Dino Betti van der Noot – Let us recount our dreams (Audissea, 2023)

Pianista, compositore e arrangiatore italo-lussemburghese, Dino Betti Van Der Noot è una delle figure di primo piano della scena jazz italiana per averne attraversato, dagli anni Settanta, la storia con la sua cifra stilistica che si pone a metà strada tra il jazz afroamericano e la musica colta contemporanea. Cresciuto, sin da piccolo, a contatto con la musica, si è formato presso i Conservatori di Pavia e Milano per poi accedere al prestigioso Berklee College of Music di Boston per perfezionare gli aspetti tecnico-strumentali. Nel corso degli anni, la sua ricerca si è incentrata sull’intreccio tra armonia, melodia e ritmica con addentellati ispirativi che vanno da Claude Debussy a Igor Stravinsky per toccare Duke Ellington e Charles Mingus e dando vita ad una scrittura originale imprevedibile e spiazzante. Sin dagli esordi discografici, i suoi album propongono un jazz pensato per formazioni orchestrali prediligendo composizioni in cui parti scritte si alternano a spazi in cui le singole voci strumentali possono esprimersi in completa libertà. In occasione della pubblicazione del nuovo album “Let Us Recount Our Dreams” lo abbiamo intervistato per farci raccontare il suo lungo percorso artistico per poi soffermarci su questo nuovo lavoro.

Ripercorriamo brevemente la tua carriera artistica. Ci puoi raccontare i tuoi esordi nella scena jazz?
Da ascoltatore affascinato. Da frequentatore di ogni possibile concerto. E, in effetti, questa immagine mi è rimasta appiccicata per molti anni, rendendomi poco credibile nel mondo del jazz. Un mondo in cui – allora – tutti conoscevano tutti: erano gli anni Cinquanta. Però ascoltare non mi bastava e ho cominciato a scrivere qualcosa; in particolare per un gruppo di musicisti che avevo radunato organizzando un concerto in Bocconi. Fausto Papetti, clarinetto, sax alto e baritono; Alberto Pizzigoni, chitarra elettrica; Alceo Guatelli, contrabbasso; Leonello Bionda, batteria. Ricordo il titolo di uno di questi brani, che può dare un’idea del mondo in cui mi muovevo: “The Boiled Fish Sob”, come dire il singhiozzo del pesce bollito.
In realtà, avevo già cominciato a comporre qualcosa in precedenza, ma erano fondamentalmente canzoncine da condividere con gli amici. Poi, la creazione della mia (e di mia moglie Titti Fabiani) agenzia di pubblicità mi ha assorbito per molti anni, anche se ho scritto diversi jingle che sono rimasti nella memoria collettiva degli italiani. È stato soltanto verso la fine degli anni Sessanta che, complice un’epatite virale che mi ha messo fuori combattimento per qualche mese, ho cominciato davvero a suonare e poi ad arrangiare e, infine a comporre. Ho messo in piedi un’orchestra di dilettanti, dove suonavo flauto e sax tenore: l’orchestra ha cominciato a suonare molto meglio quando ho trovato chi mi sostituisse a questi strumenti. Abbiamo fatto un album live, composto fondamentalmente di arrangiamenti di classici dello swing, e questo mi ha insegnato molto sia tecnicamente sia umanamente. Poi, ho scritto una serie di brani originali ed è stata la fine della big band: i suoi componenti non erano in genere probabilmente in grado di interpretarli, sia dal punto di vista stilistico sia da quello tecnico, e io sicuramente non ero capace di spiegare quello che cercavo di realizzare. È stato decisamente frustrante, e soltanto qualche anno dopo ho inciso questi brani, questa volta con un’orchestra di fantastici professionisti italiani. C’era però qualcosa che ancora non funzionava e io sentivo il bisogno di avere un contatto con musicisti internazionali, dai quali sapevo che avrei imparato moltissimo: ma di questo, magari, parliamo più tardi.

