Colapesce Dimartino – Lux Eterna Beach (42 Records, 2023)

C’è un’assolata malinconia settembrina ad ammantare “Lux Eterna Beach”, il ritorno- a due anni di distanza dall’altrettanto splendido “I Mortali” di Colapesce & Dimartino. Giusto due siciliani- siamo catastrofisti e disperanti per costituzione- potevano riuscire a mescolare insieme l’assenza pressochè totale di qualsiasi futuro con la sua accettazione più agrodolce, di quella che si scioglie nella tenerezza di chi guarda un tramonto da una scogliera, col vento a scivolargli tra i capelli, e decide coscientemente che vale la pena vivere per quell’armonia momentanea, quello “stato di grazia” di qualche secondo invece che buttarsi giù. E allora diventa più facile raccontare la potentissima “cinematografia” dell’essere umano di questo lavoro: una carrellata di personaggi, storie, umori, visioni a tratti felliniane, leggerezza calviniana ed ironia. Album wertmullerianamente aperto da “La luce che sfiora di taglio la spiaggia mise tutti d’accordo” (“L'anestesista dice che il dolore non esiste/ E pure la morte è una messa in scena/ Ma la luce che sfiora di taglio i tuoi occhi/ Mette tutti d'accordo/ Pure i pesci/ Mette tutti d'accordo/ Pure i pesci/ Che li vedi brillare/ È d'argento il mare”), che si perde fra eteri tappeti sintetici ed eleganti arpeggi elettrici, screziati di psichedelia dagli interventi di un sitar. A seguire, un basso vorticoso scarnifica una “Sesso e architettura” (“Adesso sciogli i tuoi capelli/ Capitelli di barocco/ Persi dentro lo scirocco/ che soffia contro le nuvole”) colorata da archi e cori dallo splendido sapore battiatiano. “Ragazzo di destra” (“Fragile faccia nera/ Sei sul ciglio di una scogliera/ Come me hai paura/ Ma è una splendida sera”) scorre lungo un decadente strumming acustico allargato dai synth, dagli archi e dal wah della chitarra elettrica. “Splash” e il suo stroboscopico vestito 80’s dubito abbiano bisogno di ulteriori presentazioni, ma “La vita è un baccarat” rimane un verso clamoroso. “Forse domani” (“Fare l'amore con gli occhi è un pericolo, ma apre tutte le porte/ Di un presente che non ha mai fretta di esser diverso da ciò che non è”), impreziosita dalla voce della bravissima Joan Thiele è scandita dall’arpeggiare brumoso della chitarra acustica, su cui ruggiscono una linea di basso abissale ed un pattern ritmico lisergico. Giro di boa del lavoro è una “30.000 euro” (“Sottovoce/ Dici qualche cosa/ Io non ti capisco/ Perché il mondo grida/ Dillo un'altra volta/ Sottovoce/ Dentro la pineta/ Come un merlo indiano/ Dico poche frasi/ E le dico male”) immersa in un malinconico incedere valzereggiante, reso sghembo, e magniloquente al tempo, dagli interventi fumè degli archi. Un pattern ritmico dritto, squarciato dallo strumming acustico della chitarra e da un basso, segna “Considera” (“Considera che tutto può finire/ Lo sai che mi deprimo, ma con stile/ Il DJ da una radio dice che fa bene cantare/ Ma chi ha mai saputo cantare?/ Considera che tutto può fiorire/Ma in fondo stare insieme questa sera cos'è?/ Una manciata di stelle davanti a questo disordine”). Si arriva a quello che, probabilmente, è il momento migliore- di sicuro il più emozionante- dell’intero lavoro: “I marinai” (“Hai visto il mare stanotte com'è bello?/ È un lago scuro fra il cielo e l'orizzonte/ Scuro come i tuoi occhi che mi guardano partire/ E dentro me c'è già la voglia di tornare/ Amore mio, che vuoi che sia un giorno o un anno/ Se tu sei qui e mi resti ad aspettare/ Mi guadagno il pane come tutti fanno/ Per ogni figlio che è rimasto in mezzo al mare”) è un gioiello, svelato dalla voce dell’immenso Ivan Graziani (autore delle strofe su cui, per invito della famiglia Graziani e del figlio Filippo, i nostri hanno scritto il ritornello) e su cui, in tutta onestà, non intendo spendere ulteriori parole, chè siamo in presenza di una canzone da ascoltare e basta. “Cose da pazzi” (“Sotto attacco mi difendo dalla tua stupenda anarchia/ È una montagna nascosta il tuo dolore che non sai come scalare oramai”) gioca su raffinati tappeti elettronici, su cui turbina un basso malinconico. Penultimo passaggio è “Neanche con Dio” (“Perché, lo sai/ Che quelli come noi/ Non sanno più restare in pace/ Neanche con Dio”), accompagnato da un’elettronica nebulosa, a sua volta attraversata dallo strumming della chitarra acustica e dalle visioni lunari dei synth. A chiudere l’album ci pensa la title- track, uno strumentale melancolico che scorre lungo i fraseggi umidi del pianoforte ed affonda dentro paludi di elettronica nubilosa. In conclusione, Colapesce e Dimartino ci regalano un perfetto gioco di equilibrismo musicale, un’alchimia perfetta di testi e musiche, ma anche di luci ed ombre, di versi dilanianti ed ironie sottili, di leggero esistenzialismo e profonda introspezione, in barba ai chili di pop depensante a cui siamo esposti. Insomma, un gioiellino. 


Giuseppe Provenzano

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