Giuliano Gabriele – Basta! (Giro Music, 2024)

“Cantautore-organettista”, si definisce Giuliano Gabriele, italo-francese nativo di Sora (1985) che vive a Castelliri, sempre nel frusinate. Il suo percorso discografico nel folk contemporaneo si dipana a partire dalla metà del nuovo millennio; un artista che si coltiva subito uno spazio per nulla banale, nel quale si impongono trasversalità sonora e tensione comunicativa e spettacolare. Abbiamo seguito con attenzione la sua crescita su queste pagine, da “Melodeonia” (2013) a “Madre” (2015),  due lavori accolti con grande interesse dalla critica italiana e internazionale world-oriented. Nel 2015 Gabriele vince il Premio Andrea Parodi con la toccante “Lettera dalla Francia” si esibisce in importanti manifestazioni tra cui Rudolstad, Chant de Marin di Paimpol, Folkest, European Jazz Expo di Cagliari, Ravenna Festival, 7Sois and 7Luas di Valencia, Dhow Festival in Qatar e Ariano Folk Festival; nel 2018 vince il live contest di Ethnos Festival/ Generazioni. Sono passati ben nove anni dalla precedente produzione discografica: in mezzo, oltre all’attività concertistica, ci sono state la direzione artistica di Festival e la direzione delle Officine Meridionali; adesso con “Basta!” Gabriele si apre a nuove vie, cimentandosi nella nuova veste autoriale, dando forma alle proprie visioni musicali e letterarie, affrontando tematiche stringenti, passando dalla riflessione accorata all’amaro disincanto, dall’indignazione alla chiamata all’azione. La produzione è affidata a una personalità del calibro di Martin Meissonnier, storico produttore, musicista, documentarista e filmmaker francese, che ha lavorato, tra i tanti, con Don Cherry, Ray Lema, Fela Kuti, Alan Stivell, Robert Plant & Jimmy Page, Manu Dibango e Tony Allen. Una pluralità di strumenti acustici tradizionali d’Italia (organetto, tamburi a cornice, lira calabrese e chitarra battente) e greco-mediterranei (bouzouki) trovano sostegno nella sezione ritmica composta da batteria e basso, ma incontrano anche viola, chitarra elettrica, synth e programmazioni. Si compone un sound
inedito, che sta già trovando riscontri lusinghieri nella stampa world.  Abbiamo raggiunto Giuliano Gabriele proprio al ritorno dalla presentazione del suo nuovo lavoro in una live session negli studi di Radio France International e del concerto allo Studio dell’Ermitage, sempre nella capitale francese.

Che differenza tra il Giuliano Gabriele di “Madre” a quello di “Basta!”?
Artisticamente mi sembra che siano passati secoli dal 2015, anno di pubblicazione di “Madre”.  Attraverso lo studio, che ha generato consapevolezza ed esigenze diverse, ho cercato e trovato un cambiamento sostanziale. “Madre” è stato il primo atto di una trasformazione che oggi si è completata con “Basta!”: il passaggio da una nu-trad certamente ambiziosa e singolare, seppur ancora decisamente acerba, che utilizzava testi della tradizione per esprimere un concetto musicale e non sempre per raccontare qualcosa, con accenni sui primi testi in italiano senza esserne l’autore, ed una produzione molto modesta, alla realizzazione di “Basta!”, in cui la ricerca musicale ha viaggiato di pari passo con la ricerca del linguaggio testuale. Con un’idea ben precisa ed omogenea, potendo contare, tra l'altro, su musicisti che hanno sviluppato una certa competenza, su un produttore eccellente e su registrazioni (MStudio Center di Pontecorvo) mix e mastering di livello (Dominique Blanc Francard, storico tecnico del suono della discografia francese). Insomma, una differenza sostanziale: Giuliano si è armato di pazienza e volontà nel proseguire verso una strada poco battuta cercando di creare le condizioni migliori ed acquisire il giusto background. 
 
Che tempi di elaborazione ha avuto l’album? 
Tempi lunghissimi.... oltre cinque anni di sperimentazioni prima di arrivare al risultato desiderato, tra i quali due anni intensi passati con il mio produttore e interamente dedicati a trovare la chiave musicale giusta. Non nascondo che ci sono stati momenti anche molto difficili in cui le mie capacità artistiche e la mia pazienza sono state messe a dura prova e arrivate al limite sia nella composizione che nella ricerca del linguaggio sui testi originali. Ma desiderio e determinazione unite al fatto di avere affianco tante persone
che credono in me e mi spingono ad andare avanti sostenendomi in tutto ciò che faccio, mi hanno dato la forza necessaria per reagire ed arrivare.
 