Quali sono stati e sono i tuoi riferimenti musicali a livello ispirativo e compositivo?
Sono diventato man mano sempre più pieno di ricordi, sensazioni legate alla musica europea, ma la sintassi è quella jazzistica. Mi spiego meglio. È inutile che fingiamo di essere diversi da quello che siamo:
per origine geografica, per radici culturali. Non dobbiamo imitare qualcosa che non ci appartiene dall’inizio. Viceversa, possiamo (o forse dobbiamo) pensare in maniera sincretica, inglobando nella nostra base espressiva quello che siamo andati scoprendo nel corso della nostra esistenza e che ci ha arricchito affascinandoci. Quindi, a partire dal gregoriano della messa cantata, tutto quello che viene dopo, fino alla scoperta di qualcosa di diverso (ma non in contrasto) che si chiama jazz. E poi, le scale orientali, i gamelan di Yogyakarta, le percussioni africane e indiane… Si tratta di un enorme arricchimento culturale ed espressivo, che tuttavia si inserisce nella solida base della cultura di partenza.

Nell’arco del tuo lungo percorso artistico quali aspetti espressivi del jazz hai puntato a esaltare lavorando con le orchestre?
Direi che, nel corso degli anni, mi sono appassionato a tutto quello che avveniva nella storia del jazz: una storia accelerata, che coincide singolarmente con il secolo breve. È fantastico come ci sia un continuo cambiamento, una continua evoluzione: appena uno stile si è affermato salta fuori qualcosa che fa un passo avanti – o di fianco – ma non c’è mai (o non dovrebbe esserci) una sosta, un rimasticare quello che è già stato fatto. Anche se, per andare avanti, bisogna sempre partire dall’aver vissuto quello che c’era prima. Personalmente, qualcosa di speciale è scattato quando ho ascoltato il Progressive Jazz di Kenton, all’inizio degli anni ’50. Però è stato importante capirne sia l’importanza sia i limiti e fare successivamente un bagno salutare nelle musiche di Ellington, di Ralph Burns per Herman, di Mulligan, del primo Gil Evans, di Mingus, di John Lewis: cito alla rinfusa, come alla rinfusa li ho scoperti. Non c’è bisogno di specificare che sono da sempre un appassionato del suono orchestrale, sia come ascoltatore sia come parte di questo suono: ricordo l’emozione di suonare il violino (anche se ero un cane tremendo, riuscivo ad arrangiarmi) nell’esecuzione di una composizione schubertiana nel corso di un saggio.

Come si è indirizzato, negli anni, il tuo lavoro nella composizione per orchestra jazz?
A differenza della conduction, tipica delle esecuzioni di musica con improvvisazione radicale, le mie composizioni sono scritte e prevedono percorsi ben predefiniti, anche se ogni esecuzione è diversa da quelle che la precedono e la seguono. Nel corso degli anni, sono arrivato alla conclusione che non ti puoi mettere davanti all’orchestra con l’atteggiamento del direttore d’orchestra “classico”: non faresti altro che bloccare l’espressività dei musicisti. L’orchestra jazz è uno strano organismo, che vive delle differenti personalità dei suoi componenti e il band leader, o il compositore, deve conoscere e sfruttare al massimo questa molteplicità di possibilità espressive. È necessario spiegare quello che si desidera ottenere, soprattutto alla cosiddetta sezione ritmica, per la quale la scrittura (almeno nel mio caso) lascia ai musicisti un’ampia possibilità interpretativa. Poi, durante l’esecuzione, basta qualche segnale, bisogna capire quando ampliare o abbreviare gli assoli improvvisati, chiamare un’apertura o una chiusura… Importante è la coesione fra chi dirige e tutti gli elementi dell’orchestra, la comprensione e la stima reciproca, il piacere di suonare insieme un certo tipo di musica.

