Premio Nazionale Città di Loano per la Musica Tradizionale Italiana, Loano (Sv), 26 - 28 luglio 2023

Che esista un’Italia della musica che non segue le effimere volubilità mediatiche lo sa bene chi frequenta queste pagine. Dal 2005 il Premio per la Musica Tradizionale Italiana ha trovato casa a Loano, sulla riviera del ponente ligure, dove si prova a restituire centralità a memorie, storie e pratiche di suoni di derivazione tradizionale orale, coniugate con istanze espressive testimonianza di dinamiche sociali e culturali che investono il mondo contemporaneo. Niente “nostalgie” e passatismi, reificazioni e astoriche fissità identitarie. Questo approccio consapevole con cui agisce il Premio, il più importante riconoscimento per la musica tradizionale in Italia, si è accentuato da qualche anno con la regia artistica di Jacopo Tomatis, musicologo e musicista. Direte: “Ma tu che scrivi queste righe sei parte della commissione artistica del Premio (con Annalisa Scarsellini ed Enrico de Angelis, ndr), dunque non puoi che condividere le scelte artistiche”. In realtà, qui non si tratta di ragionare in termini di connivenze o di conflitto di interessi, piuttosto si mette l’accento sull’oggettivo riconoscimento del fatto che Loano è un laboratorio che registra ciò che accade nella produzione contemporanea di musica popolare italiana. Prevale l’angolazione di natura antropologica, il
convincimento dell’inevitabilità del maneggiare la “tradizione” come mutevolezza e come processo, tenendo in debito conto i rapporti ideologici tra “patrimoni” e politiche dell’identità.  Si tratta di cogliere e interpretare il continuo mutare della musica, il suo simbolizzare modi di pensare sé stessi e il mondo, piuttosto che essere ridotta al permanere di espressioni di un tempo passato. Ancora Tomatis, nelle interviste, ha giustamente definito “tradizionale” un aggettivo ingombrante. Però, è un termine che in ogni modo rimanda a un insieme di pratiche canore e musicali, di saperi e tecniche strumentali oggi attuali, vivi e vitali, portati avanti da musicisti che spesso hanno dietro di sé studi accademici ma sono transculturali in termini di frequentazioni musicali. Insomma, il Premio Nazionale Città di Loano si configura come osservatorio sulle musiche, una fotografia di cosa gira intorno alla musica ascrivibile come folk e tradizionale. Dal 26 al 28 luglio, per la diciannovesima edizione, il Festival organizzato dalla Compagnia dei Curiosi, con il sostegno finanziario dell’amministrazione locale e della Fondazione Agostino De Mari e il patrocinio della Regione Liguria e dell’ANCI, ha ospitato un palinsesto di appuntamenti con riflessioni pubbliche che hanno coinvolto alcuni
dei protagonisti musicali di questo ampio e variegato movimento folk. Quest’anno si è celebrata l’arte del raccontare storie della propria terra, della propria lingua, dei propri suoni e canti che, però, rivolgono lo sguardo al presente. Così Giuseppe Moffa da Riccia, Fortore molisano, più che presentare il suo “Uauà”, che si è collocato in posizione lusinghiera nel novero dei dischi trad del 2022, conversa negli incontri pomeridiani ospitati nel ridotto del Giardino del Principe con Enrico de Angelis e Ciro De Rosa sul suo essere musicista che fa i conti con le sue origini e il portato multiculturale della sua regione, sulla convivenza nella sua cifra musicale di rock e blues che incontrano modi contadini popolareschi, profili jazz che dialogano con bordoni a accordi di zampogna modificata, potenza del dialetto e scrittura autorale, “restanza” e rifunzionalizzazione di rituali delle comunità locali. Alla sera del 26 sul palco di Piazza Italia: la splendida piazza su cui si affaccia l'imponente palazzo di città, Palazzo Doria, “Spedino” Moffa alla chitarra e alla zampogna molisana modificata, in duo con l’ottimo Lorenzo Mastrogiuseppe al basso, ha dato prova del suo talento di chitarrista autore con l’inedito “Bufù”, dalla fisionomia bluesy, con cui ha
