Michel Arbatz & Invités – L’ami qui dort: Michel Arbatz chante Cesare Pavese (Zigzags, 2022)

Manlio Todeschini è stato autore in precedenza, di una corrispondente ricerca riguardante anche le opere cinematografiche. Non è la prima volta che la straziante poesia di Cesare Pavese varca i confini transalpini in forma canzone. L’Ensemble di David Chevallier con la voce di Elise Caron, nel 2005 aveva inciso “The rest is silence”, musicando tredici liriche di “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, le ultime. Al contrario quest’ultimo progetto del bretone Michel Arbatz si concentra unicamente sulla poetica d’inizio carriera di Pavese, quella dei tempi di “Lavorare stanca”. Arbatz è uno storico cantautore nato artisticamente al tempo delle grandi lotte di classe d’inizio anni settanta che, col passare del tempo, si è sempre più concentrato sulla forza della poesia, prevalentemente francese. Ha consacrato in precedenza alcuni libri-cd a François Villon, Robert Desnos, Roland Dubillard, al Georges Brassens giovanile e al bretone René-Guy Cadou. Il disco ripercorre i versi delle poesie di Pavese con un leggero accompagnamento di chitarra ed interventi all’occasione di sassofono, pianoforte, violoncello, contrabbasso o più raramente di piccole percussioni e voce flamenca. Talvolta in un clima jazzato, sempre comunque acustico. Fa piacere questa iniziativa, ancor più considerando che la formazione e i principali interessi letterari di Pavese erano di stampo anglo-americano, anche se leggeva Mallarmé, Valery, Verlaine, Rimbaud e Baudelaire. Ma aveva percorso la “Antologia di Spoon River” di Edgar Lee Masters, l’avvocato di Chicago che narrava la provincia americana con gli occhi e la voce dei defunti di un immaginario cimitero del Mildwest. 
Quello stesso poetico disvelare di perbenismi, assassini, tradimenti, ingiustizie e ipocrisie di ogni genere, che affascinerà Fabrizio De André, muovendolo a rielaborare assieme a Giuseppe Bentivoglio e Nicola Piovani, le nove poesie che daranno vita a “Non al denaro, non all’amore, né al cielo” (1971). Il “mito americano” di Pavese (e di molti altri scrittori e genti della sua generazione) aveva rappresentato l’individuazione di una cultura di libertà e dignità da opporre a quella fascista. “L’amico che dorme” a cui ha collaborato anche il sottoscritto, è stato registrato tra il novembre 2021 e il settembre 2022 tra Montpellier, Bruxelles e Nantes da Michel Arbatz (voce, chitarra, bandonéon) e numerosi ospiti tra cui Olivier-Roman Garcia (chitarre, basso, batteria, supervisione musicale). A legare insieme le canzoni, il filo dell’intensa nostalgia di Natalia Ginzburg, con cinque interventi recitati, tratti dal suo “Ritratto d’un amico”, ricordo scritto a Roma nel 1957 e pubblicato dal settimanale Radiocorriere. Si compone inoltre di un libretto stampato a Sofia (Bulgaria) di oltre settanta pagine contenente i testi tradotti, diverse foto d’epoca e alcune originali più una presentazione del poeta di Santo Stefano Belbo. Le relative musiche sono composte da Michel Arbatz, Pierre Bénichou, Thibaud Defever, Léo Ferré, Nicolas Jules, Olivier-Roman Garcia. “Chorus di sax” (A solo di saxofono) è un testo scritto tra fine maggio e inizio giugno del 1929 e tratto