle quali si è aggregato un producer di musica elettronica. Le coordinate geografiche abbracciano Iran e Campania, Valle d'Itria e Salento, quelle sonore attraverso un processo di ricomposizione e di commistione di stilemi delle diverse tradizioni musicali intraprendono un viaggio tessuto da voci, corde, flauti, tamburi ed elettronica. Conosciamole: anzitutto, c’è Shadi Fathi (tar, setar e daf), nativa di Teheran, strumentista, concertista e musicologa, profonda conoscitrice della classica iraniana e dei repertori del Radif, appresi al magistero di Ostad Dariush Tala’i, Cinzia Marzo (voce e flauti), cantante e fondatrice di Officina Zoè, uno dei gruppi che ha dato grande impulso alla rinascita della musica salentina; Irene Lungo (voce), già cantante con Opa Cupa e Girodibanda e, precedentemente, nell’alveo di Eugenio Bennato; Silvia Gallone (voce, tamburi a cornice, percussioni e scacciapensieri), cantante e polistrumentista di Officina Zoè che ha suonato con Ambrogio Sparagna e con l’Orchestra Popolare della Notte della Taranta. Insieme a loro agisce da catalizzatore e potenziatore il producer Emanuele PHL Flandoli, con un uso elegante, minimale dell’elettronica. Quella che segue è un’intervista polifonica, che ci conduce nel cuore di Hysterrae, affascinante esordio dall’implacabile impatto sonico. 

Perché Hysterrae?
Silvia Gallone -  Il nome Hysterrae viene da Hyster, in greco “ventre”, e Terrae, genitivo “della terra”. Un focus tematico sulla Madre Terra che trasmette un messaggio di unità legato alla trance, senza confini culturali.

Come vi siete incontrati e come è iniziata questa collaborazione?
Shadi Fathi - Ci conoscevamo già da tempo e avevamo già fatto alcune collaborazioni fra di noi, ma abbiamo iniziato a strutturarci come un vero e proprio gruppo dal 2018, quando Giorgio Doveri, direttore artistico di Irregolare Festival (e da allora anche il nostro manager), ci ha invitato a fare una residenza e un concerto insieme, nel Salento. Il risultato dell'incontro ha entusiasmato sia noi che il pubblico, così abbiamo iniziato a sviluppare un repertorio comune, mescolando le nostre rispettive radici culturali e musicali. Inizialmente il progetto si basava esclusivamente sui nostri strumenti acustici e sulle nostre voci, poi abbiamo iniziato a sperimentare una fusione di suoni acustici ed elettronici, sviluppando il sound odierno di Hysterrae.

Come combinare le vostre diversità?
Silvia Gallone - Lo facciamo rimanendo legati al concetto di Madre Terra, attingendo alle nostre origini ed esperienze musicali. Così ritmi afgani e sufi si avvicinano e si fondono nella pizzica e in altri ritmi e canti del sud Italia. L’elettronica lega il tutto, dando profondità e sospensione, chiude il cerchio della trance.

Ci dite del processo compositivo?
Silvia Gallone -
Nella fase compositiva abbiamo attinto alla ritualità e alla circolarità dei nostri ritmi ancestrali. Elementi legati alla natura, alla vita e al femminino. Ognuno li ha proposti mettendoli in connessione con gli altri per colori ritmici e tematiche comuni, al fine di fondere e trascendere i confini culturali.

Come si è innestata l’elettronica nel sound di Hysterrae nella fase compositiva o si è trattato di uno step successivo?
Emanuele Flandoli - Originariamente, il progetto era nato in forma acustica, con il solo uso di strumenti tradizionali. In quella prima fase io ho partecipato in veste di fonico ad alcuni concerti del gruppo. Poi, sapendo che mi occupavo di produzione elettronica e beatmaking, mi hanno proposto di provare a elaborare un arrangiamento elettronico su alcuni brani. È stato un compito molto delicato, perché secondo me il progetto era già bellissimo e temevo di snaturarlo, ma invece il risultato ha sorpreso tutti, me compreso. Ricordo che immediatamente abbiamo deciso di proseguire su questa strada, che permetteva di sviluppare una palette sonora molto più profonda e variegata, e così abbiamo riarrangiato tutti i brani in questo nuovo stile “ibrido”, per poi arrivare a comporne alcuni nuovi, direttamente ibridati con l'elettronica. 

Parliamo dei testi, aprite con il notevole “Aziz djun”.
Cinzia Marzo - “Aziz djun” è di sicuro il brano che più di tutti esprime l'unione tra le nostre diverse tradizioni musicali. La musica è un linguaggio universale, non c'è bisogno di parlare la stessa lingua: andando invece in fondo alla parte più arcaica della musica le radici che accomunano i popoli sono le stesse, i sentimenti, le passioni, i dolori, il ritmo, nascono sempre dal cuore. La pizzica salentina è 
soprattutto questo ritmo, il battito del cuore, quello che ognuno di noi sente già nel ventre materno, il battito del cuore della madre. I testi dei canti sono a volte incomprensibili, ma le radici e il cuore ci portano a soluzioni inaspettate... È stato abbastanza naturale per me cantare su un brano persiano e scoprire magicamente che anche nella mia incursione in dialetto salentino il tema trattato era lo stesso, magari una risoluzione all'amore perduto ed un monito a non dimenticare prima di tutto sé stessi.