Ripercorrendo la tua produzione discografica, c’è un album cui sei maggiormente legato?
Non so… istintivamente, mi viene da citare l’ultimo nato, ma credo che più che un album specifico, ci siano delle composizioni specifiche cuoi sono particolarmente affezionato. Per esempio “A Chance for a Dance”, che è stata la mia prima composizione complessa, o “Here Comes Springtime”, o “Midwinter Sunshine”, o “Blue Gal of My Life”… mi accorgo che queste sono tutte composizioni degli anni ’80… sto diventando un laudator temporis acti?

Quali sono stati gli incontri e le collaborazioni che hanno segnato maggiormente il tuo percorso artistico?
Tutti i musicisti con cui mi sono trovato a lavorare: ho imparato da tutti, cominciando da quando mi guardavano un po’ dubbiosi, con l’aria di dire fra sé “cosa pensa di fare questo qui, che fa un altro mestiere”, per arrivare a oggi, quando percepisco una stima reciproca e il piacere di fare delle cose insieme. Un musicista che è ormai da molti anni una colonna dell’orchestra mi ha detto: “Sai, quando mi hai chiamato la prima volta mi sono detto Boh, chissà cosa salterà fuori e poi ho capito che avevi creato qualcosa di preciso e di particolare”. Adesso c’è fra noi un’amicizia e una condivisione di pensiero straordinarie (e io ho imparato tantissimo da lui). Poi c’è stata l’importanza della lezione di Giorgio Gaslini: critico nei miei confronti all’inizio, ha scritto in tempi successivi cose bellissime a proposito della mia musica. Se ripenso alle lunghe chiacchierate telefoniche con lui, provo una forte nostalgia. Infine, negli ultimi tempi, gli incoraggiamenti da parte di Enzo Capua, giornalista di grande cultura e onestà intellettuale, spirito indipendente, che ha portato all’incontro con Thomas Conrad, autore delle note di copertina del mio disco più recente.

Tra il 1986 e il 1988 hai messo in fila quattro dischi straordinari come “Here Comes Springtime”, “They Cannot Know”, “A Chance for a Dance” e “Space Blossoms”. Che ricordi di quel periodo...
Erano figli delle emozioni, dei problemi, degli entusiasmi di quegli anni. Erano anche la scoperta, per me, che riuscivo a esprimere tutto questo in maniera personale, ben distinguibile da tutto il resto della scena jazzistica. E qui torniamo al concetto che non dovremmo buttare via niente del passato, ma fare sempre un passo che ci differenzi dal passato. È stata anche la scoperta della mia musica da parte della critica, ma anche del pubblico.

Negli anni Novanta la tua attività discografica si è fermata per riprendere nel 2005 con un altro album molto bello “Ithaca/Ithaki”...
Sì, mi sembrava di non sapere dire più niente di nuovo: sono stati quasi quindici anni di sosta. Poi ho avuto bisogno di ricominciare, un bisogno quasi fisico legato a emozioni e visioni nuove. Così è nato “Ithaca/Ithaki” che, a fianco di qualche cosa a mio avviso pregevole, presenta molte criticità. Sicuramente risente della ruggine dovuta al non aver composto per molti anni. Sono però felice di essere riuscito a
pubblicare questo album, perché è una dichiarazione dei miei pensieri e dei miei ideali. 

Veniamo al tuo ultimo album “Let Us Recount Our Dreams”, il cui titolo rimanda a “Sogno di una notte di mezza estate” di Willam Shakespeare. Come è nato questo disco?
Non te lo saprei dire con certezza… non riuscivo a scrivere niente, poi, improvvisamente, tutto è stato chiaro. È un disco in cui si sente una certa dose di nostalgia, in cui si ripensa quello che è stato, che sarebbe potuto essere, che magari anche sarà. Sai, arrivati alla mia età ti viene il dubbio se tutto quello che hai vissuto sia qualcosa di reale oppure un sogno, un’immaginazione. Un po’ quello che vivono i protagonisti della commedia di Shakespeare, dopo la folle notte che hanno vissuto.