da “Blues della grande città”, nel quale Pavese assimila la propria voce al grido di un sassofono che emerge di voce barbara, da un’orchestra in sordina “ecco che la mia vita s’è frantumata a terra come un vetro, la stanchezza che prima la reggeva è scomparsa nel vortice del suono, resta l’anima inutile e le note si afferrano più acute nell’aria, contorcendosi...tutta l’anima mia rabbrividisce e trema e s’abbandona al saxofono rauco. E’ una donna in balia di un amante, una foglia dentro il vento, un miracolo, una musica anch’essa”
Non conosco le preferenze musicali di Cesare: si sa che conosceva fin dagli anni del liceo, Massimo Mila, che diventerà uno dei maggiori musicologi nazionali del secolo scorso, appassionato di Giuseppe Verdi. Sempre in quel giugno 1929 Pavese titolò un poesia “Jazz melanconico” e un’altra, nel dicembre di due anni dopo, “Il blues dei blues”. Ma il nuovo jazz che giungeva in Italia d’oltreoceano ai tempi di Pavese, apparteneva all’ambiente intellettuale che egli frequentò in età matura. Nelle feste danzanti delle valli descritte nei romanzi non potevano essere certo quelli i suoni che accompagnavano le bevute delle allegre comitive paesane che arrivavano dai dintorni su carri da buoi, biciclette e qualche moto. Il Poeta racconta come in quei luoghi la musica delle fiere ambulanti si mescolasse con il profumo delle donne, mentre i bagliori del fuoco accecavano i campi riempiendo di fumo le speranze nel domani. I riti e le visioni contadine di sangue e fertilità, proprie di donne e terra, a contrasto con certe sterilità maschili (la sua per prima), che escono dalla sua penna assomigliano a una “poesia etnica”. Le righe sembrano talvolta disegnare quell’antica abitudine celtica, ben presente in tutto il Nord Italia, di trasformare piccole cronache quotidiane in leggende. Molte delle quali oggi le conosciamo grazie all’iniziale arte orale popolare e bardica che, sconfiggendo le lontananze, le ha tramandate nei secoli di generazione in generazione. Le ha anche trasformate in canzoni epiche e leggendarie che hanno ammaliato e affascinato un gran numero di musicisti e ascoltatori degli ultimi decenni. Proseguendo con l’ascolto de “L’amico che dorme”, l’adolescenziale “Paresse” (Ozio) descrive in terza persona le pigre giornate del protagonista Masino come si trattasse del suo stesso autore Cesare che le racconta ad un diario intimo. Dice anche di una banda musicale di amici con clarino e chitarre che gli avevano offerto il ruolo di cantante ma lui aveva risposto che avrebbe cantato se e quando gli sarebbe piaciuto e senza compenso. Non molti anni più tardi sentenzierà secco che “L’ozio rende lente le ore e veloci gli anni”. All’epoca della composizione di “Création” (Creazione) Cesare aveva poco più di ventisei anni, eppure scrive già severamente “sono vivo...passa un vecchio in distanza che va a lavorare o a godere il mattino, non siamo diversi...ciascuno darà una sua voce”. Nello scorrere del disco di Arbatz si ritrovano inoltre le poesie epico-narrative, con l’io fantasioso di Pavese che raccontando ne “Les mers du sud” (I mari del sud), le avventure diventate realtà del cugino langarolo quand’era pescatore di perle nell’Oceano Pacifico, introduce il mito del ritorno. 
