Si è svolto a Verona, al teatro Camploy, la sera dell’8 Maggio scorso un incontro promosso da Sergio Noto, docente di Storia del dipartimento di Scienze economiche, dal titolo “Tra due dittature. Serata con e per Wolf Biermann. Musica e parole di mezzo secolo di storia tedesca”, nell’ambito di valorizzazione di personaggi rilevanti della storia contemporanea. Organizzato dall’Università di Verona con la collaborazione anche dell’Amministrazione Comunale, ha visto la partecipazione sul palco assieme al protagonista, dei cantanti Alessio Lega, Neri Marcorè, Moni Ovadia e David Riondino. Dopo molti anni di amministrazioni culturalmente sorde e reazionarie finalmente anche Palazzo Barbieri ha omaggiato una “voce libera” d’Europa. L’ottantaseienne artista tedesco al mattino aveva ricevuto riconoscimenti sia dal sindaco Damiano Tommasi, che dal Rettore dell’Università Pierfrancesco Nocini. Percorrendo strade diverse da quelle artistiche, Biermann, nato a Amburgo il 15 novembre 1936, dopo gli studi obbligatori, si recò a Berlino per intraprendere la facoltà di Economia ma incontrò il teatro di Brecht. Emigrato nel 1953 a Berlino Est, fu studente e in seguito collaboratore del Maestro, registrando dischi clandestini che per assurdo lo resero noto in tutta la Germania. Alla maniera brechtiana divenne “fabbricatore di canzoni” pregne di gusto epico, anti-lirico e anti-borghese, di linguaggio popolare e di cantar recitando. Le opere di Bertold Brecht, che definì “lo Shakespeare della sua epoca” e dei suoi sommi musicisti Kurt Weill, Paul Dessau e in particolare Hans Heissler, lo travolsero totalmente: “Io non sono un poeta nato, prima di quel momento non mi era mai passato per la mente di scrivere una poesia perché nella mia famiglia i desideri erano molto più modesti, secondo mia madre, operaia e comunista, avrei semplicemente dovuto salvare l’umanità e ricostruire il Comunismo”. Finì però nel mirino della Stasi, l’organizzazione di sicurezza e
spionaggio della Repubblica Democratica Tedesca e del regime di Erich Honecker a causa delle sue avanguardistiche e profetiche posizioni. Nel 1974 venne privato della cittadinanza tedesca. Oggi è considerabile a tutti gli effetti il maggiore cantautore tedesco, oltre che uno dei più significativi poeti del dopoguerra. Proveniente da famiglia ebraica e da padre comunista, assassinato per mano nazista a Dachau, in Germania ha ricevuto le massime onorificenze, tra cui un dottorato alla Università von Humboldt di Berlino. Nel corso della serata Biermann, conversando con Noto ha raccontato molto di sé e delle sue scelte e ha anche cantato accompagnandosi alla chitarra, senza risparmiarsi. L’evento era iniziato con la consegna da parte di un giovane della propria tesi di laurea presso l’Università di Udine, incentrata proprio sulla sua figura. Wolf Biermann è stato uno dei pochi esempi d’uomo nel quale le canzoni hanno coinciso perfettamente con la propria vita, in senso non estetico ma profondamente esistenziale, dove politico e privato sono stati assolutamente sovrapponibili, “storie d’amore in un paesaggio politico” le ha definite. Enrico de Angelis ha ricordato come se le strutture letterarie di Birmann abbiano fatto riferimento a quelle dei grandi poeti tedeschi del passato, quali Johann Christian Friedrich Hölderlin o Christian Johann Heinrich Heine, a livello musicale sia stata
piuttosto la prima chanson francese ad ispirarlo. Il celebre binomio Prevert/Kosma, il canzoniere di Georges Brassens, passando anche per il quartetto vocale dei Frères Jacques e fino a giungere indietro all’immenso Francois Villon. Influenza che il cantautore tedesco ha testimoniato anche traducendo nella sua lingua note canzoni francesi, tra cui la celebre “Le temps des cerises”, inno della Comune di Parigi (scritta nel 1866 da Jean-Baptiste Clément, comunardo combattente durante la Semaine sanglante e musicata del compositore Antoine Renard, due anni dopo). Durante la serata al Camploy è poi intervenuto Alessio Lega per l’esecuzione di alcune versioni italiane di brani di Birmann da lui tradotti, affermando come la poesia russa e quell’intero popolo, a differenza del proprio regime, vivano culturalmente di pace e non di guerra “e quando arrivammo a riva lasciammo la barca...che cosa si può sognare in questa terra a metà?” La seconda traduzione “Malinconia” recita frasi lapidarie di grande effetto “afferro libertà ma stringo vento”, “un plotone non lo ferma il canto” e anche di grande sincerità “chi predica speranza è un impostore, chi uccide la speranza è un traditore, io faccio entrambe queste cose grigie”. Lega ha poi concluso
