A cinque anni dal precedente (e stupendo) “La febbre incendiaria”, che prendeva le mosse da “La Storia” di Elsa Morante, ritorna il cantautorato militante del fiorentino Marco Cantini. Lo fa con un album, “Zero moltiplica tutto” che arriva come un tizzone ardente di storie da raccontare, una galleria di personaggi umani e meravigliosi: è così che scorrono l’immenso Modì e tutti i suoi mondi, Flora Tristan (la nonna di Paul Gauguin) e Neruda, senza mai perdere di vista un presente in fiamme, tronfio ed individualista.
Disco aperto da “Il declino-Introduzione” (“Nel viso insanguinato ti ritrovo solo. Mentre mi dici ‘comunque vada l’hanno sempre vinta loro, ma chi ha esitato questa volta domani di certo lotterà con noi. E insegneremo la rivolta’. Così cantavi senza fermarti mai, senza mai mettere radici in un destino. Schierati assieme a protezione di un’intesa.”), un brano animato da uno strumming acustico su cui si arrampicano le tensioni elettriche della chitarra solista e gli squarci del sassofono. “Modigliani” (“E quando un senso di abisso più crudele ci ricongiungerà. In un balzo dal quinto piano, ti prego Jeanne dal fondo dell'oblio tu cerca la mia mano. E ancora cinque franchi per ogni volto al mondo per sempre chiederò. Perché il paesaggio non esiste: è come Dio. Ritrarlo non si può”) poggia su accordi malinconici della chitarra, accompagnata da un pattern ritmico vellutato e dai contrappunti del violoncello e della fisarmonica.
“Ballon d’essai” (“Io mi associo a Calvino. E a chi un tempo celebrò quella giusta pazzia, che è una forza e non la debolezza che si porta la minchioneria”) veleggia lungo una tesissima chitarra elettrica ed un pattern ritmico saturo e potente. A seguire, una “Quello che segue” scandita dall’incedere della chitarra elettrica e dai fraseggi straziati del violino, e chiusa da una straniante ed elettrica coda strumentale. “Flora Tristan” (“Io voglio essere utile se non posso essere felice. Per gli operai e i reietti. Per chi non conosce pace. Per ogni donna come me: proletariato dei proletari. Che non vuol più sopportare”) sgocciola dall’arpeggiare del pianoforte, ingrossato dalle linee della chitarra acustica e dai cortocircuiti elettrici intessuti dall’altra. “Fiori” incontra gli arpeggi della chitarra acustica, dipinti d’argento dal volteggiare del flauto traverso e dal timbro fascinoso della vihuela. “Milioni di lacrime” (“Ma rivedemmo Dublino attraverso le strade di Joyce. E nei passi di Salgari se ne andò il mio spirito. Nelle regioni del mondo. Nella città fluviale. E in ogni vile guerra contro i figli profondi della terra”) poggia su un vorticoso strumming acustico, colorato dalle visioni riverberate della chitarra, dall’incedere polveroso della sezione ritmica e dal tappeto di Hammond, e prontamente squarciato dai fraseggi della fisarmonica. “Aventino” (“Autobiografia di una nazione che rinuncia alla lotta politica. E che ha il culto dell'unanimità. Poi sogna il trionfo della facilità”) segue i densi arpeggi della chitarra acustica, su cui intervengono un violino lacrimante ed un intenso violoncello. “Camminando e cantando” (“Camminando e cantando la stessa canzone. Siamo tutti uguali chi è d'accordo e chi no. Nella mente l'amore e negli occhi la gioia. La certezza nel cuore, nelle mani la storia”), unica cover del disco, è la versione in italiano, a cura del duo Bardotti/Endrigo, di “Pra não dizer que não falei das flores” – canzone che, nel ‘68 costrinse il suo autore, il brasiliano Geraldo Vandré, all’esilio – è scandita dalle movenze ossee della sezione ritmica, su cui giocano le trame elettriche della chitarra e quelle acustiche della vihuela. “Madre”, penultimo momento del disco, si infrange sull’elegante arpeggiare di una chitarra, allargato dagli interventi malinconici del violoncello. In perfetta circolarità, chiude “Il declino-conclusione”, che si arrampica lungo le pennate della chitarra acustica, colorate da vertigini elettriche e dagli interventi del sassofono, ben scortati da una plumbea linea di basso e dai tappeti dell’Hammond.
In definitiva, ci troviamo all’ascolto di un lavoro, per certi versi, benedetto. È, questa di Cantini, una opera terribilmente verbosa, fortunatamente verbosa e, di conseguenza, in questi tempi di sordità sentimentale e deficit d’attenzione, diventa necessaria.
Giuseppe Provenzano
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