Cosa è cambiato nel tuo percorso di suonatore di organetto diatonico? 
Da semplice suonatore di organetto di media bravura sono diventato un cantautore-organettista. Mi limito a partecipare ad alcuni intrecci melodici e ritmici soprattutto quando non canto e mi diverto molto anche ad improvvisare sui ritmi meridionali in maniera abbastanza selvaggia, talvolta minimalista, con qualche accenno a virtuosismi. In realtà, musicalmente parlando, non ho mai affrontato un vero e proprio percorso di studi: ho sempre avuto un approccio istintivo e pigro allo studio della musica, ben nascosto da una creatività inesauribile e dall’esperienza. L'organetto resta ovviamente il mio strumento principale, quello con il quale compongo anche la maggior parte dei miei brani.

Non sei nuovo all’uso della lingua nazionale, ma qui si tratta di una scelta estetica di più vasta portata, che consente di raggiungere una fetta di pubblico più vasta.
Raggiungere una quantità maggiore di persone è sicuramente uno dei principali obiettivi, ma in realtà è una scelta ben precisa e per me quasi obbligata maturata nel tempo. Fin dai miei esordi musicali mi sono trovato ad avere a che fare con una lingua ibrida e poco conosciuta come il dialetto ciociaro, terra dolce e amara in cui sono nato e cresciuto, con il quale, tuttavia, non sono mai riuscito ad esprimere pienamente la mia idea stilistica ottimale, se non in rarissime occasioni. Una di queste è stato sicuramente il Premio Parodi 2015, che vinsi inaspettatamente con “Lettera dalla Francia”, canzone complessa e molto forte in
dialetto ciociaro; un risultato incredibile ripensandoci, visto che è una lingua percepita dall’immaginario collettivo come qualcosa di “burino” e spesso confusa con il dialetto umbro. Quel momento resta il mio piccolo ed unico orgoglio ciociaro. Negli album precedenti a “Basta!” e in tutti i miei live ho sempre cantato nei vari dialetti del sud, per sviluppare il mio concept musicale più che per raccontare qualcosa, linguisticamente con tutti i limiti del caso considerato che quei dialetti che non mi appartengono totalmente, anche se adoro cantare nel mio alquanto bizzarro napoletano, siciliano o salentino. Andando avanti ho capito che la mia unica strada sarebbe stata quella di utilizzare la lingua nazionale consapevole, tuttavia, del fatto che l’italiano è abbastanza ostile alle sonorità tradizionali e world, per cui ho raccolto la sfida e ho deciso di affrontarla, pur sapendo di correre un rischio, non a caso ci sono pochissime operazioni ben riuscite al riguardo nella discografia Italiana. La parte più complessa è stata la ricerca di un linguaggio da utilizzare nella scrittura che non fosse nello stile esplicito del folk-rock e nemmeno troppo cantautoriale old style, doveva essere anch’esso assolutamente originale; quindi, un lavoro lunghissimo di ricerca appesantito dal fatto che non avevo mai scritto dei testi in italiano prima d’ora. E già solo il fatto di essere riuscito a scrivere un intero album in uno stile molto personale è per me motivo di grande soddisfazione.
 
Com’è avvenuto l’incontro con Martin Meissonnier? Come è stato lavorare con lui per questo disco?
Martin mi è apparso davanti mentre riascoltavo alcuni artisti presenti negli anni sul cartellone del visionario Ariano Folk Festival. Mi interessai subito alla sua biografia e scoprii immediatamente che Martin era il produttore di alcuni mostri sacri della world music, ma in particolare di due dischi davvero interessanti come “Brian Boru” (1995) di Alan Stivell e “University of Gnawa” (2011) di Aziz Sahmaoui, quest’ultimo per me davvero un capolavoro discografico nella sua semplicità. Così feci del tutto, insieme alla mia agente francese Paola D’Angela di Giro Music, per mettermi in contatto con lui e fargli ascoltare i miei provini. Martin accettò immediatamente e da lì il suo entusiasmo e attaccamento al progetto è stato un crescendo, tant'è che tuttora, dopo la pubblicazione del disco, segue con attenzione l’evoluzione live e ai microfoni del programma Musique du Monde su RFI ha annunciato che è impaziente di iniziare il nostro prossimo lavoro discografico. Lavorare con lui non è di certo una passeggiata: è un produttore intransigente e lapidario all’occorrenza. Il margine di discussione è davvero ristretto se qualcosa non gli piace. Ma, come nelle migliori coppie, abbiamo trovato il nostro equilibrio e quindi andiamo avanti con orgoglio e passione.
 