Come sono nate le composizioni di “Let Us Recount Our Dreams”?
Più o meno come succede sempre: mi siedo al piano e lascio che succeda qualcosa. Se succede (è come se le note avessero una loro propria volontà di venire alla luce) cerco di capire la potenzialità di quello che è venuto fuori. Ovviamente il mio stato d’animo di quel momento gioca la sua parte. Poi, cerco di costruire una storia, un racconto, che potenzialmente c’è già in quelle prime note. A questo punto, quando tutto è abbozzato, inizia il lavoro di messa a punto della parte ritmica, che credo sia abbastanza tipica della mia musica: melodie che non rispettano le stanghette delle battute, alternanza di ottavi even e ottavi swingati, terzine anche di metà… Infine c’è l’orchestrazione, con la ricerca di timbri e gruppi strumentali spesso insoliti. La cosa curiosa è che in poco più di un mese ho completato tutto.

Ascoltando questo tuo nuovo album mi ha colpito molto la mutevolezza del suono e la dinamica dei 
vari brani. Lavorando agli arrangiamenti, quali aspetti timbrici, ritmici e melodici hai messo in risalto in questo disco?
In parte ho anticipato questa tua domanda, ma devo aggiungere che ho cercato, per quanto possibile, la semplicità, la linearità, la possibilità di eseguire questa musica in maniera rilassata da parte dei musicisti.
L’energia, il dinamismo, sono fondamentalmente dati dalle percussioni, dal basso e dal pianoforte, che dialogano continuamente con l’orchestra e i solisti. Poi, c’è sempre il desiderio di raccontare delle storie, e le storie hanno una loro mutevolezza, non possono cominciare in un modo, continuare in questo modo e finire nello stesso modo: devono succedere tante cose diverse, come nella vita. Momenti pensosi e momenti di pura felicità possono alternarsi nello stesso brano: altrimenti, che noia…

La title-track è sintetizza le diverse atmosfere che si attraverseranno nei brani successivi, ma colpisce anche per le aperture verso l’improvvisazione. Quanto è importante l’improvvisazione nella direzione di una big band?
È una storia a sé, che racconta tanti stati d’animo: da momenti di sospensione a momenti di stupore, da felicità a incubi. Ci sono parti improvvisate a mio avviso molto belle: dal mio punto di vista, l’improvvisazione deve essere funzionale, anzi deve essere parte fondamentale di una composizione: la deve completare. Per questo è importante la scelta dei solisti, che non devono esibirsi in maniera virtuosistica, ma interpretare con la loro personalità e il loro specifico sound il pensiero del compositore. Per questo è importante il fatto che i membri dell’orchestra siano sempre quelli e che ci sia un rapporto di grande conoscenza e fiducia reciproca fra i musicisti e il compositore.

In “Children of the Zodiac” spicca il violino di Emanuele Parrini. Come hai lavorato alla costruzione di questo brano?
C’è una serie di temi, a volte apparentemente incoerenti fra loro, che si presentano sotto varie forme orchestrali e che servono per indirizzare i solisti che devono completare il racconto. Ma non c’è soltanto Emanuele Parrini: ci sono Begonia, Mandarini, Gusella, Cattaneo, Alberti. Come nel brano precedente c’erano anche Cerino, Rinaldo, Zitello, Mariotti, Ciceri, Visibelli.
Ognuno con la sua personalità, ognuno che riempie una casella della storia da raccontare. Fra l’altro, mi piace molto fare in modo che più solisti improvvisino insieme.

La ballad “Love Song for a Blue Gal” è dedicate a tua moglie e vede la partecipazione di Vincenzo Zitello all’arpa e di Sandro Cerino al clarinetto basso. Com’è nato questo brano?
E di Niccolò Cattaneo al pianoforte… per non parlare della raffinatezza delle percussioni di Bertoli, Tononi e Sanesi; e del finalino affidato al clarinetto di Tarocco. Avevo bisogno di esprimere amore, tenerezza, speranza, serenità ma anche nostalgia. Spero di esserci riuscito: almeno Parrini, cui è affidato il tema, dice di sì. Non so se hai notato che, in questa occasione, non tutti i fiati suonano: non ce n’era bisogno.