I due camminano sul fianco scosceso e il protagonista parla “lento il dialetto che, come le pietre di questo stesso colle, è scabro tanto che vent’anni di idiomi e di oceani diversi non gliel’hanno scalfito”. Altrove Pavese narra della vita delle tante prostitute di Torino. Come Deola, che alla mattina va a sedersi al tavolino del caffè immaginandosi attrice a “bere il suo latte e mangiare brioches” senza cercare nessuno, dopo che durante tutta la notte soldati e operai le hanno spezzato la schiena (A quoi pense Deola? - Pensieri di Deola). Ci sono poi i pensieri che risvegliano “La putain paysanne” (La puttana contadina) dal “corpo intrecciato al lenzuolo” tra ricordi d’infanzia nella stalla e la triste giornata di oggi. Un’altra prostituta è quella di “Deux cigarettes” (Due sigarette) che “guarda i riflessi dell’asfalto sui corsi che si aprono lucidi al vento” ripensando alla sciarpa brasiliana oramai smarrita che un marinaio le regalò. Un marinaio che, come in un cerchio immaginario dove il centro ognuno lo mette dove vuole, gioca a far ritornare l’epica dei personaggi e dei paesi all’iniziale “I mari del sud”. Poesie incentrate sull’incontro di due creature sole perché il reale centro poetico di “Lavorare stanca”, è sempre e unicamente la solitudine. Sembra quasi che tutta la narrativa pavesiana sia stata fin da subito consapevole dell’agguato di un destino che è l’unico motore degli eventi. Alla fine del suo percorso Cesare scriverà “Questo paese dove sono nato, ho creduto per molto tempo che fosse tutto il mondo. Adesso che il mondo l'ho visto davvero e so che è fatto di tanti piccoli paesi, non so se da ragazzo mi sbagliavo poi di molto.” Deola è un personaggio che tornerà in seguito nella prima poesia scritta dopo il confino, un altro autobiografico testo nel quale lo spaesato poeta si nasconde dietro la
 
figura della prostituta. La donna per Cesare rimarrà sempre colei “che trasforma il sapore remoto del vento in sapore di carne”. Quasi a ritmo di blues, si ritrovano quindi i meccanici di “Atlantic oil” dalla giornata dove “la puzza degli olii si mesce all’odore di verde, di tabacco e di vino e il lavoro li viene a trovare sulla porta di casa”. Gente che a causa delle fatiche del lavoro si butta a sera felicemente ubriaca in un fosso come si trattasse di un comodo letto per risvegliarsi al mattino ricoperta da polvere e rugiada. E “Ancêtres” (Antenati) che, seppur descrivendo una condizione sociale di patriarcato contadino, quasi fosse ancora una pagina di diario, contiene quelle disanimate prese di coscienza di Pavese che tanto hanno saputo toccare l’animo di molti lettori: “ho trovato compagni trovando me stesso”, “ho trovato una terra trovando i compagni”, “siamo nati per girovagare su quelle colline, senza donne, e le mani tenerle dietro la schiena”. “L'enfant qui etait en moi” (Il ragazzo che era in me) descrive la fine dell’infanzia, l’impietosa presa di coscienza della propria vigliaccheria nascondersi dietro lo spavento. Lui che stava solo giocando a fare l’indiano tatuato in cerca di bisonti, tirando frecce e vibrando la lancia nel proprio immaginario Far-west, così vicino nella trama a quello di Jacques Brel. “Travailler fatigue” (Lavorare stanca) del 1934 (da non confondersi con l’omonima poesia del luglio dell’anno precedente) contiene una di quelle riflessioni spietate che riassumono una vita intera: “Val la pena esser solo, per essere sempre più solo?” Quella incarnata in “La vieille ivrogne” (La vecchia ubriaca) è la memoria senile che ripercorre i tempi del desiderio e dei morti che rimarranno giovani in eterno. Mentre intanto, ancora una volta, le colline regalano suggestioni sessuali “Per vigne e sentieri si fa carne il ricordo, la vecchia, occhi chiusi, gode immobile il cielo col suo corpo d’allora”. Pavese considera scoperte le cose solamente attraverso il ricordo che se ne ha, come se solo evocandole venissero viste davvero per la prima volta. “I veri acciacchi dell’età” scriverà “sono i rimorsi”. E nelle stesse colline dove quelle vigne salgono “fino a incidersi nel cielo” le ragazze di vent’anni “sono il frutto più sano” e “hanno nomi fantastici presi nei libri: Flora, Lidia, Cordelia” (Maestrine). “Le dieu bouc” (Il dio caprone) è una poesia ancestrale che descrive l’amore smembrato. All’epoca venne ritenuta censurabile dal potere non tanto politicamente quanto moralmente, a causa di un supposto sottinteso ad una erezione evidenziata dal termine “drizzarsi” utilizzato per ben due volte dall’autore al suo interno. 