Le maschere sono elementi visuali centrali nei tuoi set live e ritornano anche nelle immagino di “Basta!”. Cosa rappresentano?
Le maschere dell’immagine di copertina, presenza costante nei video clip dei primi due singoli già pubblicati e che accompagnano la band anche nelle infuocate sessioni live, sono le “Maschere della Coscienza” ideate per identificare e dare un volto fantastico ad alcuni dei temi più scottanti affrontati nel disco e realizzate artigianalmente utilizzando materiali di riciclo, oggetti comuni e molta creatività. La “Disperata”, col viso smunto in macramè e i capelli dell’arancio fluorescente dei giubbotti di salvataggio, rappresenta i migranti di “Razza Riace” che chiedono disperatamente aiuto dal mare ad una terra che non li ascolta e finge di non vederli; la “Mammasantissima” è la maschera del potere occulto, dei soldi facili della mafia, della ricchezza ingiusta, che si traveste da demonio; la “USA&GettaWar” col volto in blue jeans ricoperto dalle piume degli indiani d'America, una lacrima di sangue e proiettili al posto del sorriso, impersona la parte peggiore degli USA, lo strapotere delle guerre; “FuturAntica” è la maschera concepita dall'intelligenza artificiale, il mistero del futuro e il fascino del passato; “Mondo-Ezza”, sacchi neri dell’immondizia, vecchi dischi, lattine di metallo, bottiglie di plastica schiacciate, rifiuti di ogni genere
che personificano il degrado globale.

Nascono i testi prima o l’idea sonora?
Nasce anzitutto l’idea ritmica su cui far girare qualcosa che può essere a volte melodica e altre volte testuale, generalmente partendo da una sola parola interessante per me in quel momento, per poi costruire piano piano tutto l’impianto musicale e poetico intorno. Non c’è mai un ordine preciso se non quello della scelta del ritmo.
 
Cosa è “Basta!”? Un grido consapevole? Un rifiuto di accettare lo status quo? Un’esortazione all’azione?
Nel suo insieme di contenuti e sonorità, è l’ennesimo grido, probabilmente invano, al risveglio delle coscienze, la voce dell’indignazione che sollecita a riflettere e reagire, a muoversi e danzare per esorcizzare il mal comune. E non a caso la traccia di apertura del disco e il primo singolo pubblicato è proprio “Basta!”, che apre tutti gli argomenti, letterali e musicali, contenuti nell’album in modo potente ed enigmatico. Il ritmo della pizzica si impone nella sua forma più selvaggia e attuale, pur lasciandosi influenzare da altre culture e generi musicali.

“Muoviti” e “Réveillez-Vous” sono due motivi che spiccano nella narrazione. Ce ne parli? 
Come “Basta!”, hanno entrambe titoli impattanti, immediati, che incitano a reagire. Il concetto basilare di “Muoviti” è racchiuso in una frase: “vivere è un istante et c'est fini”, da qui l'invito al movimento… e poi? Muoviti lentamente, ma senza fermarti mai, per cogliere le dinamiche di un mondo che corre senza fiato. Ascolta il ritmo della terra e muoviti con essa, per non rischiare di diventare solo un piccolo ed insignificante numero, muoviti per guardare il mondo da prospettive differenti. Muoviti lentamente perché
è l’unico modo per restare a galla. “Réveillez-Vous”, Svegliatevi! per denunciare una presa di coscienza tardiva ed incoscientemente ancora non unanime sugli argomenti fondamentali del nostro tempo come l'inquinamento e i conseguenti cambiamenti climatici repentini. È un canto duro per un problema urgente.