“Ruvida” mette al centro la questione delle relazioni tossiche.
Irene Lungo - “Ruvida” nasce dall'esigenza di essere portavoce di un dolore profondo, del senso di impotenza, della paura che si innesca nel mondo interiore di una donna quando colui che è sempre stato oggetto d'amore si trasforma in carnefice, vanificando e demolendo l'integrità dell'immagine idealizzata dell'affettività nella coppia. “Ruvida” è la voce che trascende il limite tra la rabbia e l'aggressività, tra la fiducia e la paura, tra la libertà e il controllo ossessivo. Ruvida è la pelle che reagisce al suono della voce graffiante, come quando un vento gelido la sfiora e il terrore vanifica ogni tentativo di reazione. Dare voce a queste emozioni anche attraverso la musica ci restituisce, in quanto donne, un senso di “possibilità”, di poter parlare, di potersi esprimere, di poter interrompere quella dipendenza affettiva che induce spesso a subire irrimediabilmente.

In “Tramontana” si incrociano le strade del ballo 'ncopp' 'o tammurro"e del dubstep…
Irene Luongo - “Tramontana” è la rivisitazione in chiave Hysterrae dell'Avvocata (o Tammurriata di 
Maiori) della tradizione campana nella zona della Costiera Amalfitana. Abbiamo intersecato la vocalità principale tipica del canto devozionale con voci corali che scandiscono il senso ritmico a sostegno di percussioni ed elettronica, e con il tar di Shadi Fathi che riprende la linea melodica tipicamente campana, però con sonorità persiane, in una fusione interculturale.
Emanuele Flandoli - Questo è stato il primo pezzo su cui abbiamo iniziato a sperimentare con l'elettronica, e ci sono due influenze per me particolarmente importanti, il dub che caratterizza la prima parte (che mi è stato suggerito dal groove ipnotico della tammorra di Silvia) e la coda dal sapore dubstep che arriva a sorpresa dopo la fronna finale di Irene. Su quella parte cercavo un sound più aggressivo, quasi spiazzante, ed è stata fantastica Shadi ad elaborarci sopra un riff di tar veramente esplosivo!

“Leyli Leyli” fa comunicare griko e dari: come nasce?
Cinzia Marzo - “Leyli” è un canto d’amore, un brano armonioso e corale che ci ha unito sin dal primo momento, la prima esperienza diretta con il persiano afgano (conosciuto anche come dari o farsi orientale, ndr), una melodia classica popolare. "Mia cara Leyli, restiamo insieme e godiamoci il nostro tempo", un canto d'amore verso l'amata ma anche verso un amore per la vita più consapevole. Il griko è l’antico dialetto greco ancora in uso in alcuni comuni del Salento, uno di questi è Corigliano d'Otranto dove ho una buona parte della mia famiglia, un dialetto che ho imparato ed utilizzato frequentemente nei canti 
della tradizione con Officina Zoè... In questo caso ho trovato sia la melodia che il ritmo di "Leyli" perfetti per cantare una antica ninna-nanna grika, che si è incastrata in maniera naturale, come se ci fosse sempre stata: un felicissimo incontro!

Invece, “Pizzicapò” evoca la ronda del ballo…
Cinzia Marzo - La pizzica-pizzica è quel ritmo ossessivo con cui da tempo immemorabile si percuotono tamburelli nella terra Salentina, all'estremo Sud-Est d'Italia... Lo si fa per ammansire la forza oscura e dolorosa che certe persone sentono scorrere nel sangue, per farla suono, voce e passi di danza, e, finché la musica dura sembra possibile perdonare la vita.  La pizzica non è solo il fenomeno conosciuto come Tarantismo: è anche un ritmo che accompagna la festa, ipnotico, che induce stati modificati di coscienza che sono ancora oggi cura, terapia... Il “tempo della festa” è una terapia molto potente per l'anima! La musica non solo per esprimere ma per comunicare e la danza per corteggiare e guarire il cuore, per collegarsi al divino che è in ognuno di noi.

Le coordinate sonore di “Kholy” ci conducono in Asia Centrale
Irene Lungo - “Kholy” è brano tradizionale del Tajikistan, ed è pensato come un sogno in cui si narra la desolazione, lo smarrimento, il vuoto che si sperimenta nel ritornare nel proprio luogo d'origine e non ritrovarlo. La scelta nel disco di questo brano, riarrangiato con suoni elettronici che evocano dimensioni oniriche, si collega ad un momento di sospensione, di ricerca interiore che si direziona nel ritrovare il contatto con il proprio sé e con la madre terra. 