L’angoscia delle atrocità che contiene evoca accoppiamenti selvaggi in una cruda campagna di tradizione, popolata da satiri e fauni. “Paternité” (Paternità), scritta nell’ottobre del 1935 a Brancaleone Calabro durante il confino sulla costa ionica-reggina, mescola il sangue e il sesso, la gioventù e la vecchiaia in un delirio di immagini nostalgiche. La Calabria è un confino “dorato”, non è certo la Siberia o il lager nazista che toccò in sorte a tanti poeti di Resistenze. Per il regime di Mussolini, Pavese altro non era che un “relitto del vecchio mondo letterario demo-liberale distrutto dal fascismo” (come lo definì l’allora capo della polizia di regime, tale Arturo Bocchini). Per lui invece, stoico e mai auto-indulgente com’era, dopo quel periodo passato con le “spalle rivolte alla ferrovia e al mare” e con i gerani calabresi a fargli da “pareti e orizzonti”, quasi niente restava di recuperabile. La prigione (che evidentemente non è quella di Brancaleone) si era presa molto dell’uomo, se è vero che, come scrive, il pezzo di pane non aveva più l’immaginato gusto della lepre e oramai neppure quello del pane, mentre il bicchiere di vino sapeva di nebbia. Così la lepre che Cesare intravede alla fine de “L’uomo solo” (il cui titolo originale è “Semplicità”) altro non è che il crudo simboleggiare della sua vita che si allontana. Questa canzone viene qui riproposta in italiano dalla voce di Leo Ferrè che l’aveva magistralmente musicata e incisa come lato B di un 45 giri uscito nel giugno del 1969 (il lato A comprendeva un altro testo di Pavese: "Verrà la morte"). “Le vin triste” (Il vino triste) di Pavese non è nemmeno quello “bello, bianco e rosso” che Piero Ciampi amava, quanto quello grottesco e schietto di un vecchio sbronzo che piange “con tutto il suo corpo” e ti casca addosso chiedendoti perdono dopo essere ritornato dal fronte di guerra. Gli unici momenti sereni si trovano in “Après” (Dopo) che mescola la distesa collina percorsa dai brani di nebbia con la finestra che ne accoglie il fiato, il bisbiglìo della pioggia leggera sulle case con la nuda umidità dei corpi. E poi in “Parole del politico” (che Arbatz personalmente preferisce titolare “Paroles de l’exilé” per donarle oggi una risonanza più larga) che descrive la giornata estiva di Brancaleone Calabro, in un ambiente non abituale per Pavese, tra mercato del pesce e donne con le anfore sulla testa. Sempre però con la mente rivolta al ritorno a Torino. La spietata “L’amico che dorme” che dona inizio e titolo all’intera raccolta, è interpretata da Arbatz in italiano e pur essendo una poesia del 1937 sembra già auto-fotografare
con largo anticipo, quell’immagine che purtroppo risulterà definitiva:“Guarderemo l’amico, le sue inutili labbra che non dicono nulla, parleremo sommesso”. Inesorabile, Cesare Pavese si chiedeva: “Se è vero che ci si abitua al dolore, come mai con l'andar degli anni si soffre sempre di più?” Artista-artigiano, continuò imperterrito a travasare tormento a profusione nelle parole scritte, cercando esclusivamente dentro se stesso la propria primaria fonte d’ispirazione. Aveva eletto a sua bottega tra le vigne, la terra contadina del Basso Piemonte, nella quale incontrare demoni e olimpi. In quelle collinette, i falò legati alla ritualità oggi non bruciano più e così ovunque negli antichi luoghi dei miti pre-cristiani, ma se talvolta qualcuno vedrà bruciarne anche uno solo in quelle Langhe, non potrà non tornare con la memoria a lui. Per tutti gli altri restano le complicità esistenziali che lo hanno reso immortale. La essenziale lapidarietà di: “Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?” In nemmeno quarantadue anni di vita, Cesare Pavese pose l’inutile domanda e cercò dappertutto la risposta che non c’è, perfino dietro le efelidi rosse di una ragazza americana di passaggio. Non si ricorderà mai abbastanza la sua opera letteraria e non si dimenticherà mai quella maledetta stanza n° 46. E lui, così atrocemente serio come si è sempre in ogni gioco, quando si gioca da soli. 

Flavio Poltronieri

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