“Mammasantissima” procede su un ritmo di tarantella per raccontare un certo Sud…
In generale nel disco punto più volte il dito sul problema dei problemi, l’atteggiamento mafioso, consapevole del fatto che per me "ogni mondo è paese”. Parlando del nostro paese però quello che mi preoccupa di più non sta tanto nel sistema mafioso in sé, che è molto più complesso e radicato di quello che possiamo minimamente immaginare oggi, ma nell'atteggiamento mafioso congenito, che segna le nostre vite quotidianamente, in un modo o nell’altro, ed è ciò che più mi inorridisce; un atteggiamento che sembra quasi normale, sottile, involontario, un modo di pensare, di prevaricare, di pavoneggiare, di costringere, di approfittare, una morsa invisibile che spegne ripetutamente il futuro di giovani e meno giovani, mentalmente violati dal peso dell’immobilità, della precarietà, dello spreco. “Mammasantissima” è certamente il pezzo più provocatorio del disco: una tarantella volutamente stereotipata e velenosa ma secondo me necessaria per spazzare via ogni fraintendimento ed esorcizzare la spietatezza subdola del sistema che soffoca una terra viva e affascinante come la Calabria ad esempio, rendendola di fatto una delle regioni più povere della ricca Europa. Parlarne è faticoso, ma è anche la via d’uscita che le nuove generazioni hanno per far sì che la rabbia e la vergogna spingano tutti a curare “la regina delle tarantelle” dalle proprie profonde e dolorose piaghe. Spero che i tanti musicisti e carissimi amici Calabresi non me ne
vogliano, parlare della loro terra è il pretesto per parlare di un problema che riguarda tutti, ed io in generale nel mio album ho deciso di scrivere e cantare per raccontare soprattutto le verità scomode. Spesso si dice che la musica non ha nulla a che vedere con questi discorsi, io penso l’esatto contrario, e me ne assumo responsabilità e conseguenze. Parlarne resta l’unica via possibile per essere consapevoli di cosa ci succede intorno.
 
Più intima è “In Silenzio”...
In “Silenzio” è una serenata alla propria coscienza sentimentale, dove gli interrogativi superano di gran lunga le certezze. Un grido di passione che cerca invano ancora una volta di comprendere l’incomprensibile gioco dell’amore.

Di “Yosokisei” firmi musica e testi da solo: di che si tratta? 
“Yosokisei” e “Mezzogiorno a Panikos” sono i soli brani dove firmo sia musica che testo, “Non ci Credi” è invece l’unico pezzo del disco in cui condivido la scrittura assieme al cantautore ed amico Daniele Scarsella. Mentre per quanto riguarda la composizione di gran parte dei brani Lucia Cremonesi in primis, Giovanni Aquino, e Gianfranco De Lisi hanno firmato le musiche assieme a me. Dal punto di vista contenutistico “Yosokisei” intreccia i tabù dell’erotismo che si nascondono e si confondono nei meandri della psicologia umana tra vergogna, volgarità e privazione, un argomento ispirato dai moltissimi testi della tradizione popolare che parlano esplicitamente o velatamente di sesso che ho fortemente voluto
portare nel disco.

Con “Razza Riace” il sound prende il largo e riparte la denuncia alle ingiustizie... 
Razza Riace è la “razza” dei poveri disperati, intrappolati tra mondo di sotto e mondo di sopra, che attraversano deserti, mari e torture per trovare semplicemente un briciolo di normalità, in un Mediterraneo cieco e sordo, cimitero delle speranze per migliaia di esseri umani, consapevoli di essere gli ultimi della terra. Le soluzioni ci sono ma non convengono a nessuno, la storia di Riace ne è la prova e puntualmente è stata messa a tacere.

Sguardo rivolto di nuovo al sud nelle liriche e nei suoni di “Mezzogiorno a Panikos”, cui accennavi prima.
Il termine Panikos che ho usato nel titolo sta a rappresentare la grande fatica che fa il meridione per campare, tra deliri ed ingiustizie, ignoranza e corruzione, angosce e disperazione, di uomini e donne sopraffatti dal vivere quotidiano. “Qui si vive di stenti/di silenzi assordanti, di giovani vecchi/ che non sanno fare altro che scappare…/ e non possono fare altro che scappare…/ e lasciamoli attraversare il dolce panico meridionale!”

Dopo lusinghieri concerti a importanti festival europei, cosa attende Giuliano Gabriele in questo 2024?
Mi auguro che il 2024 sia l’inizio di un percorso che possa ipoteticamente proiettare me ed i miei amici musicisti verso nuove avventure, un tempo in cui le persone curiose possano assaporare e comprendere
questo lavoro. Abbiamo preparato un live infuocato da portare in giro per l'Italia e nel mondo. Il viaggio è appena iniziato da Parigi con la data zero allo Studio de l’Ermitage e proseguirà con due importanti Showcase internazionali: l’Atlantic Music Expo di Capo Verde il 3 Aprile prossimo e il Music Crossroads di Ostrava in Repubblica Ceca il 22 Giugno. Sogno certamente un buon tour tra Italia ed Europa per l’anno prossimo, ma so benissimo che la strada è tutta in salita per ovvi motivi, tenuto conto che il “mercato” della world music Italiana praticamente quasi non esiste. Ne approfitto iper ringraziare i miei musicisti, o meglio la mia famiglia musicale, con cui mi auguro, a partire da ora, di girare semplicemente ogni angolo del globo: Lucia Cremonesi (viola e lira calabrese), Eduardo Vessella (tamburi a Cornice), Gianfranco De Lisi (basso), Riccardo Bianchi (batteria), Carmine Scialla (bouzouki e chitarra battente), Giovanni Aquino (chitarra elettrica e synth), Gianmarco Gabriele (programmazioni) e Laurence Cocchiara (violino nelle live session).