“High Seas” ha un andamento dirompente che evoca le onde del mare. Cosa ha ispirato questa composizione?
Il mare, che fa parte della mia vita. Quando sono per mare percepisco l’infinito, dove l’immanente diventa miracolosamente trascendenza. Il mare simboleggia la vita, le passioni, la convivenza fra noi e la natura.
È l’ultimo brano che ho composto, pensando a qualcosa di molto ritmico, quasi ossessivo, con momenti di spensieratezza seguiti da turbolenze e con la speranza dell’approdo nel porto giusto. Fra l’altro, l’introduzione di Manzoli sostenuto dall’arpa è perfetta per entrare nell’atmosfera che cercavo di realizzare; ed è interessante notare le diverse personalità dei tre sassofonisti che improvvisano (gli altri sono Visibelli e Cerino), che sono assolutamente funzionali al racconto.

Chiude il disco “The Night’s Black Mantle” in cui ritorna l’ispirazione di William Shakespeare: il suo lirismo viene tradotto in musica attraverso una serie di cambi e variazioni nel tema. Ci puoi raccontare questo brano?
Anche qui si tratta di una storia che racconto in musica: quasi la chiusura di un cerchio iniziato con il primo brano. E anche qui ci sono episodi apparentemente in contrasto l’uno con l’altro. Cosa che si verifica anche nelle parti improvvisate: vedi il mood completamente differente fra gli assoli di trombone di Calcagno e Begonia. È una composizione davvero un po’ notturna, dove mi sembra sia evidente il mio tentativo di fare in modo che parti scritte e parti improvvisate siano un tutto unico, indissolubile, completandosi a vicenda. A cose fatte, mi sono reso conto che anche questo, come tutti gli altri brani di questo disco ha un finale in diminuendo, quasi come se volessi uscire sempre in punta di piedi per non cancellare con un finale forte tutte le sensazioni che ho cercato di comunicare a chi ha ascoltato.

Concludendo. Dalla prospettiva di chi come te ha fatto la storia del jazz italiano, come giudichi la scena jazz di casa nostra?
Non so se io abbia fatto la storia del jazz italiano, non credo: sono soltanto un maverick, un animale fuori dal branco che persegue una strada sua personale. Il che è bello ma scomodo. Rispetto a quando ho cominciato a occuparmi di jazz, la qualità dei musicisti è cresciuta in maniera esponenziale. Negli anni ’80 avevo bisogno di assicurarmi la collaborazione di musicisti internazionali, mentre oggi non mi verrebbe neanche in mente qualcosa del genere. Il problema, semmai, sta nell’omologazione – anche per colpa della pigrizia, della viscosità, nelle scelte del pubblico – che porta spesso alla ripetizione di stilemi preesistenti. Il jazz non può mai stare fermo, deve esplorare continuamente. Come dicevo all’inizio, bisogna conoscere e introiettare tutto quello che c’è stato prima, e poi utilizzare questa cultura per creare qualcosa di nuovo. Se rifai qualcosa che è già stato fatto, il risultato sarà magari perfetto dal punto di vista tecnico e stilistico, ma mancherà la pulsione, l’urgenza creativa ed etica che ha portato alla creazione dell’originale.


Salvatore Esposito

Dino Betti van der Noot – Let us recount our dreams (Audissea, 2023)