omaggiando anche Bulat Okudzhava con la “Canzone dei Ragazzi dell’Arbat” e Aleksandr Arkad'evič Galič (pseudonimo di Aleksandr Aronovič Ginzburg) col “Piccolo valzer dei cercatori d’oro” “per chi tace non serve censura”. Birmann nella DDR è stato boicottato, spiato, interrogato, a nemmeno trent’anni veniva già definito “nemico dello Stato”, fu la mancanza di libertà a creare in lui quella che definì “un’orgia della diffidenza”. Rivolgendosi ai propri vecchi compagni li esortava: “concludete bene la vostra opera e lasciate a noi il nuovo inizio”. I ripetuti divieti, per contrasto gli offersero celebrità, il che lo spinse a concluderne che “la museruola sulla bocca di un cantante popolare si trasforma presto in un microfono”. Nello svolgersi di questo incontro un po’ informale in teatro, misto di salotto e osteria, è toccato quindi a David Riondino. Ha proposto una sua versione italiana di un brano di Birmann “non diventare duro in questi tempi duri, chi sa graffiare graffia ma presto si spunterà, conserva il tuo dolore, non aver paura se tutti hanno paura, usa bene il tuo tempo, non lo disperdere”. Ha quindi proseguito recitando la traduzione de “Il cimitero degli Ugonotti”, storia di uno spazio silenzioso tra platani giganti in mezzo alla città chiassosa, dove una volta c’era tutto un grande
bosco ed ora dorme un sacco di gente famosa a fianco a sconosciuti. Amaramente il testo si conclude con la costatazione che i morti sono più vicini dei vivi. A questo Riondino fa seguire, a conclusione, un ironico monologo originale che esorta, piuttosto che armi, ad inviare in Ucraina divisioni di psicanalisti, truppe di santoni indiani, schiere di stregoni africani, di maestri di yoga Kundalini. E ancora alle fanfare dei nazionalisti invita a contrapporre Orfeo, Luna, Cupido e Venere al fine di far innamorare i neonazisti; oltre a batterie di musicisti e legioni di artisti che smantellino l’infausta idea che sia una bella cosa morire. Moni Ovadia che sappiamo da sempre assolutamente contrario a cantare canzoni tradotte, ha voluto specificare come l’italiano sia una lingua lirica e che tradurre una poesia possa valere la proposta di una canzone napoletana in giapponese. A maggior ragione ancor più valido ciò per una lingua come quella di Wolf, che morde letteralmente il canto. Ha rinnovato la stima per l’amico presso la cui casa ha soggiornato tre mesi ad Amburgo in un lontano passato con l’intero Ensemble Havadià e ricordato di come in un paio di spettacoli abbia inserito tre canzoni di Biermann. Ha poi enfaticamente rimarcato come questo artista abbia sempre
mostrato la sua radicale indipendenza dal potere, andando ad est quando tutti salivano sul carro verso ovest. Di come abbia preso per mano la Germania degli anni venti e trenta e quella dei grandi poeti dell’epoca precedente, nel tentativo di ritessere quello che i criminali nazisti avevano espropriato al popolo europeo, ovvero l’infranto di una cultura. Con la volontà tenace di riparare alla grande lacerazione tedesca e di restituire la bellezza perduta a quella lingua distrutta dall’infernale tedesco dei campi di concentramento che non era quella originale. Per similitudine Ovadia ha ricordato come la vicenda di Birmann in Germania sia anche affine a quella di Vladimir Vysockij nell’allora Unione Sovietica, entrambi bardi molto nazionali ma altrettanto proibiti e boicottati. In completo e totale disaccordo con Wolf ha infine ribadito, tra gli applausi d’approvazione del folto pubblico presente, che l’Europa ha dimenticato la propria grandezza e che l’allargamento della Nato si è rivelata essere una vera e propria dichiarazione di guerra mondiale. Birmann per propria onestà intellettuale, per essere passato attraverso la drammatica frattura della Germania, non potrà mai definirsi un “pacifista”, a causa della sua storia personale, formazione e convinzioni politiche. In continuità di libertà di pensiero, la serata è stata conclusa da Neri Marcorè che ha interpretato canzoni di Gaber-Luporini: “Un’idea”, “Le elezioni”, “La festa”, “Far finta di essere sani”, il monologo “Sogno in due tempi” e il finale corale “La libertà”. Il canto di tutti gli ospiti della serata veronese è stato sempre accompagnato dalla fisarmonica da Guido Baldoni.
Flavio Poltronieri
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