aperto il set, brano sorprendente per dinamica e sviluppo, per poi proseguire con materiali propri e tratti dal suo “Omaggio in musica ad Eugenio Cirese”, l’album che riprende e ricrea materiali tratti dalle opere del poeta e folklorista molisano, piazzatosi al quinto posto nella classifica degli album di musica tradizionale del 2022. Si susseguono la canzone dialettale di Cirese “Camina” e “Vare Vare”, un canto di nozze tradizionale arbëreshë legato a una danza; si passa dalla nobiltà dei “sunette d’amore” all’elogio del bar come luogo di aggregazione delle piccole comunità come quella di Riccia, “A ‘ndò u tempe ‘nge sta”, incastro melodico di canzone napoletana e ritmica latina. Pure, si ascolta una “strummetta” satirica, un canto a dispetto, giustapposta a temi di Dave Brubek adattati alla zampogna. E che dire ancora di Peppe Barra, secondo recital della prima serata del Festival? Il suo è un set scandito perfettamente nei tempi (e nei cambi di abito di scena), grazie a un ensemble di talenti che lo accompagna: Luca Urciuolo (pianoforte e fisarmonica), Paolo del Vecchio (chitarre e produzione artistica) Francesco Di Cristofaro (flauti), Sasà Pelosi (basso acustico) e Ivan Lacagnina
(batteria). Memoria ed emozione, pensiero e malia di un’anima colta che è anche e pienamente artista popolare. Scorrono classici d’autore (“Suonn’” di Enzo Gragnaniello), ritmi di tradizione campana, antiche villanelle (“Volumbrella”), il dovuto tributo a mamma Concetta (“Procidana”) e de facto a quel Roberto De Simone che la accompagnò nuovamente in scena da cantante e attrice, l’omaggio a Pino Daniele (“Cammina cammina”), il repertorio barocco e favolistico ispirato a Basile (“Ballata del Uallarino”), la poesia napoletana contemporanea (“L’idillio ‘e merda”, da “L’inferno della poesia napoletana”) e la celebre “Tammurriata Nera” (di ascendenza desimoniana via NCCP) in una versione più scura e sacrale, trasformata in urlo contro la violenza nei confronti delle donne.  Colpi di teatro, affabile istrionismo, una voce sempre piena, attenta, modulata secondo la necessità di un programma variegato che è una summa di cultura napoletana attraverso secoli di cultura musicale, come il suo doppio “Cipria e caffè”, piazzatosi al terzo posto della graduatoria dei dischi, ascoltati dalla corposa e autorevole giuria del Premio, a pari merito con le sarde Balentes (“Inghirios”). Doppio incontro al pomeriggio del 27 con Ettore Castagna e Rachele Andrioli,
rispettivamente secondo classificato per “Eremìa” e vincitrice assoluta con “Leuca”. Anche in questo caso, in dialogo con il giornalista Guido Festinese, il musicista, etnomusicologo e scrittore calabrese si rivela travolgente affabulatore in vena di scardinare luoghi comuni identitari e musicali. Lo fa con dotta leggerezza, alternando il racconto di una vita vissuta tra ricerca, scrittura (compreso il suo ultimo romanzo si intitola “I gabbiani vengono tutti da Brooklyn”, pubblicato da Sensibili alle foglie) e musica on the road con puntualità organologica che si mischia con l’aneddotica e saggi sonori di due tra i suoi strumenti elettivi, la lira calabrese e la chitarra battente, alle quali sul palco, alla sera, si sono aggiunti la chitarra acustica e la chitarra dodici corde e un flauto armonico ricavato da una paletta per raccogliere immondizia. Nel concerto serale, accompagnato da Peppe Costa Yosonu (percussioni) e Carmine Torchia (basso), Castagna ha proposto brani dal suo intimo lavoro “Eremìa”, vero capolavoro di profondità poetica e – ossimoricamente – di incontri musicali, ma anche qualche brano che arrivava dall’esperienza seminale con i Re Niliu. La salentina Andrioli, che quest’anno si è aggiudicata anche il
