Umbria Jazz, Perugia, 7-16 luglio 2023

Alle 21.30 precise del 7 luglio si è aperto il sipario del cinquantesimo Umbria Jazz. Le luci si sono accese (anche se non del tutto) all’Arena di Santa Giuliana, lo spazio dove il festival ospita il pubblico più trasversale e le star della scena non necessariamente jazz. La sua platea era prevedibilmente gremita, sebbene appena più ridotta del solito. Perché Bob Dylan - il cui mistero si è letteralmente abbattuto su una serata fredda oltremodo - ha voluto così. Un po’ meno gente del solito, cioè. Un numero non esagerato. Per riuscire a contenere l’atmosfera densa di un racconto di circa due ore (senza interruzioni) e, allo stesso tempo, per non snaturare l’idea stessa di uno show intimo, che sapeva di teatro, di vecchio film, di orchestrina che sa il fatto suo. Dylan non ha fatto sconti: chi vuole può addirittura quasi solo ascoltarlo. Perché riuscire a vederlo in faccia non è facile. È attorniato dalla sua orchestra - due chitarre, una steel, un basso e una batteria - che si stringe intorno al suo trono: un pianoforte protratto verso il pubblico, dietro al quale Bob prende la mira e spara. La sua figura rimane una specie di ombra per tutto lo show: nera, accigliata e minuta, vagamente gobba. La sua voce è chiara, però, e le sue parole scandiscono, quasi per intero, il suo ultimo album. Quell’ombra si staglia su un’unica quinta di velluto rosso, che attornia l’orchestrina con
naturalezza. Con fascinosa morbidezza. Il cerchio magico di Dylan si chiude nel buio inatteso dell’arena. Spogliata, per sua volontà e solo per questa sera, di ogni orpello, maxischermi ai lati del palco compresi. I meno attenti hanno percepito una (retorica? stanca?) distanza con Dylan e i suoi musicisti. Certo - risponderebbero quelli più attenti. Cos’altro ci aspettavamo? un mattatore che arringa la platea? un intrattenitore con microfono in mano che sfodera la sua faccia migliore per compiacere l’arena del jazz? Insomma, Dylan è stato molte cose ma non certo uno showman. Comunque, nonostante questo, quelli attenti e più disincantati (e preparati?) hanno colto la dedizione totale ad almeno due elementi fondamentali nello spazio sacro del concerto. La devozione alla canzone, dalla quale non si distacca neanche per presentare i suoi musicisti, di cui articola i nomi cantando, regalando la pienezza della performance e la sua verità cruda, persecutoria, commovente e attuale. Dietro vi è l’altro elemento: la dedizione verso il pubblico, che omaggia alzandosi in piedi, pur restando ancorato al piano, mentre canta. Dylan letteralmente lo colpisce, il pubblico. Con centinaia di parole, con una tonalità piana, da oratore: prende la mira e spara, appunto. Punta un pianoforte-propaggine che usa come un arto, come un lazzo, per
avvolgere, toccare e raggiungere. È la sola “apertura” che concede? Sì. Dire che è poco, però, è appena azzardato. Ciò premesso, Umbria Jazz 2023 parte - direi - in discesa. Da un lato perché Dylan - che se n’è andato quella sera stessa in direzione Roma Auditorium, pochi minuti dopo essere sceso dal palco, a bordo di un bus nero mastodontico - ha rappresentato un vanto, e una benedizione, per la città e il festival. E anche per i detrattori. Dall’altro perché ha scaldato l’atmosfera, avviando un’edizione di altissimo livello. E mi riferisco a tutti e tre i festival che, come è ormai noto, compongono Umbria Jazz. Vale a dire, il festival delle grandi star (tra cui quest’anno vi erano, tra gli altri, Ben Harper, Steward Copeland, Paolo Conte e Joe Bonamassa), il festival dei jazz veri e propri (in scena al Teatro Morlacchi e alla Sala Podiani della Galleria Nazionale dell’Umbria, con grandi artisti come Bill Frisell, Enrico Rava, Paolo Fresu, Fabrizio Bosso, Kenny Barron Trio, David Virelles e l’immenso Nduduzo Makhathini), e il festival delle strade, dei concerti gratuiti nei due palchi posti ai due poli di Corso Vannucci - piazza IV Novembre e Giardini Carducci - e delle jam session notturne nei locali del centro. Sì, il programma è stato estremamente corposo, sia in termini quantitativi che qualitativi. Chi decide di seguire il flusso del
festival, si trova a scivolare tra migliaia di persone per almeno dieci giorni, per molte ore al giorno, a rimbalzare ammirato tra i suoni di centinaia di musicisti. Ogni volta che ci si avvicina a un palco sembra necessario riorganizzarsi, rovistando nelle tasche in cerca dell’energia giusta, degli strumenti adatti ad assorbire il suono del momento. Chi, poi, vive e lavora più o meno in quegli spazi, sente inevitabilmente il trasporto della festa, organizzata a puntino per includere tutti, compresi quelli in cerca di fresco, la sera all’acropoli. Chi - come il direttore artistico Carlo Pagnotta, che ha inventato Umbria Jazz nel 1973, quello che oggi sembra un organismo invincibile, che gli somiglia molto - ama analizzare qualche “esperimento”, quest’anno non è certamente rimasto deluso. Tra questi vi è stato il sottoscritto che, slalomista ormai navigato, si è certo concesso il lusso di vedere un paio di decine di concerti, ma soprattutto di individuare il filo che si lega meglio a queste pagine. Cercando di far quadrare profili diversi, quindi, e accettando il piacevole compromesso che ha ispirato un Umbria Jazz con Dylan - ma anche con il quartetto di Branford Marsalis, Herbie Hancock, Marc Ribot e Rhiannon Giddens - non si può fare a meno di riportare alcune impressioni più storico-sociali sul festival. Perché si è intravista una