Giuliano Gabriele – Basta! (Giro Music, 2024)
#CONSIGLIATOBLOGFOOLK

Una lunga gestazione per il nuovo album di Giuliano Gabriele, un concept che comunica immediatamente, attraverso le immagini delle maschere di copertina, iconografie da sempre presenti nei live del musicista laziale. Si tratta di maschere che simboleggiano i temi del lavoro. Il titolo, poi, è inequivocabile: l’urgenza di opporsi, di risvegliarsi, di rendere azione collettiva l’indignazione. Accanto alla voce e all’organetto diatonico di Giuliano Gabriele, un combo acustico-elettrico di gran bella levatura tecnica in cui corde, archi e pelli del mondo tradizionale si combinano con sezione ritmica rock, chitarre elettriche e innesti di elettronica, che dando propulsione a un sound che si rivela altamente coinvolgente si muove lungo i confini aperti della canzone d’autore, attinge a ritmi da danza del centro e del sud: pizzica e tarantella in primis, ma rivolge lo sguardo sonoro anche alla sponda sud del Mediterraneo e all’Africa. Dieci inediti cantati con voce carica di umanità, identificabile per quel timbro un po’ aspro, che talvolta sembra rasentare la rottura. Liriche urlate, sospirate e declamate, riflessive e incalzanti, sarcastiche e imploranti, che mettono a nudo drammi, conflitti, timori, disastri e ingiustizie. Se gli si chiede delle coordinate sonore e dei modelli poetico-musicali, Gabriele compila una lista imponente quanto variegata di ascolti che hanno determinato frammenti d’ispirazione, attraversando world, trad, pop, canzone d’autore italiana e francese.  Però, al di là di inevitabili assonanze e rimandi, la cifra di Gabriele mantiene alta la soglia di originalità. Un violino vibrante e fatato e un ritmo di pizzica lanciano “Basta!”, apertura di peso del programma. Le misure irregolari di “Non ci credi” fanno rotta verso est e il Medioriente, sospinti da una ritmica pressante, mentre le liriche si interrogano sulle paure, sull’odio dell’altro (qui ai cori si aggiungono le voci di Alice Petrin e Lavinia Mancusi). “Sabir” piega su una fisionomia più introspettiva, laddove la successiva “Muoviti” nel suo incedere cangiante guarda all’Africa, senza rinunciare a un’armonizzazione di matrice pop come pure al suono sfregato, aspro e non accomodante della lira calabrese. Si tratta di un invito a sintonizzarsi sul ritmo della terra e osservare il mondo da prospettive differenti. Come nella title track ma con tempi più riflessivi “Réveillez-Vous” canta l’urgenza di agire.  Un ritmo di tarantella spinge “Mammasantissima”, dispositivo canoro-coreutico per esorcizzare la spietatezza del sistema criminale che soffoca la Calabria. “In Silenzio” è una serenata piena di interrogativi più che di certezze. Anche “Yosokisei” mette al centro l’amore, ma qui tengono banco i tabù dell’erotismo, nascosti tra le pieghe della psiche tra vergogna, volgarità e privazione, ispirati a topoi che si trovano in molti canti di tradizione orale.  I dannati della terra sono i protagonisti della denuncia di “Razza Riace”, in cui ci si rivolge a quel modello dirompente di accoglienza che ha saputo rispondere al fenomeno migratorio, con il protagonismo dal basso tra i popoli e che è stato piegato dall’esercizio di politiche securitarie criminalizzanti. Infine, “Mezzogiorno a Panikos”, che forse non sarà una nuova “Qua si campa d’aria”, ma produce un’analisi pregna di amara e pugnace ironia sul “dolce panico meridionale” che ondeggia tra deliri, ingiustizie e disperazione: un motivo che fa pensare e ballare e che si impenna in un superlativo crescendo finale di umore zigano. Scrittura e suono ben sviluppati e valorizzati dal livello della produzione rendono “Basta!” una proposta di gran profilo internazionale.


Ciro De Rosa

Foto di Graziano Panfili (1-2), Lorenzo Albanese (3-4), Riccardo Lancia (5), Andrea Grasso (6), Cristina Canali (6), Jessica Colantonio (7), Laure Lajugie Gambini (8), Jules Lhana (9)

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