Premio Giovani, ha raccontato sé stessa a Sergio Albertoni, giornalista della Radio 2 della Svizzera Italiana. Anche nel suo caso non stiamo parlando di promuovere un disco, ma di un’attenzione rivolta al percorso umano e artistico al contempo, alla relazione con i luoghi e con gli “alberi di canto” della sua terra, come pure alla collaborazione con artisti internazionali (Arto Lindsay, Piers Faccini) e da didatta, al rapporto con le discenti dei corsi di canto corale (un coro di ben quaranta donne), con il suo aprirsi al mondo: proprio come fa in “Leuca”, dove si canta non solo salentino, perché “l’identità non è mai univoca, siamo tante cose assieme”. Da sola, con chitarra, tamburello, loop station a flauto armonico, Rachele è magnetica, incanta la platea, la sua voce è forza viva proprio di quella tradizione che cambia, che guarda oltre il Capo. Il terzo Premio, il premio Loano – Fondazione A. Mari, che da due anni unisce il riconoscimento alla carriera e alla realtà culturale, se l’è aggiudicato la musicista, ricercatrice, etnomusicologa ed etnocoreologa Placida ‘Dina’ Staro, in rappresentanza dell’Associazione E ben venga maggio e quale frontwoman de I Suonatori della Valle del Savena. Staro è una mediatrice musicale delle
musiche di crinali, luoghi di confine, aperti come è l’Appennino bolognese (Staro, di origine mantovana, di famiglia piemontese-campana, dopo gli studi bolognesi al DAMS si è stabilita da tanto tempo a Monghidoro). Nel pomeriggio del 28 luglio, la musicista-agitatrice culturale ha interloquito con il direttore artistico del Premio e con chi scrive questa cronaca, raccontando non solo di sé stessa ma anche del senso che attribuisce alla tradizione, intesa come relazione di comunicazione, del ruolo della danza nella comunità locale e proponendo tanti rivoli di riflessioni, con piglio talvolta urticante e di sicuro “senza rete”, analizzando a volo d’uccello procedure musicali, ruolo delle donne nella musica tradizionale, formazione musicale e coreutica che deve venire dal basso, trasmissione di una tradizione musicale unica in Europa, esuberanza festiva del suo paese e ragionando criticamente sulle forme di patrimonializzazione di una materia viva come la danza. La stessa Staro al violino, accompagnata da Ricardo Tomba alle percussioni, ci ha condotti in una sorta di concerto-lezione sui repertori di ballo montanari dell’Appennino bolognese con qualche passaggio nell’universo della ballata, interpretata con voce aspra e non
addomesticata. Finale di gran lena con le storie montanare che popolano il terzo album dei Teres Aoutes String Band, “Meuseucca Servadze” (piazzatosi in nona posizione nella classifica dei dischi del 2022), musica selvaggia, ibrida, impura e grezza, che impasta deliziosamente violino e plettri, balli piemontesi e non solo, perché ci si infilano profumi bretoni e francesi, con folk, rock e blues d’oltreoceano. Liriche dialettali dell’area piemontese che raccontano storie di eroi e poveri cristi. Un combo dalla verve spumeggiante, che ha chiuso davvero in bellezza la manifestazione. Intanto, già si pensa alle modalità con cui celebrare degnamente il ventennale di un festival piccolo (anche se idee alla direzione artistica non mancano, se solo il budget lo permettesse) ma davvero grande per valenza culturale, dove primeggiano “intrecci sonori”, pratiche musicali che sono “vie di scambio”: chiamatele – se volete – musiche tradizionali.

 

Ciro De Rosa

Foto di Martin Cervelli
Video di Federica Bono

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