“Jesce Sole” chiude l’album: non proprio una novità, un pezzo che ha subito molti trattamenti. Come mai lo avete inserito?
Irene Lungo - La scelta di questo brano a chiusura del disco è dettata da due ragioni: innanzitutto si prestava ad essere il corollario della mission del progetto, non solo discografico, ma dell'idea con cui si è formata la band. Un inno al sole, in grado, con la sua energia vitale, di far luce sulla necessità di ritrovare un contatto emotivo e spirituale con gli elementi naturali direzionandone il cammino. La seconda ragione è più personale: è stato il brano che all'età di 15 anni mi ha fatto appassionare alle tradizioni musicali della mia terra e mi ha condotta ad intraprendere la carriera di cantante. Per questo l'ho proposto, ed è stato subito ben accolto e inserito nel nostro repertorio: è un brano che è stato già interpretato da molti nella storia della musica napoletana, ma è talmente bello ed antico che non poteva essere escluso. Quando poi Redi Hasa ne ha magistralmente interpretato le linee melodiche ci ha ulteriormente convinti della validità della scelta, e lo ringraziamo infinitamente per la sua preziosa collaborazione!

Cosa vi aspettare da Hysterrae?
Emanuele Flandoli - Non voglio rispondere troppo per scaramanzia! Per ora siamo molto contenti degli ottimi feedback che stiamo ricevendo da moltissimi giornalisti e ascoltatori, non era scontato per un progetto nuovo e con una buona dose di sperimentazione. Diciamo che ci farebbe piacere poter andare il più possibile in tour con questo progetto, perché la dimensione live è quella in cui tutto prende più vita, nel momento in cui entri in contatto “diretto” con la gente.

Che succederà dal vivo?
Emanuele Flandoli - Abbiamo provato a lungo per trasmettere anche nel live la sensazione di profondità, di trance e di ibridazione fra sound acustico ed elettronico. Mescolare i due mondi in un live non è sempre facile, ad esempio nella gestione di loop che necessitano di un click, ma ci abbiamo lavorato parecchio e il risultato nei primi live con questa formazione è stato esaltante! Sul palco abbiamo mantenuto le quattro musiciste/cantanti in prima fila, mentre la mia consolle con computer, synth e controller vari è più indietro, al centro. Anche visivamente, è un ibrido fra un live di musica tradizionale e un live set di un producer o dj. Il bello è che i due mondi non si schiacciano l'un l'altro ma si potenziano a vicenda!


Hysterrae – Hysterrae (Linfa, 2023)
“Ti vedo passare, canto per te, ma non sembri neanche accorgerti della mia presenza. Cosa resta della vita, senza l'amore?”
cantano in “Aziz djun”,  una melodia iraniana che fluisce con naturalezza in un canto a distesa salentino e in un tempo di pizzica che ingloba dense stratificazioni elettroniche. È il superbo biglietto da visita di Hysterrae, che sono Shadi Fathi (tar, setar, daf), Cinzia Marzo (voce, flauti), Irene Lungo (voce) e Silvia Gallone (voce, tamburi a cornice, percussioni, scacciapensieri), quattro donne che portano con sé differenti culture musicali alle quali si unisce il producer Emanuele Flandoli, producer di musica elettronica, centrale nel favorire la coesione di questi mondi sonori. Come nome si sono dati quello di “ventre materno”, conferendo al progetto un messaggio di condivisione interculturale e di interconnessione con la “Madre Terra”. Il loro album è arricchito da un gran bell’artwork, firmato da Cosimo Brunetti Cosbru ed è disponibile sia in formato fisico che digitale“Mamma, mi ha fatto così male, so che devo lasciarlo. L'amore può ferire”, cantano in “Ruvida”, interpretata da Irene Lungo. Il tema di una relazione tossica trova lo schema armonico della canzone napoletana, ma si sviluppa in un potente crescendo costruito sulle corde argentine del liuto setar, profondi tamburi a cornice e sequenze elettroniche,  Impossibile non farsi prendere da “Tramontana”, che attacca con il fluire del vento che arriva dal mare, procede su un efficace groove dub che ammanta la struttura di una tammurriata nello stile della Madonna Avvocata, mentre il liuto a manico lungo tar segue la linea melodica portando la sua unicità timbrica. Nel finale una fronna si infrange su un’ambientazione dubstep. Notevole è la plurilingue “Leyli Leyli” dove confluiscono un canto d’amore afghano e una ninna nanna in griko. È tempo della festa con “Pizzicapò”, traccia mesmerica, che si sviluppa tra sequenze polifoniche e canto alla stisa esaltati dai bassi di estrazione dub. Invece, “Kholy” ci porta in Tadjikistan, su un ritmo di 7/8 il canto riprende un testo doloroso: una descrizione del senso di profondo smarrimento che comporta l’emigrazione di massa. Infine, ecco avanzare l’antica invocazione “Jesce Sole”, nel quale entra il violoncello di Redi Hasa a contrappuntare e accompagnare la voce accorata di Irene Lungo, per poi prendere il largo nel finale massivamente percussivo. Potente discone trasversale plasmato con spirito di convivenza tra voci e strumenti, tra le eredità di tradizioni orali e le urgenze di una visione contemporanea.  


Ciro De Rosa

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