spinta (ulteriore) in avanti: forse il definitivo risveglio dopo i due anni di restrizioni, o forse l’apertura entusiastica stimolata dal giro di boa. Forse - e lo auspichiamo - la definitiva epifania: la consapevolezza chiara che cose straordinarie sono state fatte e grandi cose si possono fare mischiando le carte (ciò che abbiamo capito, dice il video introduttivo ai concerti dell’arena, è che vogliamo andare avanti altri cinquant’anni, “and beyond”). E, in definitiva, riconoscendo le verità ultime dell’ispirazione jazz: libertà, sperimentazione e novità. Questa consapevolezza, in particolare, è trapelata come una benedizione sugli spettatori del concerto di Rhiannon Giddens. Per due motivi principali. Semplici e veri: la sua bravura - senza paragoni - e la linearità della sua performance. Con questi due elementi ha amplificato cento volte il pensiero fondante del festival. Che, da parte sua, si è fatto trovare più che preparato ad assorbire un’esecuzione semplicissima nell’assetto - banjo e tamburello all’inizio, pianoforte e voce, violino e fisarmonica - ma intensissima. Rhiannon occupa il palco con Francesco Turrisi, che la supporta traducendo le sue parole, quando si rivolge al pubblico e, soprattutto, quando condivide la sua passione per la tradizione musicale italiana: che la Giddens sta studiando e che
riconsegna, a modo suo, con un omaggio a Lucilla Galeazzi. A dispetto delle critiche mosse a Dylan sull’assetto del suo spettacolo, Rhiannon occupa appena la punta del grande palco del Santa Giuliana. Dietro di lei c’è una quinta nera che la divide dal set degli Snarky Puppy, che suoneranno dopo. Il pubblico sembra quasi non accorgersi. Perché è tutto dentro quella voce, dentro quella storia cantata, popolare e americana: jazz. Dentro la riproduzione del vecchio banjo ottocentesco che imbraccia, e di cui va fiera. Ci dice, come se fossimo in classe, “originariamente il banjo aveva questo suono qua”. Delirio. Il concerto scorre veloce, i due si attestano poco più di un’ora di canzoni meravigliose. La sera dopo, li rivediamo ancora su quel palco. Ben Harper li ha invitati per un breve set banjo-chitarra-fisarmonica (intanto i suoi Innocent Criminals rifiatano: avranno un bel po’ da fare per accontentare un pubblico completamente travolto dalla loro potenza composta, che chiede grande ritmo, grandi riff, grandi assoli e bis). Il duo Giddens-Turrisi ci sta comunque a pennello: Ben - che ci ha regalato una performance straordinaria e che sembra poter suonare tutta la notte - non si lascia sfuggire l’occasione di un breve viaggio a ritroso, e introduce i due ospiti come “due tra i più grandi musicisti del mondo”. Di nuovo delirio. Immagino che il festival si possa
misurare attraverso diversi elementi, e l’eterogeneità della proposta è forse uno di quelli che salta meglio all’occhio. Ho l’impressione che, dopo appena qualche giorno, nessuno cerchi più un genere in particolare. Segue sì i suoi concerti, ma prova probabilmente il brivido di quel fluido che trasforma ciò che si guarda, che sposta la percezione di ciò che si sta facendo. Ognuno si trascina nel solco del programma e, come un disco che gira, segue il ritmo e l’andamento generale dettati dal festival. È una sensazione molto piacevole. E forse è quella giusta, alla quale - a ben vedere - non ci si può più di tanto sottrarre. Ho notato, sera dopo sera, sguardi ammaliati, volti appagati dall’avvicendamento di grandi artisti. Addirittura, sguardi complici tra spettatori che si ritrovavano un concerto dopo l’altro. L’entusiasmo ha travolto la platea sold-out di Paolo Conte, specie quando si alzava dal pianoforte e, aggrappato all’asta, avvicinava al pubblico la sua faccia solcata (“con la sua parlata grassa”), parzialmente coperta da occhiali da sole giallo acceso - a dir poco surreali. Il ritmo vellutato del suo concerto ha accarezzato una serata indimenticabile, velata da un equilibrio perfetto, come la sua orchestra senza tempo. D’altronde, come dice lui, “fa di te quello che vuoi”. Sappiamo che “l’orchestra è andata avanti”. 


Daniele Cestellini

Foto di Davide Morresi e Luca Falovo per Umbria Jazz

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