Dino Betti van der Noot fa il giro lungo e passa per Shakespeare e il sogno di mezza estate più famoso della storia per rappresentare la sua lucida drammaturgia contemporanea, fatta di mare, di scene adeguatamente sfocate, “blue gal” e manti neri. L’album segue il filo di un racconto armonioso e ordinato, trasformando immagini e sensi in un’orchestrazione libera ma, allo stesso tempo, piacevolmente regolata. Non si tratta, per questo, esattamente di sogni, ma di immaginazioni. Di immagini in sequenza che, attraverso la misura di una narrazione svincolata da ogni maniera, ricompongono un’ispirazione che ha il dono della moltiplicazione, della moltitudine ordinata. La struttura stessa dell’album - che svincoliamo, tenendoci stretti il riferimento (in fondo irriducibile) a un classicissimo ideale e fascinosamente sghembo, dalla fantasia del narratore teatrale per eccellenza - ci suggerisce una regola a dir poco ineludibile: la sinfonia (anch’essa intesa in senso classico) in un ordine preciso, in perfetta corrispondenza con gli intervalli di cui è composta, con le eccezioni che ne determinano profilo, carattere, densità, profondità. Avviamo l’ascolto di questo stupendo “Let us recount our dreams” e per prima cosa dimentichiamo Shakespeare, Teseo e Ippolita: l’ineluttabile distanza e la regolare esemplarità che rappresentano. Perché ci trascina un flusso sonoro che sta qui, tutto dentro ciò che ascoltiamo e, possibilmente, vediamo. Ecco, appunto: li dimentichiamo ma li trasfiguriamo in qualcosa di più astratto della regola, per poterli vedere con gli occhi di chi riconosce l’efficacia del simbolo, la potenza simbolica di un paradigma epico e irriducibilmente lirico. E di chi riconosce l’importanza di un punto di partenza, della persistenza di un’idea e della sua necessaria elaborazione. In un certo senso, questo ci dice Dino qua sopra, nella lunga intervista che ci precede, quando fa riferimento all’importanza dell’orientamento e dell’esplorazione, della ricerca e dell’improvvisazione, della trasfigurazione graduale, del dialogo tra gli spazi vuoti, pieni, strutturati e non. In un certo senso (ripetiamo per aderire a un astrattismo di impianto che circonda la veridicità dell’album: lasciateci supporre, che vuol dire anche esercitare l’immaginazione) l’orchestrazione richiama proprio questi paradigmi enigmatici, che si esprimono nella tensione, che si generano in un esercizio (spontaneo: poi compreso e, quindi, voluto) di decompressione, di formulazione e stratificazione. Non si può non immaginare l’album - ricompreso nella successione di cinque lunghe e fluide composizioni - come la sequenza di pensieri involontariamente connessi l’uno all’altro. Perché, se così facessimo, perderemmo tutta la teatralità che lo permea. Che si esprime (visibilmente nelle parole dell’autore, ma anche) nelle stupende direzioni che, in quell’alveare simmetrico di suoni e ritmi, i frammenti orchestrali percorrono. A volte senza una responsabilità formale, scivolando cioè nel purismo delle vibrazioni (acute e possenti, mai verbose e, anzi, calibrate con cura in ogni fonema eseguito), altre nel solco di una convergenza matematica, geometrica. Guardare (e, ancora, immaginare) questi grandi e spessi suoni che si sovrappongono e allontanano è come vedere il film che scorre nelle mani del compositore. Il quale, ben piantato sulla sua pluridecennale esperienza (pensate quanti incastri e possibilità ha immaginato), sa bene orchestrare gli elementi che potranno scivolare tra le sue dita. Lo immaginiamo (come lui stesso sa ben descriversi) seduto al piano con lo sguardo al foglio, figurarsi i segni di una musica tutta da comporre ma già sua. Fatta di passati elaborati e ripensati, così come di futuri astrattissimi e (per poco ancora) rarefatti. Le sue stesse parole Dino Betti van der Noot le sceglie con cura, quando ci parla di questo racconto. Non perché ricerchi la forma (figuriamoci a dibattere di forma tra Shakespeare e composizioni per orchestra jazz), ma perché riformula ciclicamente l’aspirazione al desiderio (ciò a cui tutti, in fondo, aneliamo), a un’esperienza che si possa dichiarare organica: non meccanica, ma imperfetta, insidiata dall’estemporaneità e profondamente reale. Ora, per concludere, la profondità sta tutta dentro l’esperienza, la configurazione. Così come le realtà sono tutte dentro l’immaginazione, cioè il recount. 


Daniele Cestellini

Posta un commento

Nuova Vecchia